Quando mi sono iscritta al primo anno di laurea magistrale in Traduzione specialistica e Interpretazione di conferenza all’Università degli Studi di Trieste, non mi era ancora mai capitato di tradurre ricette culinarie per lavoro. Così, nell’apprendere con un modulo di traduzione verso la lingua francese sarebbe stato dedicato a questo macroambito, mi sono chiesta per quale motivo ci fosse un tale bisogno di rinforzare le proprie competenze in merito, quasi che si fosse trattato di una tipologia testuale difficile.
Come si potrà bene immaginare, i fatti mi hanno dato torto. Normalmente sono contenta di non avere ragione, perché si tratta del primo passo verso una maggiore consapevolezza delle sfaccettature della vita. Nel caso specifico, al contrario, credo proprio che avrei preferito restare della mia idea, perché avrebbe significato che non avevo incontrato particolari difficoltà nel tradurre la preparazione del tiramisù o del cannolo siciliano per qualcuno che, magari, in Italia non era nemmeno mai stato. L’esperienza mi ha insegnato che delle problematicità, invece, c’erano eccome.
Uno dei primissimi ostacoli che ho incontrato al corso è stato rappresentato dalla lunghezza del testo originale e di quello di arrivo. Per ragioni di layout e struttura grafica, le due versioni talvolta non potevano essere più lunghe nemmeno di un paio di lettere, il che diventa complicato nel momento in cui una delle due lingue usa un termine con meno lettere dell’altra per esprimere lo stesso concetto. Brodo o zuppa, per esempio, in italiano sono parole di cinque lettere, mentre in francese bouillon ne conta addirittura otto, cioè tre in più. C’è poco da fare, quindi, se il piatto in questione si può definire solo così, ma altrettanto ristretto è il margine di manovra se allargando il box di testo corrispondente ogni impostazione di impaginazione precedente va a monte.
Per la stessa ragione, a volte diventa inevitabile rassegnarsi alle ripetizioni di certi vocaboli, nel caso in cui un sinonimo non fosse corto abbastanza da rientrare nei limiti di caratteri consentiti. E c’è di più: quando il testo è organizzato in tabelle, invisibili o in chiaro che siano, può capitare che pure le cifre creino non poche insidie. A seconda del sistema di misurazione di riferimento, infatti, può darsi che un’unità esprimibile con un solo numero ne richieda due nella lingua verso cui si traduce, o viceversa.
Per non parlare, poi, della questione ingredienti. Caratteristica peculiare delle ricette che vengono diffuse in più aree geografiche del mondo, infatti, è la loro fama internazionale. Se tale è la situazione, significa che il piatto in questione sarà difficile da preparare altrove, sia per via del procedimento da applicare in senso stretto sia per via degli ingredienti di cui si compone. Il mondo in cui viviamo non è ancora globalizzato abbastanza da permettere di ritrovare in provincia di Aosta una salsa tipicamente indiana, o nell’area metropolitana di Siviglia una spezia siberiana. Nel tradurre, quindi, va tenuto conto della reperibilità di certi prodotti, che in alcune circostanze è necessario sostituire con altri o addirittura omettere, se la loro scarsa importanza lo permette.
Per fortuna, qualche delizia in mezzo a tante croci del mestiere esistono perfino in questo sottosettore. In molti casi, infatti, al traduttore viene consentita una certa creatività personale nel riformulare il discorso, proprio perché degli adeguamenti culturali sono indispensabili nello stesso numero di battute. Oltre a ciò, internet consente di effettuare ricerche approfondite e multimediali per assicurarsi di avere capito bene un determinato passaggio, o di avere identificato il rimpiazzo di un ingrediente introvabile all’estero.
Ne consegue che le lezioni universitarie si sono rivelate ben più interessanti e utili del previsto e che, dopo averlo concluso, ho abbassato umilmente la cresta rispetto al mondo delle traduzioni culinarie, smettendo di pensare – come accade talvolta ai non addetti ai lavori – che dietro qualche riga sulla preparazione delle escargots si celi un universo semplice da gestire e di immediata comprensione.
La catanese Eva Mascolino, 24 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all'estero nel corso della sua formazione universitaria. Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie", collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, L’Irrequieto, Sicilian Post), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi. Nel 2018 ha pubblicato il racconto "Vladimir’s Blues" con Aulino Editore, mentre con "L’uomo di colore" è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Catania, dove ha di recente svolto il ruolo di collaboratrice editoriale per la prima edizione del festival letterario EtnaBook.
Associazione Culturale L'Irrequieto
, Firenze-Paris @2010-2018
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