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Non è improbabile che nel 1995, poco prima di dedicarsi al genere letterario che gli avrebbe fruttato maggiore fortuna, Emmanuel Carrère abbia scritto il suo ultimo romanzo con la consapevolezza di richiedere ai lettori un esercizio di immedesimazione, o ancora meglio di memoria. Se volete leggere La settimana bianca (prima edito in Italia da Einaudi, ripubblicato nel 2014 da Adelphi) dovete, infatti e innanzitutto, ricordare.

Ricordare i crudeli riti di passaggio cui sottopone l’infanzia. Ricordare come la costante condizione di inferiorità subita quando si è piccoli in un mondo già adulto o in un mondo di coetanei che si fingono adulti possa spingere le proprie vittime alla ricerca di mezzi di difesa. Tra questi, all’immaginazione spetta un posto d’onore. La settimana bianca è infatti un racconto che stupisce per il totale mimetismo col quale l’autore stuzzica le memorie giovanili del suo pubblico e attinge ai sentimenti più intimi dell’infanzia, ingigantendone simulacri e incubi.

Per leggerlo bisogna insomma mettersi nei panni dei bambini che un tempo si è stati, mettersi nei panni di Nicolas, il giovane protagonista del romanzo: siete timidi, goffi, delle calamite per la malizia dei cosiddetti amici; ogni giorno fate i conti con l’appiccicume di due genitori oltre modo strani per l’apprensione con cui vi sorvegliano; vi aspetta una lunga gita scolastica con la sola compagnia di una classe di bulli – la vostra classe – e della neve, un’intera settimana in montagna, lontano tanto dai fastidi quanto dalle comodità della vostra atipica famiglia; siete senza bagagli, perché vostro padre, ora irreperibile, li ha dimenticati in macchina, e se ne è andato via guidando giù per quei sentieri sui i quali, si dirà poi, si aggira uno spietato rapitore di bambini.

Date le premesse, siete spacciati. Perché, per giunta, avete anche un’immaginazione terribilmente fervida, capace di rovinare, tormentandovi con i suoi spettri, qualsiasi realtà stiate vivendo. C’è chi dell’immaginazione si serve per evadere dalla realtà, e chi invece ne fa un arma a doppio taglio, chi cioè ricorre alle proprie fantasie come ai tarocchi di una fattucchiera, e sulla base di ipotesi, di labirintiche peregrinazioni ai limiti delle più improbabili varianti del reale, prevede per sé quanto di peggio possa verificarsi in una determinata circostanza. Nicolas appartiene alla seconda categoria.

Purtroppo per lui, perdersi in interminabili viaggi nelle nebbie dell’immaginazione rende sempre più caro il prezzo del ritorno, e sempre più probabile il rischio di non poterlo pagare, di non poter più tornare indietro. Di essere costretti ad accettare che la realtà coincide forse con la più insperabile delle aspettative. Aver giocato con la propria fantasia rende in qualche modo colpevoli nel caso in cui le disgrazie previste solo per un morboso desiderio di autocommiserazione si avverino.

Nicolas preferisce di gran lunga le congetture dei suoi sogni, anche le più conturbanti, al reale – e come dargli torto? Nei sogni o si è vittime o si è eroi per le vittime. Ma quando nella realtà non si è né eroi né vittime né innocenti né colpevoli, né si può mantenere il controllo su ciò che ci accade, cosa si è? Come si può sfuggire ai colpi del caso, al dolore dell’essere nati in circostanze sfortunate, alle responsabilità che non abbiamo scelto ma che ci riguardano, alla ghigliottina di una condanna forse insensata, ingiusta, ma non incomprensibile, ingiustificata?

Di pari passo con il tono del romanzo – da inquietante a perturbante a noir –, il dramma di Nicolas prenderà forma nel corso della vacanza, finché la scoperta della verità che dorme sotto la patina delle sue paure infantili non forzerà il protagonista alla crescita. Nel giro di una settimana, Nicolas varcherà il confine dell’infanzia e capirà che se a nessuno è concesso di rimanere eternamente bambino, a nessuno è concesso di sfuggire alle mostruosità contemplate dall’universo adulto.

Carrère ci insegna inoltre quanto sia pericoloso il gioco della vittima: chi, come Nicolas nella sua innocenza e nel suo bisogno di affetto, ne accetta le regole e decide di inventarsi succube della propria sorte, un giorno potrebbe aprire gli occhi, scoprire per concreto il più nero dei suoi incubi, e convivere col dubbio di averlo reso reale nel sogno.

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