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Abbiamo una nevrosi, un diario come cura, una voce che in un’ininterrotta soggettiva, e alcuna pretesa di onniscienza, rassetta, ripassa, manovra le proprie memorie all’interno di questo diario — il libro che stiamo leggendo —, senza riconoscere alcun debito alle leggi del tempo e della consequenzialità, alle leggi della logica piuttosto che a quelle del pensiero, alle leggi della sintassi piuttosto che a quelle della lingua interiore: si tratta di un modulo già ampiamente sfruttato in fase modernista, e di cui non mancano illustri esempi nella letteratura italiana primonovecentesca.

Siamo però nel 1979. Che cosa è cambiato? Innanzitutto, come facile intuire dal sottotitolo del romanzo, ne Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile, è un personaggio femminile a scrivere di sé in prima persona, come d’altronde è una donna l’autrice del romanzo. E dire questo non è dire tutto, ma è certamente dire molto. L’opera di Laudomia Bonanni, restituita alle librerie dai tipi di Cliquot dopo più di quarant’anni dalla prima pubblicazione, riesce forse a parlare al nostro presente più di quanto dovette riuscire a scuotere e, chissà, a scandalizzare alla fine degli anni Settanta, in un clima sì di inedito risveglio femminista, ma anche di contrapposta sufficienza o ostilità.

La protagonista del romanzo, afflitta da angosce e paure di lungo corso, ritorna sulle proprie esperienze d’infanzia, familiari e di coppia nella segretezza della scrittura privata — invasa dalla presenza invisibile del lettore —, con quella inconsapevole, profetica sincerità che si può accordare al solo cantuccio del proprio intimo, ma senza allentare quei freni che impediscono a chiunque di raccontarsi del tutto persino a se stesso. Con un ruolo del genere nell’impianto narrativo del romanzo, questa moderna eroina non poteva che chiamarsi Cassandra: nome parlante, che da una parte lascia presagire sconforto, una sventurata verità, e dall’altra incomprensione e solitudine.

Come in ogni stream of consciousness che si rispetti, Cassandra è la prima a non comprendere a pieno il valore di ciò che vive — e il romanzo calerà il sipario sulle domande senza che queste trovino una risposta. Cassandra è figlia di modelli educativi “tradizionali”: uomini e donne complici dell’ormai canonizzata sofferenza delle donne, una sofferenza fatta di anaffettività e di chiusura, che nello sviluppo, nel matrimonio, nella maternità finisce per assurgere a progetto di vita. Da quei modelli Cassandra riuscirà a emanciparsi al livello razionale, ma al livello emotivo dovrà fare i conti con le loro conseguenze, con quei tratti traumaticamente acquisiti del carattere che sono parte di lei come lei, ovvio, sarà sempre e suo malgrado parte della propria famiglia.

Dalla famiglia si viene e alla famiglia in qualche modo si ritorna sempre, quando il guinzaglio della necessità si tende e ci avvisa che un limite è stato raggiunto; guinzaglio, o cordone ombelicale, implicito nell’atto del ricordo e persino nell’atto del rifiuto, dal quale Cassandra non si sentirà mai libera. Prevale però la sensazione che le tristezze di Cassandra siano comuni a tutti i suoi parenti, e che il lettone ne sia a conoscenza per una mera questione di punti di vista. La famiglia in cui silenzio, censura, allusione, divieto sono all’ordine del giorno appare così soltanto un espediente per «essere soli in compagnia» piuttosto che soli del tutto.

Il romanzo non si limita infatti a un discorso di genere. Simili riflessioni si assestano nel quadro di un più generale interrogativo al proposito della famiglia come spazio e non-spazio della vita del singolo e come spazio e non-spazio della morte, fatto crudele, quest’ultimo, perché inevitabile e naturale — la natura stessa si ammanta di una crudeltà insuperabile, di cui tutti sono vittime e agenti, e che al contempo offre un’ottima scusa al genere umano per perseverare nelle sue ataviche soffocanti convenzioni.

«La natura t’inchioda alla maternità, che tu l’accetti o la respinga. Per affrancarsi la donna dovrebbe andare contronatura» finisce per scrivere Cassandra, che ha evitato in tutti i modi, e non senza sentirsi fuori posto, di continuare con la procreazione le sorti della sua famiglia d’origine. Se venire al mondo può essere anche una disgrazia, dare la vita può essere anche una violenza. Ma non darla, invece, può rappresentare una colpa per la società.

Così la storia di Cassandra, donna “incompleta” per la tacita opinione dei parenti, riassorbe nell’immagine che dà il titolo al libro — quella del bambino di pietra, che ritorna nelle libere (e non sempre consapevoli) associazioni della protagonista come simulacro tombale, come litopedio, come tumore — il portato di una maturità non risolta. Come tutti Cassandra tiene con sé, dentro di sé, nella sua anima, quel «pezzo duro gelato come un sasso», quel misterioso «pezzo morto capace di crescere mostruosamente» che per chiunque è il germe della vita e della sua dissoluzione, e in cui si proietta il rimosso dell’infanzia: il tempo, la memoria.

Cassandra non avrà mai alcun figlio, ma terminerà il suo memoriale ponendosi un’alternativa: «forse ho scritto un libro?». La scrittura non è prodiga di soluzioni, ma come una radiografia, concede a chi la sfrutta il distacco sufficiente per riconoscere dall’esterno il proprio interno, dissociando l’una cosa dall’altra. E nell’arte, nel rapporto tra creatore e creatura d’arte, si possono sublimare quei meccanismi di egoismo, che invece in un albero genealogico si tramandano di generazione in generazione.

Non “abbiamo” figli; nessuno, nemmeno in famiglia, nemmeno in una coppia, ha il diritto di possedere qualcuno, sembra dirci Laudomia Bonanni: questo è il vero sbaglio di molti genitori, non tanto il procreare quanto piuttosto l’incatenare. E se in un certo senso noi siamo figli di noi stessi, delle nostre scelte, se nel nostro grembo sopportiamo il peso della nostra esistenza, non abbiamo alcun sicuro possesso sulle nostre vite, alcuna certezza sul significato che queste hanno per noi. In altre parole «alla fine è in due che si rimane»: e ognuno di noi, incapace di dialogare con le persone a lui vicine e con l’altro “se stesso” di quei due rimasti, resta solo, tremendamente solo.

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