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Inauguriamo la rubrica delle Irrequietudini d’autore con un giovane autore candidato al LXXIV Premio Strega con il suo romanzo d’esordio, Febbre (Fandango): Jonathan Bazzi.

Jonathan cresce a Rozzano, si laurea in Filosofia a Milano e fa tante altre cose che scoprirete leggendo il suo libro, perché è proprio lui a raccontarci tutto, intrecciando il presente e il passato: la vita in periferia, i bulli, i “maschi”, l’infanzia, la sieropositività. 

Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via.

Queste le prime parole che Jonathan affida al lettore. Terminata la lettura del suo romanzo, sono state proprio queste le parole che gli ho invidiato di più: dire tutto e subito, senza remore narrative, senza il bisogno di tenere da parte lo scacco finale.

Quindi, Jonathan, puoi immaginare quale sarà la prima domanda fastidiosa che sto per porti: perché questo titolo? È venuto prima il romanzo e poi il titolo o viceversa?

È venuto prima il romanzo. Al titolo abbiamo iniziato a pensarci, con Fandango, mentre stavo terminando la prima stesura. Quindi a fine 2018. Loro mi hanno chiesto di inviare alcune proposte: ‘Febbre’ non era tra queste. È stata un’idea loro, che però io ho accolto subito con convinzione. I miei candidati erano tutti meno incisivi, anche se alcuni non erano male (tipo ‘Mercurio’, che univa il metallo usato nei vecchi termometri e il pianeta, nonché dio, governatore del mio segno zodiacale).

Sono tanti i temi che affronti nel tuo libro raccontando la tua esperienza. Ce n’è uno che ritieni più importante degli altri o ci atteniamo al classicone “tutto è servito a formare la persona che sono adesso”?

Direi il rapporto tra vita e parole, tra esperienza concreta e racconto, appropriazione narrativa. Febbre, il progetto in sé, può essere visto anche come la tappa conclusiva dell’intinerario di formazione/deformazione e comprensione raccontato nel libro stesso. La copertina esprime un po’ questo: si tratta soprattutto di un’offerta, l’offerta di un punto di vista, quel punto di vista che nel libro resta perlopiù illegittimo, inespresso. 

Quando ho terminato il tuo libro, un’amica mi ha chiesto un parere. Ho soppesato per un attimo la cosa ed ho risposto: onesto. Quanto sei stato onesto nel romanzo? E quanto l’onestà ti ha ostacolato in una scala del fastidio che va da “un sassolino in una scarpa” a “una trave in un occhio”?

La cosa sempre interessante è che le persone per parlare del mio libro usino spesso categorie come coraggio, verità, assenza di filtri, ma in realtà a me interessava e interessa soprattutto il piano estetico. L’effetto che le cose che racconto hanno su chi legge. E, avendo in mente l’effetto che di volta in volta voglio ottenere, modello il materiale biografico in una certa direzione. Anche perché la mia mente è tutto fuorché affidabile: deforma, affabula, mitizza già di suo. Forse è per questo che scrivo. Tutto quello che vivo mi riempie di percezioni clandestine. 

Ci hai già detto perché scrivi. Ma credi che la scrittura sia un atto narcisistico, egoistico?

Credo che tutti gli atti umani siano narcisistici. Solo che alcuni non sono solo narcisistici. Uniscono due o più temi, hanno senso per sé e per gli altri. 

Ma dicci di più: com’è che scrivi? Seduto alla tua scrivania? All’aperto? Ascoltando musica o maledicendo anche il più flebile e sinistro scoppiettio della bottiglietta d’acqua del tuo vicino?

Scrivo al mattino presto. Diciamo dalle 5 alle 10. Seduto sul divano con un tavolino di fronte a me e una tazza di caffè macchiato col latte di soia. A volte, non spesso, esco: vado a scrivere in biblioteca o nella mia vecchia università. E sì, ho bisogno di silenzio. Ho un’attenzione labilissima, da sempre.

Ripescando il tema musicale, cosa consiglieresti di ascoltare a chi sta leggendo il tuo romanzo? 

Su Spotify con Fandango abbiamo creato una playlist, assolutamente schizofrenica ma fedele, anzi: proprio perché fedele alle citazioni musicali del libro. Si va da dai Cure a Beyoncé, passando per Kate Bush, Cristina D’avena, Madonna, Sfera Ebbasta.

È arrivato il “momento banalità”, quindi ti tocca la citazione: L’arte dello scrivere consiste nel cancellare, cancellare, cancellare. (Robert Louis Stevenson). Cosa ne pensi?

Vero. Per me però è soprattutto un esercizio profondamente innaturale di pazienza. Mi costa molta fatica non poter aver il libro tutto davanti a me in fretta. Lavoro meglio se ho il quadro complessivo di fronte, e fino a quando questo non c’è è tutto sforzo. Da questo punto di vista mi devo autodisciplinare moltissimo.

Ora invece c’è la domanda doverosa: c’è qualcosa che ti agita? Cosa ti rende irrequieto?

Praticamente tutto.

 

Dopo aver letto il romanzo, vi consigliamo l’ascolto della playlist su Spotify di Fandango Libri, citata proprio da Jonathan: Febbre


 

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Ha 30 anni (compiuti malvolentieri) e vive in provincia di Caserta. Afferma di non conoscere vie di mezzo perché non ha frequentato la scuola materna. Trova conforto ed ispirazione nella letteratura, nella musica, nel cinema e nelle serie tv adolescenziali. Alcuni suoi racconti brevi sono stati pubblicati da Historica Edizioni e su alcuni blog letterari. Finge di scrivere, ma in realtà ha solo una gran fame. I suoi autori preferiti sono Marquez, Calvino e Benni.

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