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“– Sono passati 30 anni da quando sognavo di stare con te…e finalmente eccoci insieme!”

Lo spazio è quello di due pagine nere. Nell’angolo a destra, un rettangolo di immagini bianche e spezzate taglia l’oscurità. È la vetta di una città nella notte. Il mare in lontananza, i tetti delle case. È una città che sembra spoglia e silenziosa C’è solo una finestra, e la luce dentro è accesa.

“– Tornare qui… tra i fantasmi…

Dopo tutti questi anni, dopo i nostri matrimoni, i figli e diverse guerre…

– L’essenziale è che ci siamo ritrovati. Finalmente.

– Per parlare di Nasser! Della mia gelosia e del tuo amore per un uomo che oggi hanno dimenticato quasi tutti!

– Sono fatte di questo le storie di una città.

Ed è questo che fa di Beirut Beirut”.

***

Il pomeriggio del 4 agosto 2020, due esplosioni ravvicinate sono scoppiate nel porto di Beirut, uno dei principali porti del Mediterraneo orientale. La seconda esplosione, che ha scosso violentemente il centro della città, è stata avvertita a quasi 250 kilometri di distanza ed è stata pari ad un evento sismico di magnitudine 3.3. Il porto di Beirut comprendeva quattro bacini, 16 banchine e 12 magazzini. Rappresentava il primo punto di accesso marittimo del paese e uno dei principali per il commercio dell’intera regione.

Le quasi 3000 tonnellate di nitrato d’ammonio che hanno causato le esplosioni provenivano dalla nave di proprietà russa MV Rhosus. Nel 2014 erano state confiscate dal governo libanese. Nonostante la piena consapevolezza del grave pericolo e le reiterate richieste di spostamento, dal 2014 sono rimaste nel porto. Sono morte oltre 250 persone e più di 7000 sono state ferite.

I responsabili della recente esplosione sono i nijnja della Trilogia di Beirut (Mesogea, 2018): gli uomini armati e incappucciati che pattugliano la città, danno fuoco alla stampa libera, reprimono il dissenso; gli uomini “coccodrilli” che la demoliscono, la ricostruiscono, la svendono ai colossi del Golfo – “Avete tre minuti per andarvene!”, gridano ai cittadini, “questa città è privata!”; gli uomini “tartarughe” che, nella crisi dei rifiuti del 2016, quando la città si ricoprì di rifiuti maleodoranti e pericolosi, scomparvero. Sono la corrotta élite politica libanese che, allora come oggi, ha grandi responsabilità nel dolore della “Svizzera del Medio-oriente”. Ed è di questo che parla la Trilogia: di questo dolore, dei suoi responsabili, e dei motivi per i quali, fino alla metà degli anni 70, Beirut era la “Svizzera dorata”: un’oasi di pace, benessere, discussione politica e fermento artistico.

Tradotte per la prima volta in Italia, la Trilogia è la raccolta di tre opere: Beirut (1995), Beirut Bye Bye (2015) e Beirut Rewind (2017). “Quando ho disegnato il primo non c’era l’idea di fare il secondo o il terzo”, commenta l’artista Barrack Rima in occasione dell’uscita in Italia. “Beirut, il primo, è stato il lavoro conclusivo dell’Accademia di Belle Arti a Bruxelles, dove ho studiato. Un editore libanese voleva pubblicare un libro su Beirut ma erano passati 20 anni da quando avevo scritto il primo e non ne ero così soddisfatto. Mi ci sono rimesso nel 2015 e poi nel 2017. Ed eccolo qui”.

Barrack Rima è nato nel 1972 a Tripoli, la seconda città libanese, e ha studiato illustrazioni e arti visive all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. È fumettista e cineasta. Vive e lavora tra Bruxelles e Beirut. È uno dei fondatori del collettivo artistico “Samandal” (“salamandra” in arabo) che raccoglie fumettisti e illustratori libanesi e della regione e promuove la graphic novel come forma artistica e di resistenza.

Le immagini della Trilogia sono in buona parte spezzate, brusche, sofferenti. Molte sono geometriche ma storte, dettagliate ma confuse: il contrasto delle figure bianche sul nero e nere sul bianco conferisce un tono sofferto, bellicoso, combattuto. Sono immagini che parlano di donne, uomini, speranze e delusioni: sono le storie di Beirut che, a loro volta, sono la Storia. A raccontarla è lo “hakawati”: in arabo, il cantastorie. “Non sono né un eroe né un personaggio leggendario, sono un cantastorie, un hakawati, come si dice a Beirut”.

“Lo hakawati è una figura che fa parte dell’immaginario del Libano e del mondo arabo, in cui era diffusissimo”, spiega l’autore. “Io non l’ho mai visto perché era già scomparso prima che nascessi ma quando eravamo bambini ci raccontavano di questa figura: i nostri genitori l’hanno appena conosciuta, i nostri nonni, invece, con lo hawakati hanno conosciuto il mondo”. Uno hawakati che nella Trilogia assume varie forme, dà voce a varie persone, varie figure.

Lo hakawati dà voce all’autobus della “Gioventù Nasseriana araba”, dove si “cantavano canzoni anti-israeliane come se fosse cantando che avremmo liberato la Palestina”. Riporta in vita la madre di Rima: la donna forte e politicamente impegnata che appare al figlio come in sogno e gli mostra la Beirut degli anni 60. Racconta la Beirut piena di speranza che, fino alla metà degli anni 70, ha visto nel grande leader egiziano, Gamal Abdel Nasser e nel “panarabismo” il sogno della pace, della Palestina libera, dell’unità del mondo arabo e della bandiera socialista contro le potenze imperiali occidentali. Un sogno che sarebbe finito bruscamente con la sconfitta del 67: la fine della “guerra dei sei giorni” e la vittoria di Israele sull’Egitto di Nasser (con conseguente annessione allo stato di Israele della Striscia di Gaza, la West Bank e i Golan Heights e la fine del sogno palestinese).

Lo hakawati è anche la bambina che attraversa la città coperta di rifiuti nella crisi del 2016 quando, a seguito della chiusura della principale discarica della città, una delle più grandi del paese, Beirut fu sotterrata dall’immondizia, da rifiuti più o meno tossici e letali. È Hanzala, il profugo palestinese, che a Beirut “osserv[a], analizz[a], deduc[e]. S[a] tutto, però non dic[e] niente… ma il giorno in cui comincerà a parlare…”

In un continuo viaggio della memoria, lo hawakati dà voce a Rima stesso e a tutti quelli come lui: i profughi. Gli uomini e le donne che continuano a “errare in questa città” e non sanno più “su quale terra piangere”. “C’è anche il sentimento dell’esilio”, spiega Rima parlando della Trilogia. “È un sentimento in parte positivo, perché la lontananza permette uno sguardo da lontano sulla propria terra. Ma anche è un sentimento di lacrime, assenza, perdita della propria terra. La distanza permette uno sguardo universale, universalista ma ci rende anche un po’ orfani”.

La cantante Fairouz in un graffito a Beirut, foto di Enrica Fei

“Oggi siamo noi i nuovi hakawati: scriviamo libri, facciamo fumetti, cinema, nuove forme di narrazione”, conclude l’autore. “Siamo i cantastorie moderni. Lo hakawati aiuta a affrontare la memoria. La memoria presente e dolorosa, che lui cerca di rendere più sopportabile. È quello che cerco di fare io: rielaborare i grandi lutti e traumi della mia città e del mio paese grazie alle storie dei suoi abitanti: storie di amore, lotta e speranza”.

Graffito a Beirut, foto di Enrica Fei

Graffito a Beirut, foto di Enrica Fei

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Enrica Fei, arabista, studentessa di dottorato in Politiche del Medio Oriente, analista su Iraq e Iran per un’agenzia di consulenza, è scrittrice di racconti, testi teatrali, recensioni e articoli su Medio Oriente e società. Divisa fra la passione per la letteratura e quella per il settore socio-umanitario e gli affari internazionali, studia lingua e letteratura araba e francese, mediazione inter mediterranea e relazioni internazionali. Viaggia molto, soprattutto nel Medio Oriente (in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Libano, Bahrain, Kuwait e Iran). In Giordania studia per più di un anno all’Istituto Qasid, dove perfeziona il suo livello di arabo che, ad oggi, utilizza correntemente per lavoro. Ha vissuto a lungo a Londra ma, nel 2018, si è trasferita a Berlino. Vive tra Berlino e Firenze. Sta curando la traduzione dall’arabo del poeta arabo Ahmad al-ʿAjmii.

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