Vocabolario minimo delle parole inventate
a cura di Luca Marinelli (Wojtek Edizioni)
Di solito le parole sono gli strumenti che gli scrittori usano per creare e animare i loro mondi: mondi ancora inesistenti che si servono di parole esistenti per essere narrati. Nel Vocabolario minimo delle parole inventate è come se questo rapporto si invertisse e i mondi degli scrittori, i loro racconti, diventassero il mezzo per dare vita a nuove parole: parole inventate che si servono di mondi immaginari per essere dette, scritte, narrate. Un esperimento letterario polifonico in cui ventidue scrittori italiani della litweb si confrontano in modo eterogeneo con il racconto di una parola da loro stessi inventata per comporre un nuovo lessico che rende esprimibile ciò che fino a un momento prima è stato inespresso.
Per gentile concessione di casa editrice e autore vi proponiamo la lettura di un ESTRATTO
DEMIURNARE
di Emanuela Cocco
Non fraintendetemi. Conciato come sono non mi credereste ma non sono una vittima. Questa voce, la mia voce falsa, lista della spesa, pensiero fesso, la voce che spiega, la voce: dire le cose come stanno, e non saperle, la mia voce sbrindellata effetto a freddo, la voce nome generico in continuo ricalcolo, voce da commento musicale extradiegetico, didascalica, da gratificazione standard, compensatoria, che non esiste, fiera di plausibilità, così verosimile e vecchia senza essere antica, sempre in parte, quindi sfocata, la voce da poco con cui ho giocato stasera, questa voce, avrei dovuto risparmiargliela. Me la sono cercata. Questa è la prima cosa da dire.
All’ombra dentro l’urne urne urne
Il sonno della morte morte morte
All’ombra dentro l’urne
morte morte morte.
URNE. Un gioco semplice da fare all’aria aperta quando la terra è aperta e fresca. Gioco da fare dopo il tramonto, in estate. Nella stagione delle piogge può essere pericoloso, ma ci si diverte di più. Se lo fai quando la terra è sommersa dalle foglie c’è il rischio che ti addormenti e quando poi si alza il sole caldo è così piacevole stare lì dentro che non ne vuoi più uscire e può diventare rischioso. Viene voglia di abdicare alla vita e, liberato, non tornare più sopra, restare in quel letto umido e fresco, in estate, soffice di foglie morte, in autunno. Una piscina di bronzo quando piove: attenzione alle lumache che ti baciano e ti fanno sperare cose innominabili. Attenzione in inverno: quel gelido letto rischia di diventare tuo a buon diritto. Un gioco semplice da fare all’aria aperta, nella nebbia, ma fate attenzione.
E un’altra, è importante: non sono stato costretto a partecipare. Vi prego di non cascarci con la storia della setta satanica. No, per favore. Lasciate stare la pista, l’ipotesi rafforzata, il coinvolgimento ipotetico, la lettura presunta, ignorate l’ombra che viene fatta calare sugli oggetti di rimando, mettete a tacere i da-quanto-riportato. Vi tratteranno come degli idioti, lo fanno sempre. Non cascateci. Usciranno delle foto. Guardatele bene, guardiamole insieme. Sono questo. Qualcosa di assiderato, un residuo di materiale colloso, una cosa bizzarra. Vedete croci rovesciate? Questa è forse una chiesa sconsacrata? Non lasciatevi impressionare. Ci incontravamo al Cimitero del Verano perché è un grande giardino, ettari di urne lungo la Tiburtina, un tempio in onore dell’antico editto che imponeva la sepoltura fuori le mura, quello sconfitto dai canti del poeta dei sepolcri. Avete mai pensato a cosa sarebbe accaduto se invece tutto fosse andato avanti? Se lo avessero fatto, se avessero preso i corpi dei morti, tutti i corpi dei morti, e ci avessero imposto di salutarli per sempre e da lontano? Se su quei morti, sui loro corpi, ci avessero poi impedito di segnare un nome? Avete mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere se ci avessero persuaso che è possibile vivere per sempre, se la morte fosse stata spinta lontano da noi, dalle nostre città, se fosse stata messa a tacere, se fosse caduta sotto il peso del nostro diniego? Perché è accaduto, ve ne siete accorti?
Minimo 6 giocatori
Si gioca così:
Uno è il liberato e cala nella fossa.
Uno è l’amico compassionevole.
Gli altri sono i cantori e fanno la storia del liberato con le parole.
All’ombra dentro l’urne urne urne
Il sonno della morte morte morte
All’ombra dentro l’urne
morte morte morte.
Vi inganneranno perché non avete una chiara visione del campo di battaglia. Vi diranno che lo facciamo perché disprezziamo la vita. Ma noi non adoriamo la morte, ne proviamo nostalgia. Dite che è ovunque, che ne siamo circondati? Noi diciamo che è scomparsa dai nostri orizzonti, che è stata amputata dal nostro corpo vivo, che la morte in noi è diventata un arto fantasma. Questo è l’agone: facciamo la morte con le storie.
Le storie non possiamo scriverle, devono dissolversi, come il corpo dei morti, come il loro nome. Se sono vive, vive sul serio, resteranno. Le canteremo senza intenzione, vivranno nella nostra bocca, viaggeranno di gola in gola. Se sono nate morte ci strozzeremo mandandole giù. A volte, quando sono vive sul serio, segniamo una parola, una sola, sulla lapide bianca, la parola di fango che fa la storia e fa il corpo e gli dà un nome. Sappiamo così che è quella la storia, che è quello il corpo che ora ha il suo nome. I morti della storia devono avere un nome, devono avere un corpo dissepolto da poter toccare. La parola di fango fa il corpo nuovo, cambi il corpo del mondo, che non conosciamo e lo porta tra noi, che gli abbiamo fatto la faccia e le mani, e un paio di gambe per vivere quello che non era mai accaduto se non dentro la parola di fango, sulla lapide bianca. La parola di fango lo rende immortale. Ha cose da dire, possiamo domandare. La parola di fango gli restituisce la voce. Anche se poi arrivava la pioggia e la tirava via, la parola esiste, la parola è il corpo nuovo, il corpo che stava nella nebbia si solleva, ascende a una specie di immortalità. Chi ha fatto la storia viva viene portato in trionfo, issato sulle nostre spalle, incoronato dalla spontaneità dei nostri canti, che replicano la storia immortale. Allora era pura gioia, quando la morte ci parla, là nei sepolcri creati e dissepolti. Un trionfo all’ombra dei cipressi.
Non era certo la prima volta che giocavo a urne ma di certo è l’ultima. Questa voce nella storia mi ha tradito. Era la mia? Prima che mi venisse sottratta. Resterà sepolta nel petto insieme al mio tempo. Se questo tempo deve morire, ho detto, che muoia pacificato con i suoi schiavi. Così ho fatto la storia, un ingranaggio inefficiente e condizionato, un’immagine ritoccata, la prospettiva amatoriale del mio diniego in formato ridotto. Ho fatto la storia e nella storia ha mentito la mia voce storpia, la voce che congiura, imbellettata. Ma loro erano attenti. Non l’hanno subita, l’hanno guardata insieme, e così hanno visto la sua natura. Hanno capito che la storia era un’arma che gli avevo puntato contro. Hanno risposto al fuoco.
Uno alla volta i cantori fanno la storia.
Un punto se muovono al riso.
Un punto se muovono al pianto.
Se muovono al riso e al pianto i punti si sommano.
Se arriva la paura un punto in più.
Certe storie, la mia, sono fatte per scomparire. Certe storie non sono adatte a creare un corpo e restano nella nebbia. Certe storie non hanno voce, non hanno nome. Chi le ha fatte perde al gioco. Chi le ha fatte paga penitenza. Un colpo per ogni tentativo andato a vuoto, per ogni parola inadatta a fare il corpo, buttata lì a caso. Chi l’ha fatta, la parola muta, deve pagare il prezzo della nostra illusione, del nostro errore, della nostra noia. Chi ha fatto la storia inservibile, chi l’ha fatta inutile, la storia molesta, la storia che mescola e maneggia, la storia impastata male, deve pagare il prezzo che abbiamo impiegato ad ascoltarla. Merita i nostri colpi. Sappiamo di essere nel giusto e lui sa di essere in debito. Offre il viso ai nostri colpi, gli occhi chiusi, saldo, non un lamento. Lo colpiamo. Uno, due, lo colpiamo per avere ragione del nostro scontento per la storia. Così la storia si frantuma, la storia frangibile, nata morta sulle labbra, appena pronunciata e già morta, appena dissepolta si frantuma, se la mandi giù ti avvelena, ti uccide. Chi l’ha fatta deve pagare.
Se le storie non sono fatte a dovere il liberato si solleva dalla fossa e si fa la storia da solo con le parole.
Se muove al riso viene applaudito.
Se muove al pianto viene abbracciato.
Se muove al riso e al pianto viene portato in trionfo sulle spalle dei cantori per i sepolcri.
Se non muove né al riso né al pianto viene picchiato a morte.
Altri giocheranno dopo di me. A questo gioco saranno chiamati. A processare i fatti, disseppellire i corpi disfatti degli eventi, scansionarne gli organi, vaticinare la complessa contingenza dei loro desideri, delle immagini di accensioni e scambi direzionali e riportarli in vita. Questo è quello che vi verrà chiesto: demiurnare. Demiurnare oppure morire.
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