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Il microdramma dei testi incompleti

Le cartelle dei pc di chi scrive, così come anche i quaderni che tiene sparpagliati nel suo spazio vitale personale, hanno una caratteristica in comune in tutto il mondo: sono disordinate e di norma poco aggiornate. Contengono appunti ormai inutili, hanno titoli da cui non si riesce più a risalire ai contenuti e, nel momento in cui vengono spulciate con più attenzione, per un improvviso eccesso di curiosità o per un impulsivo bisogno di fare ordine mentale, si scopre conservino gelosamente anche una serie infinita di testi rimasti incompleti.

Talvolta si tratta di un paio di righe buttate giù prima di andare a dormire. Si aveva troppo sonno per proseguire, ma non si voleva perdere il barlume di ispirazione subentrato un attimo prima dell’abbiocco, e così ci si era appuntati qualcosa. Un qualcosa che ora, a distanza di tempo, non è abbastanza chiaro e definito per essere ripreso, ma nemmeno abbastanza amorfo da essere ignorato completamente.

Altre volte sono versi di poesie a cui manca la strofa finale, una rima, una parola. Oppure sono racconti iniziati con l’intento di partecipare a un non meglio definito concorso letterario, salvo poi averne perso di vista la scadenza o non essere stati in grado di sviluppare la storia entro i limiti di lunghezza previsti. Ci sono poi trame con nomi e situazioni che non ci dicono nulla, e  schemi di intrecci che invece ci rammarichiamo di avere abbandonato al proprio destino.

Così, passando da uno spunto all’altro in pochi minuti, ci rendiamo conto della mole spropositata di libri che potremmo scrivere, se solo fossimo più costanti. Ci sentiamo fieri delle nostre idee e imbarazzati dalla nostra pigrizia, rattristati dal poco tempo a disposizione per portare a termine tutti i progetti che ci interesserebbero e convinti, sotto sotto, che prima o poi arriverà il giorno in cui prenderanno forma molti più volumi interessanti di quanto non avessimo mai sperato in vita nosttra.

In un giorno che, tuttavia, non coincide mai con l’oggi in cui ce lo ripromettiamo. In un giorno indefinito e impalpabile, che intanto fluttua lontano dal nostro orizzonte visivo e ci lascia in compagnia esclusivamente di lui: del microdramma dei testi incompleti, il quale solitamente viene servito con un condimento di sensi di colpa e una spruzzata di nostalgia.

D’un tratto, infatti, proviamo la fastidiosa sensazione di non essere più all’altezza di chi eravamo in passato. Una volta osavamo di più con i nostri personaggi, ci diciamo. Una volta gli endecasillabi ci uscivano fuori dalla penna per un meccanismo quasi magico, spontaneo al punto da farci ritenere invasati da una Musa generosa. E una volta, soprattutto, non ci staccavamo dai nostri manoscritti finché non li avevamo completati, che fossero lunghi una decina di righe o un centinaio di pagine.

Ogni bozza abbandonata a sé stessa diventa così il riflesso della nostra indolenza, il simbolo del nostro declino, una macchia che non sappiamo più lavare via e che sembra rimproverarci in silenzio da un pulpito apparso dal nulla per l’occasione. Così, tentiamo di rimaneggiarla e di rimetterci all’opera con nuova lena e un bastimento carico di ottime intenzioni, convinti che il nostro senso di rivalsa sarà sufficiente per risvegliare l’originalità che ci ha contraddistinti spesso.

Tuttavia, il microdramma dei testi incompleti non molla la propria preda facilmente, né il delirio dell’ispirazione è tanto facile da indurre nel momento in cui si desidererebbe innescarlo. L’unico risultato che otteniamo consiste in una tragicomica scena nella quale noi siamo ancora i paladini che salvano la situazione, e non i poveracci che la subiscono. Quando ci accorgiamo del capovolgimento di situazione, la stizza è tale da farci credere che c’è un motivo se non siamo arrivati fino in fondo con certe idee.

E che il motivo, forse, non risiede tanto nell’accidia che tanto millantiamo, quanto nella fragilità in sé di qualche nostra creazione. Allora ci facciamo coraggio e ci confrontiamo con una pagina bianca da cima a fondo, con l’obiettivo di dimostrare a noi stessi di cosa siamo capaci, se partiamo con le intenzioni giusto fin dal principio. Andiamo avanti per un po’, dopodiché ci viene fame nonostante abbiamo mangiato da poco, oppure sonno, oppure veniamo distratti per qualsiasi ragione da voli pindarici, telefonate o persone in carne e ossa.

Ci alziamo temporaneamente dalla nostra postazione, ripromettendoci di tornare all’opera il prima possibile, e intanto salviamo i nostri progressi con nomi generici e in cartelle casuali. D’altronde, per riprendere c’è sempre tempo – e per rituffarci nel loop dei testi incompleti a quanto pare ancora di più.

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La catanese Eva Mascolino, 24 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all'estero nel corso della sua formazione universitaria. Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie", collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, L’Irrequieto, Sicilian Post), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi. Nel 2018 ha pubblicato il racconto "Vladimir’s Blues" con Aulino Editore, mentre con "L’uomo di colore" è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Catania, dove ha di recente svolto il ruolo di collaboratrice editoriale per la prima edizione del festival letterario EtnaBook.

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