Numerosi sono i contesti in cui chi traduce è portato, per scelta o per necessità, a rendere più immediato un concetto, cioè a eliminare ogni mediazione tra le parole e la persona che ne fruirà, tra il testo e chi vorrà leggerlo. Talvolta capita per ragioni di spazio, se per esempio uno spot pubblicitario o il post su un social network deve mantenere un certo numero di caratteri anche a costo di eliminare un avverbio, optare per un sinonimo bisillabico o riformulare una frase in maniera più sintetica. Altre volte, com’è prevedibile, accade per una questione di gap culturale o linguistico.
Se abbiamo a che fare con un realia, infatti, è complicato mantenere il medesimo grado di complessità nell’idioma verso cui stiamo traducendo, perché verosimilmente i nostri destinatari non possiedono neppure la categoria mentale del termine (o del sintagma) a cui stiamo facendo riferimento. Per questo motivo riuscire a spiegare l’intraducibile, inventando di sana pianta qualcosa che nell’immaginario collettivo di arrivo ancora non esiste, è una croce e al tempo stesso una delizia di enorme portata.
Non da meno, tuttavia, è il procedimento opposto. La distanza tra due visioni del mondo, infatti, può misurarsi non solo nella difficoltà di semplificare un’idea senza privarla delle sue diverse sfaccettature, ma anche nella sfida di mantenere di rapida comprensione ciò che in un’altra lingua è tutt’altro che facile da esprimere. Nello specifico, di recente me ne sono accorta e ho dovuto rimboccarmi le maniche in prima persona nel tradurre prima alcune poesie di Jane Mead dall’inglese e poi un paio di componimenti di Anna Achmatova dal russo, ai quali sto ancora lavorando.
Con entrambe mi è capitata un’esperienza straordinaria, ovvero letteralmente fuori dall’ordinario. I versi in originale erano così chiari ed evocativi che scegliere in italiano una formula altrettanto efficace è risultato a tratti impossibile. Fate’s a stable lesson / after all: the trees / can’t grow into the / prevailing wind – the / bird-like hands / can’t fly, recitano per esempio le prime due quartine di High Cliff Coming composte dalla scrittrice americana di cui vi parlavo. Il senso è inequivocabile, la sua trasposizione con parole altrettanto corte e suggestive ha richiesto però una serie di tentativi intermedi, che con non poca fatica mi hanno infine portato a: Il Fato ha una lezione stabile / dopotutto: agli alberi / è vietato crescere dove / comanda il vento – alle / mani a uccello / volare.
Per non parlare dei versi dell’intellettuale pietroburghese di cui mi sto occupando al momento. Nella prima strofa di Приходи на меня посмотреть (tradotta, finora solo in inglese, come Come and look at me), infatti, la rima alternata si accompagna a un’anafora tra i primi due versi seguita da un’anafora tra il terzo e il quarto. Tempo fa avevo scritto un articolo dedicato all’importanza di tradurre le rime, o quantomeno al tentativo di non ignorarle a piè pari quando sono presenti nel testo di partenza, ma per l’ennesima volta salvare capre e cavoli non è un gioco da ragazzi – giusto per mantenerci in tema di linguaggio metaforico, avete notato?
Non è la prima occasione in cui la faccenda risulta intricata, né sarà l’ultima. Qualcuno azzarderebbe perfino che in fin dei conti è inutile tradurre la poesia, specie quando richiede un tale livello di sforzo creativo pur nel pieno rispetto dell’originale, e che più piacevole sarebbe aggirare il problema eliminandolo alla radice. A me, invece, il processo di complessificazione affascina profondamente. Il verso di Achmatova diventerà un endecasillabo con schema di rime ABAB, dovesse cascare il mondo. E le sue due anafore resteranno al loro posto, per quanto gli equivalenti italiani dei termini scelti dall’autrice abbiano un numero di sillabe e una varietà di sinonimi ridotte al punto da fare impallidire chiunque.
C’è una ragione se non si trovano proposte di traduzione di questo componimento nella nostra lingua, però c’è una ragione ancora più importante per la quale sento di volerne avanzare una mia. Come ha scritto Ernesto Ferrero, infatti, chi traduce «resta tra i pochi che sentono ancora la responsabilità della parola, e per quella si batte ogni giorno, come su una barricata o in una trincea, o per usare metafore meno bellicose, nel chiuso di un laboratorio artigianale. La parola da restituire alla sua pienezza originaria, alla sua pregnanza perduta, a una ritrovata forza espressiva»*. Una parola troppo preziosa per essere abbandonata.
*Ferrero E., Custodi della responsabilità della parola, in Arduini S. e Carmignani I. (a cura di), L’arte di esitare. Dodici discorsi sulla traduzione, Marcos y Marcos, Milano, 2019, p. 8.
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