Abbiamo già parlato della difficoltà di impostare dialoghi e descrizioni, senza però nominare ancora i monologhi. Li abbiamo forse sottovalutati, rischiando di convincerci che sia più facile procedere nel processo della scrittura quando curiamo la voce di un solo personaggio?
Forse sì, eppure l’inganno dura poco. Ci preoccupiamo tanto di altri passaggi della nostra storia e poi ci rendiamo conto che il problema maggiore arriva proprio quando non c’è niente e nessuno intorno al discorso che vorremmo articolare. Né posti a cui accennare né maleducati che interrompono. Né azioni repentine né catastrofi naturali. Una persona su cui è concentrata l’attenzione di tutti, stop.
Il microdramma in questione ci mette un po’ a farsi vivo. Si gode una breve scena iniziale in cui chi è assorto negli sviluppi del caso immagina di poterne uscire indenne. Le righe si accumulano e non succede nulla. Chi parla ha padronanza dell’argomento, si sfoga, sa in che direzione procedere. E poi, a un tratto…
A un tratto si innesca un meccanismo tipico, per il quale non si è più certi dello sviluppo narrativo che si sta seguendo. Si pensa che proseguire troppo a lungo potrebbe rendere il monologo poco chiaro, poco scorrevole e poco leggibile. Che la trama subirà una battuta d’arresto improvvisa e netta, al quale magari non si è pronti e non si reagisce positivamente. O, addirittura, che i paragrafi proiettino il lettore troppo avanti, facendolo smarrire fra anticipazioni e ipotesi abbozzate, quando non lo portano direttamente da un’altra parte, in un’atmosfera che non avevamo previsto e che forse non dovrebbe essere sondata.
Ciò vale tanto per i romanzi quanto per le opere teatrali, tanto per i racconti quanto per forme alternative e nuove di scrittura in prosa. E, per ciascuna di queste, la reazione spontanea consiste nel tentare di andare al sodo, trasformando il monologo in una o due frasi di svolta fra un momento e il successivo. Via una metafora, via un ricordo, via pure i puntini di sospensione: melius deficere quam abundare.
Il monologo, però, in tal modo smette di esistere e si trasforma in un’imitazione pallida e buffa. Accenna a tematiche che poi non approfondisce, sputa sentenze poco ragionate, arriva a conclusioni immotivate e, insomma, diventa l’anello più debole dell’intera catena. Così lo leggiamo e rileggiamo, finché non ci rendiamo conto che ci è venuto a noia, o che ci dà a tratti fastidio, messo lì con meno dignità del numero di pagina apposto in basso al centro in carattere 5.
Il microdramma, ormai, fa lo spavaldo e riempie la stanza con le sue risate. Ce l’ha fatta ancora una volta, ci ha fregato nonostante la nostra attenzione e nonostante credessimo che occuparci di un punto di vista per volta sarebbe stato semplice.
Allora proviamo a vendicarci di lui fregandocene delle nostre paure, tornando ad ascoltare l’ispirazione tout court, certi del fatto che verremo guidati nella direzione migliore. Se un monologo ha da essere lungo, d’altronde, che lo sia. Nessuno ci rimprovererà per questo, nessuno vorrà meno bene ai nostri protagonisti se li renderemo logorroici una tantum, no?
Risposta: magari no, e tuttavia continueremo ugualmente a temerlo. Lo chiederemo a esperti e a conoscenti, ad amici e a estranei, al nostro spirito contraddittorio interiore e al microdramma che continuerà a infestarci le giornate con il suo ghigno di vittoria stampato in faccia. Finché qualcuno, in carne e ossa o nella forma di una piccola ossessione del mestiere, non insinuerà il contrario.
Allora riprenderemo fra le mani il monologo e torneremo a sfrondare e ad aggiungere, a modificare e a rileggere, salvo poi renderci conto di avere perfino dimenticato il motivo per cui lo avevamo considerato tanto importante ai fini della storia. Ridere o piangere istericamente sarà la prima reazione a caldo inevitabile.
La seconda consisterà in un inevitabile monologo che, a prescindere dalle dimensioni, avrà come unico scopo un’invettiva contro i monologhi e la loro problematica natura.
Associazione Culturale L'Irrequieto
, Firenze-Paris @2010-2018
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