In “A passeggio con John Keats” Julio Cortázar scrive una riflessione che vale per tutte le note di lettura che scriverò in questo spazio.
“… una cosa sono le influenze e un’altra le corrispondenze, e (…) se le prime sono il pane di Graham quotidiano dei professori, le seconde interessano noi, uccelli liberi che scrivono «per sentire, più che per dimostrare» …”
Il pane di Graham è un pane integrale, per chi se lo stesse chiedendo. Quindi, per cominciare, entriamo nel romanzo di Andrea Carraro, Sacrificio (Castelvecchi 2017) con una corrispondenza. Anni fa studiavo drammaturgia all’università, leggevo Wedekind, Lo spirito della terra. Nel primo atto della tragedia, siamo nello studio di un pittore, appare per la prima volta Lulu, la femmina fatale, destinata a incarnare il desiderio, la donna che umilia ogni più ardita fantasia degli uomini e che porta in sé la promessa di un’intollerabile felicità. L’uomo, uno dei tanti, che all’inizio della tragedia ne conquista i favori, resta così atterrito da questa promessa di felicità da pronunciare le parole:
“Sono senza coraggio, senza fede. Troppo a lungo ho dovuto aspettare. Ora è troppo tardi. Non ho forza per la felicità, mi fa una paura terribile. (…) Io qui imploro il cielo che mi renda capace di essere felice. Che mi conceda la forza, la libertà spirituale di essere un poco, un poco felice.”
La felicità necessita di forza, libertà spirituale, fede: questo è il punto. La battuta mi è tornata in mente quando ho incontrato Giorgio, il protagonista del romanzo di Andrea Carraro, direttore editoriale di una piccola casa editrice romana e padre di Carolina, una ventenne tossicodipendente. La sua gioia nell’accogliere l’arrivo della figlia nella sua vita, infatti, è prima di tutto smarrimento, inquietudine, consapevolezza di un debito che dovrà essere corrisposto in cambio del dono che si è appena ricevuto. Il prologo del romanzo ci racconta attraverso brevi scene i primi anni dell’infanzia della bambina durante i quali si crea saldo il legame tra il padre e la figlia: il primo incontro tra i due, quando Giorgio si trova davanti a Carolina appena nata, una meraviglia miniaturizzata, la nuova quotidianità con la bambina di cui Giorgio si prende cura con maggiore continuità rispetto alla madre, le tenerezze paterne, la sofferenza della separazione nel primo giorno di scuola e l’emozione nel vederla esibirsi sul piccolo palco di un villaggio turistico. Carolina illuminata dai riflettori, con indosso un’elegante salopette scozzese, è per il padre un’apparizione e con le lacrime agli occhi Giorgio esclama: «Dio, come potremo mai ricambiarti, Signore, per il dono di questa piccola bambina? Di questo cherubino, di questo angelo del paradiso?» Nel primo sguardo tra il padre e la figlia tutto è già stato detto, deciso, nel libero sacrificio che verrà compiuto da Giorgio echeggia un destino ineludibile. Niente illusioni, sentenzia Menelao nell’ Aiace di Sofocle, le ore di piacere costano a saldo ore di pena. E Giorgio, moderno eroe tragico, si dichiara da subito disposto a pagare quanto dovuto.
Dopo il prologo la narrazione è segnata da una grande frattura temporale, un salto in avanti che ci trasporta in un presente in cui ogni cosa è mutata. Un taglio netto nella vita di Giorgio e in quella della figlia, che troviamo china sul terreno, a lavorare nella Comunità che sta per abbandonare. Carolina indossa ancora una salopette, ma il colorito della sua pelle è giallognolo, il viso è segnato, gli occhi vacui, i denti sciupati e così il suo sorriso, che si accende appena un attimo alla vista del padre, che è venuto a portarla via. La storia vera e propria si apre con il fallimento del progetto di disintossicazione di Carolina ma negli attimi che precedono l’incontro con la figlia, durante i quali Giorgio scambia alcune parole con don Ferdinando, il gesuita che dirige il centro, ci è chiaro che questo nuovo fallimento rimanda a un fallimento più grande di cui Giorgio si sente responsabile. La felicità è una forma di coraggio, una fede che Giorgio mostra di voler ritrovare ma che forse, come poi sembra suggerire la storia, gli è aliena. La paura di vivere è il filo rosso che lega padre e figlia, una malattia oscura con la quale Giorgio crede di aver contagiato Carolina, che ora è diventata una ragazza incapace di rispettare i patti, sempre in fuga dalle regole, priva di fede e di speranza. Giorgio, che da Dio ormai si sente sempre più lontano, sembra provare un profondo senso di colpa per non aver saputo proteggerla dalla sua paura, dal suo disincanto ma anche dalle pericolose, a detta di don Ferdinando, figure che hanno abitato il suo immaginario: una fra tutte quella di Lou Reed, l’icona rock che con i Velvet Underground, numerose le citazioni nel libro ai testi dei brani dell’album The Velvet Underground and Nico, ha narrato di risvegli dopo notti selvagge fatte di droga e sesso, di soste interminabili all’angolo di una strada nell’attesa di una dose di eroina, di delinquenti che si danno appuntamento nei parchi dello spaccio e della dipendenza, del crudo, per certi versi meraviglioso, annullarsi nella droga. Nel breve dialogo con il gesuita le esperienze di vita di Giorgio, così come le sue convinzioni sulla morale e i costumi, le sue letture e le sue passioni musicali diventano facili capi d’accusa utili a inchiodarlo alla sua colpevolezza. Ma stabilire i limiti delle responsabilità individuali non è così semplice. La sventura che si è abbattuta sulla vita di Giorgio e di Carolina ha un che di imponderabile, ha assunto le sembianze di una minaccia indefinita alla quale non è possibile opporsi con le sole forze umane. In questa tragedia moderna un uomo si trova coinvolto in una lotta impari. In Sacrificio lo squilibrio a sfavore del protagonista nel conflitto messo in moto dalla storia è evidente. Uno squilibrio che condiziona lo scontro con un antagonista subdolo e ingovernabile, rappresentato dalla dipendenza di Carolina dalla droga. Se la motivazione di Giorgio, salvare sua figlia, è salda e ben definita, le azioni che intraprende per portarla a compimento sono però contraddittorie e vaghe, come immerse in una nebbia fitta di dubbi, domande e recriminazioni autoinflitte. Non è possibile spiegare le scelte di Giorgio secondo i rassicuranti sostegni causa-effetto che puntellano la struttura dell’architrama classica. Carraro ci racconta, al contrario, il vagare a vuoto del protagonista lungo i bordi della catastrofe che sta travolgendo la sua vita. La narrazione conferisce al peregrinare del personaggio la forma di un’indagine inversa in cui il protagonista è allo stesso tempo il ricercatore e l’unico indiziato. Il percorso dell’inchiesta esistenziale condotta dal protagonista contro se stesso procede lungo i binari del mondo interiore e della relazione, del paesaggio e dell’immaginario. Ma nessuna delle vie percorse del protagonista per cercare una risoluzione al problema sembra portare a una risoluzione.
Quando la memoria si mette al lavoro Giorgio ha la possibilità di passare al setaccio le sue mancanze, le paure, le ossessioni che lo tormentano, le aspirazioni tradite e i fallimenti che hanno segnato la sua vita, cogliendoli con nitidezza all’interno del sistema di relazioni in cui si trova, o si è trovato coinvolto. Allora di Giorgio saggiamo un dichiarato egoismo privo di maschere e capiamo che nessuna redenzione è possibile al personaggio se non quella dell’auto annientamento. L’avidità di cui si autodenuncia senza cercare scorciatoie, l’ammissione di aver deluso sessualmente la moglie, di aver fallito come padre e come marito, di aver mostrato il suo lato meschino e avido nei confronti del fratello, di essere stato un figlio egoista e poco amorevole, la constatazione di essere lui, all’interno del gruppo di amici, la figura più discutibile, la più corrotta, ogni tassello di questo impietoso autoritratto contribuisce a una sistematica auto demolizione di sé. La scrittura di Carraro, spoglia e impassibile davanti all’incandescente materia drammatica che ha scelto di trattare, ci imprigiona in una sorta di resa dei conti perenne, ma come depotenziata dall’interno. Una resa dei conti, questa, lontana anni luce dalle gelide e turbinose atmosfere ibseniane, velata, invece, di quieta e amara rassegnazione. Qui, sembra ribadire l’autore, nessun segreto a lungo taciuto, nessun antefatto sapientemente orchestrato, giungerà a delineare in maniera netta la fisionomia della colpa, a stabilire in modo esatto il computo delle responsabilità. Tutto quanto emerge dalla memoria di Giorgio, e Giorgio sembra esserne consapevole, non avrà alcun potere risolutivo, non servirà a placare il dolore o a porre rimedio a quanto sta accadendo. I ricordi, e l’autoconsapevolezza che da questi ne deriva, non sanano nulla, sono solo un modo come un altro di forzare con le proprie mani una ferita destinata a restare aperta, colma di accettazione per la propria miserabile umanità, per la propria pochezza. Quello che ricaviamo da questi ricordi e pensieri è il ritratto di un personaggio che sembra non amare se stesso, non completamente, ma che è anche del tutto incapace di condannarsi in pieno spirito di serietà.
Ma l’indagine di Giorgio si proietta anche all’esterno, in una Roma che Carraro ha già dato prova di saper raccontare nei suoi reportage, che qui mostra il suo volto più desolato. Una città nuda in cui Giorgio si aggira sotto il dominio di uno straniamento che è allo stesso tempo alterazione dettata dalla droga e delirio dell’anima, proprio come accade all’alcolizzato Don Birnam del film “Giorni perduti” di Billy Wilder, l’alcolizzato scrittore perso nella città vuota, alla ricerca di una via di fuga dalla propria ossessione per la bottiglia, altra corrispondenza che si impone alla lettura di “Sacrificio”. Lo spaventoso delirio alcolico nel film di Wilder in “Sacrificio” diventa la terrificante allucinazione in cui Giorgio assiste a una trasformazione del mondo in cui cose e persone hanno natura di mutaforme e mostrano tratti minacciosi o incongrui, creature mostruose oltre l’umano che hanno la capacità di deriderlo o di intimidirlo. Giorgio resta sopraffatto e terrorizzato dalla sua visione e qui la scrittura di Andrea Carraro si fa precisa e profondamente visuale, ricca di dettagli, ritratti deformati, scorci di paesaggi in cui le parole invadono le immagini e le stravolgono piegandole alla percezione del protagonista fino a cambiarle di segno, prestando così fede al mandato di dare testimonianza di un tormento che, non potendo essere detto, va semplicemente mostrato.
Come devo comportarmi con Carolina? È mia la colpa della sua debolezza? E ancora: come posso salvarla? Domande, sempre le stesse, che con la loro dolorosa urgenza segnano il tempo dell’azione tragica, un tempo che sembra curvarsi minaccioso sui personaggi mano a mano che la narrazione procede verso il suo epilogo. Queste domande Giorgio le pone a se stesso, le pone alla sua storia e le pone a quello che rimane della sua fede, in dio, nella vita, senza mai ottenere risposta. Giorgio invoca la madonna, interroga la moglie così come i testi delle canzoni che ha amato o i luoghi che lo hanno visto carico di promesse o disillusione. Giorgio pone delle domande, a chi non importa, e non ricevendo risposte giunge a capire che l’accettazione di una lotta impari con la vita implica il rischio, se non la certezza, di una sconfitta. Ma in questo caso, ora che in gioco non c’è la vita di Carolina, Giorgio sa anche che la resa non è un’opzione possibile. È questo il momento, che per noi è il principio del romanzo, quando il punto di rottura del personaggio è già stato raggiunto, in cui un in padre, un uomo qualunque, cerca un interlocutore straordinario.
Il rapporto con il diavolo, il maligno, il patto scellerato con il male, segna un’integrazione dell’elemento fantastico all’interno della narrazione che l’autore non si preoccupa di illuminare fino in fondo. L’ambiguità che aleggia su questo patto è mantenuta intatta fino alla fine del romanzo. La fine di Giorgio ha una duplice spiegazione, una rassicurante e fisiologica, una più oscura e indefinita ma poco o nulla importa stabilire un’univoca lettura della vicenda narrate. Il male, torniamo ancora a Sofocle, qui si presenta come crepa sottile che forza l’incredulità di Giorgio e lo porta a scommettere tutto contro il destino infausto che gli si oppone. Il male è mutevole e dotato di una irresistibile capacità persuasiva, il male sa allettarlo con la promessa di una risoluzione che è esattamente ciò che il bene, la fede in Dio, la fede nell’amore e nell’unità familiare, mostra di non poter offrire. Il male, qui, è la sola entità capace di comprendere fino in fondo tutto quello che strazia nel suo continuo mutare di segno il protagonista del romanzo, ma rappresenta anche l’unica promessa di un taglio netto con il passato, di un cambiamento definitivo in cui Giorgio intravede la salvezza. Ed è proprio attraverso la rappresentazione continua del cambiamento, motivo ricorrente nel romanzo, che Carraro riesce a caratterizzare il male di vivere, con la sua controparte di paura e di smarrimento, il male con il quale padre ha contagiato la figlia, a causa del quale già dal momento della sua nascita ha contratto con lei un debito d’amore che dovrà essere saldato. Tutto è destinato a cambiare oppure a morire e in questo continuo mutare delle cose è l’essenza della morte e della vita. Le cose si trasformano, a partire dal loro volto. Gli amici di Giorgio si trasformano nei loro padri. al volto pulito e luminoso della figlia bambina si sovrappone quello segnato e guasto di lei, ora una ragazza perduta, mentre sul volto di Giorgio iniziano a manifestarsi inesorabili i segni del suo veloce declino. Il volto del male è indefinito e mutevole come le sconosciute innumerevoli minacce che ostacolano il cammino di ogni uomo, di ogni vita umana. Ed è proprio il segno del cambiamento ad amplificare la dimensione tragica in cui si trova immersa la storia. La dannazione a cui tutti siamo destinati, sembra suggerirci Carraro, è il semplice fatto che tutto è inesorabilmente destinato a cambiare. Il maligno è in questo nostro desiderio di arrestare il corso del tempo, in questa brama destinata allo scacco di preservare noi stessi e la nostra storia dalla sua azione disgregante. Il male ha il potere di mostrarci costantemente, con mille volti diversi, tutto quello che abbiamo perduto, suscitando in noi la demoniaca ambizione di guardare dietro le nostre spalle pieni di desiderio fino a voler accettare un fatale, illusorio, baratto che ci consenta di riportare indietro chi amiamo e di ritrovarlo proprio come era allora, al tempo in cui abbiamo visto nascere il nostro inconsapevole amore.
Ma è tardi e devo lasciare il romanzo a chi vorrà entrarci, quanto a me voglio uscirne con la sensazione di aver ricevuto in dono qualcosa di lieve. In altre occasioni, con il “Il branco” e “Il sorcio”, l’autore mi ha regalato, al contrario, due immagini crudeli a cui a volte ancora penso. Ne “Il branco” l’immagine disumana di un ragazzo che, seduto in macchina, tiene la mano di un’altra ragazza, che lui non ha la forza morale o il coraggio di difendere, mentre i suoi compagni di bravate sono intenti a stuprarla. Ne “Il sorcio” la scena in cui un uomo che dopo aver subito vessazioni di ogni tipo da un collega assolda qualcuno per massacrarlo di botte e, non visto, assiste al pestaggio del suo nemico. Stavolta porterò con me l’immagine che chiude il romanzo. Senza voler svelare troppo il finale dirò che è un ricordo bianco, un paesaggio innevato, un ricordo in cui si ride tra le lacrime, qualcosa che chiude la storia riportandoci indietro con un moto circolare che, pur nel dolore, rasserena e regala una inaspettata tardiva speranza.
Dovessi marchiare “Sacrificio” con due aggettivi appena direi che è un romanzo onesto e tragico. Un romanzo onesto, si dice a volte, ma che vuol dire? In questo caso, per me, un romanzo in cui non si fa narrativa del degrado inscenando un melodramma in cui gli individui sono vittime inermi, oppure eroi, un romanzo in cui viene lasciata ai personaggi la libertà di essere uomini e donne a tratti sgradevoli, vili, allo stesso tempo egoisti e compassionevoli, come lo siamo tutti. E un romanzo tragico, dico, perché riesce a rendere giustizia alla lotta impari che ognuno di noi conduce, con se stesso, con la vita. Infine, per circoscriverlo in un’immagine sola, che però non è mia, userò quella di uno specchio amaro, che la scrittura di Andrea Carraro ci pone di fronte. Giorgio, offrendo la sua vita, chiede alla figlia di smetterla di guardarci dentro, perché allora i suoi occhi perderebbero ogni dolcezza, ma questo non accadrà, perché il sacrificio è stato compiuto e l’albero sacro è lì che sta fiorendo.
“…Non ti guardare più allo specchio amaro
che i demoni ci pongono di fronte, passando,
con la loro sottile scaltrezza, o se vuoi
guarda solo un istante; perché vi si forma
una fatale immagine, che la notte
tempestosa raccoglie,
radici nascoste a metà nella neve,
rami spezzati, foglie annerite.
Perché ogni cosa diventa sterile
in quello specchio oscuro che i demoni sostengono,
specchio della stanchezza esterna,
creato mentre Dio stava dormendo nelle età che furono.”
(William Butler Yeats, I due alberi)
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