Se è vero che non ci sono mestieri sui quali sarebbe impossibile immaginare di condurre un’intervista, è altrettanto vero che la professione di scrittore si presta particolarmente bene a questo meccanismo, dato che chi usa carta e penna per lavoro non può fare a meno di confrontarsi continuamente con le parole.
Ecco perché una buona parte del tempo di chi scrive è dedicata a rispondere al telefono, alle email o ai messaggi di qualcuno interessato a un dialogo a distanza o a tu per tu. Attività interessante di per sé, oltre che gratificante, quella di sottoporsi alle domande di terzi è anche una miniera di sorprese.
C’è, per esempio, chi ha scadenze per qualche ragione serratissime, ma contatta il diretto interessato con anticipo pari quasi a zero e pretende feedback immediati e articolati. La categoria degli iperattivi, contrapposta a quella di chi invece per rispondere o per organizzare un appuntamento impiega un paio di settimane, come se inviasse piccioni viaggiatori anziché servirsi delle più moderne tecnologie.
Naturalmente non è questo il peggiore dei problemi, anzi. Nulla in confronto a chi fa domande più lunghe delle risposte, o a chi non smette di parlare e si dimentica di ascoltare. Ci sono poi giornalisti che pendono dalle labbra di chiunque apra bocca, altri che si pongono con atteggiamenti polemici a priori, e ne consegue che rilasciare qualche dichiarazione non sempre è un momento piacevole.
Il colmo si verifica nel momento in cui le due parti non parlano la stessa lingua e fra loro non è prevista la mediazione di un interprete. Fraintendimenti, balbettii e falsi sensi, mescolati alla sensazione di non riuscire a spiegarsi del tutto e di avere semplificato al punto il fulcro del discorso da non essere più sé stessi.
Per non parlare di chi fraintende pur condividendo lo stesso idioma, perché magari ha un’idea preconcetta da cui non riesce a separarsi, o perché ha avuto poco tempo per informarsi, o perché più che riportare la verità preferisce fare notizia e suscitare la curiosità manipolando le frasi che sono state pronunciate in sua presenza.
Un caos all’interno del quale muoversi senza cadere in trappola finisce per essere un microdramma annunciato. Peccato che rifiutare le interviste venga etichettato come snob e maleducato, per non dire inappropriato al proprio ruolo, e che contraddire un reporter o rimproverarlo per un comportamento poco consono non faccia parte dell’etichetta. Altrimenti, la faccenda potrebbe risolversi presto e bene.
Le situazioni vanno sempre all’opposto di come si spererebbe, però, e dunque si finisce per fare buon viso a cattivo gioco, o il più delle volte buon gioco a cattivo viso. In altri termini, ci si sforza di farsi capire, di non alterarsi, di non essere risucchiati da necessità tutte mediatiche e impersonali, da luoghi comuni e qui pro quo, trattenendo a stento qualche risata isterica quando i meno attenti domandano: Di cosa parla il suo racconto?, quando si ha a che fare con un romanzo, o viceversa.
Una delle soluzioni più efficaci in circostanze simili, non a caso, è senza dubbio quella di sdrammatizzare con del buonumore più o meno esplicito, trovando almeno il lato buffo della propria condizione e cercando di trattenerlo nella memoria per riferirlo a qualcuno che potrebbe apprezzare la comicità di determinati momenti di disagio.
Un’alternativa più seria potrebbe consistere nello specificare il più possibile le proprie intenzioni e parole con sinonimi e digressioni, assicurarsi che l’altro stia seguendo o addirittura chiedere una bozza del pezzo o un’anteprima del montaggio audio/video prima della pubblicazione ufficiale, per assicurarsi che il risultato sia dignitoso e rispondente al reale.
Se non si è nella posizione per farlo, rimane solo una cosa da fare: rilasciare un’altra intervista per lamentarsi delle interviste ricevute fino a quel momento. Nella speranza che quell’unica volta si riesca finalmente a dire ciò che si pensa.
Associazione Culturale L'Irrequieto
, Firenze-Paris @2010-2018
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