Reading Time: 3 minutes

Potrà sembrarvi un argomento ormai superato, eppure secondo me certe questioni traduttive non passano mai di moda. Anzi, probabilmente dopo la fine delle polemiche da parte dei fandom è più semplice ragionarci su in maniera più pacata, ponderata e soprattutto accurata. Il fenomeno Game of Thrones, infatti, si è diffuso a livello mondiale coinvolgendo un pubblico via via più vasto, che tappa dopo tappa ha seguito la serie TV e/o la saga letteraria di G.R.R. Martin nonostante le differenze linguistiche, culturali e di fuso orario.

Precisiamo subito che il tema di oggi non è dedicato solo a chi conosce la storia, comunque, dato che il focus rimane la maniera in cui si è scelto di tradurre di Paese in Paese il nome proprio di un personaggio. Ecco quindi in due parole una contestualizzazione per chi non fosse al corrente della trama: in una sorta di Medioevo alternativo, dove esistono i draghi e la magia, alcune casate nobiliari della stessa penisola si contendono il controllo sulle altre attraverso intrighi di palazzo, guerre, matrimoni e coalizioni, fino a quando una minaccia più terribile del nemico umano si profila all’orizzonte e costringe le diverse fazioni a valutare l’ipotesi di un’alleanza comune contro la morte.

In questo contesto vive e muore il personaggio di Hodor, un servitore con un non meglio definito ritardo mentale che durante un attacco al signore che protegge, di nome Bran, fa di tutto per tenere lontano quest’ultimo da ogni pericolo. Attraverso un flashback, chi segue la serie scopre che i suoi problemi e la sua capacità di parlare ripetendo soltanto «Hodor» derivano da un attacco di convulsioni risalente a quando era un ragazzino e causato per sbaglio da Bran, il quale è in grado di attraversare il tempo con la mente.

Durante una sua visione ambientata nel passato, ma che si svolge in contemporanea all’attacco nemico di cui sopra, Bran si impossessa senza volerlo della mente del giovane servitore, mentre tenta di comunicare con l’Hodor del presente per esortarlo a mantenere chiusa la porta che li separa dai nemici. «Hold the door» (lett. «Tieni chiusa porta», cioè «Fa’ che rimanga ben chiusa»), gli dice quindi, e l’altro lo ripete in maniera ossessiva accorciando sempre di più la frase, fino a quando non si trasforma proprio nella parola hodor. Una faccenda ingarbugliata già a livello di intreccio e di significati, dunque, che la traduzione del telefilm ha reso ancora più delicata (Hodor, infatti, si chiamava così in tutti gli adattamenti già da sei stagioni).

In italiano la frase pronunciata da Bran è allora diventata «Trova un modo», che a detta di qualcuno non è così facile trasformare in Hodor, e che tuttavia crea un’assonanza tutto sommato accettabile tra le rispettive sillabe conclusive. In francese si è optato invece per «Garde-les au dehors» (lett. «Tienili fuori»), che in effetti per pronuncia ricorda molto il nome originale, mentre in spagnolo l’esclamazione prescelta è stata «Déjalo cerrado» (lett. «Tienilo chiuso»), che dopo una serie di mormorii dovrebbe condurre al medesimo risultato, forse attraverso una strada poco riuscita. In russo, per concludere con le lingue che conosco personalmente, si è infine scelta l’espressione «Resta vicino all’entrata», ovvero «Стой у входа» (stoj u vchoda), in cui vchoda diventa choda e poi Chodor (Ходор) con una resa davvero azzeccata.

Io mi fermo qui, dato che solo su queste lingue sento di potermi pronunciare. Il verdetto, chiaramente, non può essere univoco e nemmeno unanime. Talvolta l’operazione traduttiva è risultata migliore, altre volte più debole, e senza dubbio la rapidità con cui era necessario doppiare la puntata per trasmetterla in ogni dove ha giocato a svantaggio di creatività e adeguatezza. Va tenuto conto, però, anche del fatto che non tutte le lingue si prestano agli stessi giochi di parole nello stesso contesto e con un risultato finale purtroppo prestabilito (perché il nome Hodor era e Hodor doveva rimanere).

Dopodiché, se vi va, su Business Insider trovate la spiegazione più o meno esaustiva di molti altri adattamenti, così da riflettere come e più di me sulla varietà e difficoltà di opzioni che si offrono a chi vive la croce e delizia di dovere tradurre una frase simile. Voi, per esempio, su cosa vi sareste orientati in italiano?

Avatar photo

La catanese Eva Mascolino, 24 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all'estero nel corso della sua formazione universitaria. Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie", collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, L’Irrequieto, Sicilian Post), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi. Nel 2018 ha pubblicato il racconto "Vladimir’s Blues" con Aulino Editore, mentre con "L’uomo di colore" è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Catania, dove ha di recente svolto il ruolo di collaboratrice editoriale per la prima edizione del festival letterario EtnaBook.

Lascia un commento