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C’è stato un tempo in cui gli autori di un’opera letteraria non firmavano il proprio manoscritto, un tempo in cui invece sono finiti in prima pagina insieme al titolo del libro, e un tempo in cui il loro nome veniva adattato (quando non storpiato) in base alla lingua di arrivo di questa o quella parte del mondo. E traduttori e traduttrici?

Nella penisola italica inizialmente la tendenza consisteva nell’inserire in ordine autore, titolo e poi traduttore, come capitò per esempio nella celebre traduzione del Don Quijote cervantesco curata per la prima volta da Lorenzo Franciosini nel 1622. Con i secoli, e fino ad arrivare alla metà del Novecento, alterne vicende hanno portato gli editori a glissare sul nome di chi avesse tradotto un tale romanzo, saggio o racconto – «O tempora, o mores!», avrebbe esclamato Cicerone, se avesse potuto.

In un’epoca come quella medievale, durante la quale l’attenzione non era focalizzata tanto sul genio umano quanto sullo spessore morale dei testi che valeva la pena divulgare, l’atto di glissare su un determinato nome o cognome aveva un profondo significato culturale, che era valido per tutti e che era appunto dettato da una visione del mondo e del concetto di arte. Ben diverso, dopo l’Umanesimo prima e il Romanticismo poi, è però il ruolo dell’artista e del letterato all’interno della società, secondo il canone occidentale del quale volenti o nolenti facciamo parte.

Di conseguenza, risulta davvero inaccettabile che diverse edizioni del secolo scorso – per limitarci diplomaticamente all’ormai trascorso XX secolo – non recassero insieme al nome di autori e autrici anche quello di chi si era occupato di tradurne l’opera. Né vi parlo di costumi ormai caduti in disuso da chissà quanti decenni, dal momento che proprio il mese scorso mi è capitato di partecipare alla riunione mensile di un club di lettura della mia città e di spulciare una ristampa cartacea de I viaggi di Gulliver del 2012 edita da Crescere Edizioni in cui non c’era la benché minima traccia della persona alla quale si doveva quella specifica versione italiana.

D’altronde, non credo siano numerosi i casi in cui si entra in libreria o si spulcia un titolo online e si trova in maniera facile e immediata il nome di chi ha scritto e quello di chi ha tradotto, dato che si tratta di una cattiva abitudine ancora in vigore nel Belpaese. Eppure, entrambi i mestieri richiedono una dose di perizia e di estro imprescindibili, una certa formazione e una grande professionalità, un duro lavoro e diverse revisioni, un impegno economico e contrattuale, uno sforzo psicofisico e creativo, una sfida intellettuale di non poco conto e un esito non necessariamente positivo e apprezzato da pubblico e critica.

Anche solo per queste ragioni, quindi, sarebbe quantomeno doveroso menzionare chi traduce in un punto del testo che magari non sia il pedice del colophon o il frontespizio soltanto. Chi legge una penna straniera nella propria lingua madre, infatti, lo deve a chi ha finanziato il lavoro e creduto nel progetto, a chi ha acquistato i diritti e distribuito il volume, e in buona parte a chi è riuscito a trasferire da un universo immaginativo all’altro un’intera storia, uno stile ben preciso, un ritmo e non un altro, motivo per cui ha il diritto (e il dovere) di essere al corrente della persona con cui ha a che fare.

Un domani potrebbe scegliere di evitare altri libri che le sono stati commissionati, se non ha apprezzato la resa, o viceversa potrebbe decidere di informarsi sul suo conto e aggiornarsi periodicamente su suoi nuovi lavori, se ha ritenuto di qualità il suo operato. Lo stesso potrebbero fare case editrici ed enti culturali di ogni tipo, dal mondo giornalistico a quello letterario in senso stretto, motivo per cui la responsabilità e l’attestazione di una traduzione andrebbero esplicitate di prassi. Sfortunatamente, si tratta dell’ennesima croce e delizia del settore, che tuttavia ci auguriamo venga via via risolta in Italia e all’estero.

Per tenere traccia dei progressi in merito, il portale online Biblit. Idee e risorse per traduttori letterari ha di recente pubblicato un «piccolo elenco di editori che segnalano con particolare rilievo il nome del traduttore», con la speranza – come si legge sul sito stesso – che l’elenco si allunghi presto e bene. Nel frattempo, citare la questione e fare la propria parte anche da lettori e lettrici può risultare fondamentale per sensibilizzare chi ci circonda sull’argomento in questione.

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La catanese Eva Mascolino, 24 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all'estero nel corso della sua formazione universitaria. Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie", collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, L’Irrequieto, Sicilian Post), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi. Nel 2018 ha pubblicato il racconto "Vladimir’s Blues" con Aulino Editore, mentre con "L’uomo di colore" è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Catania, dove ha di recente svolto il ruolo di collaboratrice editoriale per la prima edizione del festival letterario EtnaBook.

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