La questione di cui ci occupiamo oggi può apparire scontata, anche se la risposta in realtà si articola su diversi piani e non sempre si rivela prevedibile come sembrerebbe su due piedi. Per capire il motivo che spinge un editore ad affidare la traduzione di un’opera a un traduttore che si è già occupato del medesimo autore o della medesima autrice in passato, infatti, è necessario prendere in considerazione più di un fattore.
Senza dubbio la ragione principale non si limita a un Perché ci si è trovati bene a collaborare con lui, se è lo stesso editore a detenere ancora i diritti, o a un Perché aveva svolto un buon lavoro la prima volta in linea più generale. Ci si può trovare bene con un professionista sul piano umano, economico e delle tempistiche senza per questo giudicare positivamente la qualità o il taglio del prodotto finito, per esempio, così come si può avere apprezzato una sua commissione precedente pur nutrendo dei dubbi sulle sue capacità di operare su un testo di altra natura nato dalla stessa penna.
Se si ricontatta la stessa persona in più di un caso, dunque, è perché si va al di là di questa dimensione “superficiale”. In primo luogo, il motivo potrebbe consistere nel fatto che un determinato traduttore si è già posto delle domande su stile, ritmo e significati ricorrenti in uno scrittore, dandosi delle risposte che sono risultate efficaci e coerenti con la versione pubblicata in lingua originale. In circostanze simili, sarebbe un peccato, nonché uno spreco di tempo e di energie, rivolgersi a terzi quando esiste qualcuno che si ritroverebbe già agevolato e avrebbe una migliore cognizione di causa in materia. Mi viene in mente su tutte Amélie Nothomb, scrittrice belga tradotta in Italia da Voland, che in oltre un decennio si è raccomandata a tre sole traduttrici, rimaste “in carica” per anni: Biancamaria Bruno, Monica Capuani e di recente Isabella Mattazzi.
In secondo luogo, il vantaggio del collaborare spesso con lo stesso professionista consente di andare sul sicuro in termini di riconoscimento di certi pattern o di un certo “lessico familiare”. Spesso, d’altronde, gli autori utilizzano delle strategie ricorrenti nelle proprie opere, oppure sono affezionati a parole specifiche che appaiono in più manoscritti. Ebbene, se un traduttore ha familiarità con la lingua di un intellettuale, gli sarà più semplice identificare tali elementi e mantenere una certa uniformità nella resa italiana anche in opere diverse. Esempio eclatante in merito è costituito dalla saga di Harry Potter e dal fumetto di Astérix e Obélix, in cui le scelte dei toponimi o dei nomi di alcuni protagonisti dovevano rimanere inalterate da un volume all’altro.
Ultimo punto, ma non per importanza, è rappresentato dalla cosiddetta «voce del testo»*, che con una perifrasi potremmo definire la sintesi di respiro e ritmo, di sintassi e sregolatezze, di creatività e cliché narratologici. Chiunque scriva per mestiere ne ha almeno una, che può rimodulare o declinare caso per caso, sulla base dei generi e dei tipi testuali, o anche solo della sua evoluzione personale. Ne consegue che una traduzione deve avere una voce altrettanto chiara, definita, rintracciabile. Stephen King non può essere confuso con Jane Austen, leggere Cervantes non è come leggere Zafón, e lo stesso vale con personalità che oltre alla stessa lingua madre condividono periodo storico e/o background culturale. C’è un’unicità, in letteratura, che è imprescindibile e sacra, tanto in patria quanto nei Paesi in cui si viene tradotti.
Ciò significa che, se un bravo professionista ha già rintracciato per uno scrittore una voce in grado di valorizzarlo, di renderlo riconoscibile e acclamato, e alla quale il suo pubblico si è affezionato in maniera spontanea, sarebbe controproducente rischiare una brusca virata optando per un suo sostituto. Naturalmente, la croce insita in questa tendenza alla conservazione consiste talvolta nel senso di responsabilità che si prova quando non si vuole deludere né un editore né i destinatari dell’opera a cui si sta lavorando. Se si viene ricontattati per tradurre di nuovo una penna specifica, però, se non altro si intuisce con una buona dose di delizia interiore che il proprio operato è stato gradito in passato e che si è diventati un punto di riferimento in positivo: un desiderio proibito che qualunque traduttore letterario ha nutrito almeno una volta nella vita.
*Cfr. F. Cavagnoli, La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre, Feltrinelli Editore, Milano, 2012.
Associazione Culturale L'Irrequieto
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