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Di recente mi è capitato di dare alcuni consigli a una mia nuova amica alle prese con una traduzione dal siciliano all’italiano. Le ho suggerito di prestare attenzione ai realia, ovvero a quelle parole che potrebbero non esistere nella lingua di arrivo, e dopo un paio di giorni mi sono resa conto che un caso particolarmente insolito di realia ce l’ho sotto gli occhi da oltre quattordici anni. Sto parlando della traduzione del termine donna nelle diverse lingue del mondo, o quantomeno in quelle che conosco.

Mi spiego meglio: in italiano abbiamo due parole diverse per definire il concetto di donna e di moglie, la cui etimologia deriva in entrambi i casi dal latino. Donna viene infatti dal sostantivo domina, che significava signora e padrona di casa, ma anche sposa e donna amata, mentre moglie deriva da mulier, cioè donna non più vergine e quindi sposata. A differenza di altre voci analoghe in gran parte delle lingue indoeuropee, come per esempio madre o padre, però, lo stesso non può dirsi di questi vocaboli, dal momento che all’estero la situazione è diversa se paragonata a quella del Belpaese.

Prendiamo la Spagna, per dirne una, nazione in cui esiste un solo nome: mujer, che allo stesso tempo indica la donna e la madre, ancora una volta dal latino mulier. Pur con un’etimologia differente, un discorso simile vale per la Francia, dove con femme (derivato dal latino femina) ci si riferisce tanto a esseri umani di sesso femminile quanto a donne coniugate. Una tale tendenza si deve probabilmente al fatto che anticamente, tanto nei testi sacri quanto nell’immaginario collettivo comune, il ruolo della donna nella società era associato al suo legame con l’uomo, senza necessitare di ulteriori sfumature.

Discorso a parte merita la lingua inglese, dove invece una distinzione esiste eccome: da un lato troviamo infatti la parola wife, corrispettivo esatto di moglie, e dall’altro woman, cioè donna. I due termini, però, per la verità hanno una derivazione comune. Woman, infatti, è il risultato della prefissazione di man (it. uomo) con il protogermanico di genere neutro *wīfa-, che ha portato dapprima a wofman e in seguito alla forma attuale woman. Evolvendosi in quanto parola a sé stante, intanto, *wīfa- è poi divenuto l’odierno wife, mantenendosi anche in altre lingue germaniche nelle forme wiif (olandese), viv (danese e svedese), e Weib (tedesco).

In maniera affine, sebbene non identica, il russo ha dal canto suo la voce жена (pron. žéna) per moglie e женщина (pron. žénščina) per donna, che tuttavia condividono la provenienza dall’indoeuropeo *gʷḗn. La radice ha dato vita a voci quali queen in inglese (regina in italiano) e, più anticamente, a gens e genus in latino, da cui poi sono derivati vocaboli come genetica, gente, genealogia e così via. In maniera letterale, dunque, жена e женщина richiamerebbero al loro interno la nozione di persona che genera, che dà alla luce, in cui notiamo un’ulteriore associazione tra il sesso femminile e la sua collocazione all’interno della comunità, stavolta in quanto madre e procreatrice.

Questo lungo excursus, che forse ai più apparirà noioso o fine a sé stesso, ha in realtà un duplice scopo. In primo luogo, ci permette di capire da quale visione del mondo derivi un nome comune di persona che al momento comprende circa 4 miliardi della popolazione mondiale, portandosi dietro dei retaggi storici e religiosi di una certa portata. In secondo luogo, come ho letto in un interessante articolo sull’argomento, le considerazioni multilingue in merito ci permettono di riflettere sul fatto che il concetto sotteso a parole quali donna o moglie non cambia mai. «È la rappresentazione di un concetto, la cui vera natura è pensata per essere convenzionale e intersoggettiva, che può cambiare anche pesantemente nel corso dei secoli», o rimanere uguale.

E in ottica traduttiva, nonché culturale in senso lato, è fondamentale sapere se per gli interlocutori stranieri con cui abbiamo a che fare esistano distinzioni concettuali tra alcuni termini o meno, e in che maniera esse abbiano plasmato la loro idea di moglie, donna o madre tanto nella vita quotidiana quanto a livello di categorie di pensiero. Una buona trasposizione da una lingua all’altra, d’altronde, non può che partire da una profonda conoscenza degli schemi mentali corrispondenti, in tutte le loro sfumature.

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La catanese Eva Mascolino, 24 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all'estero nel corso della sua formazione universitaria. Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie", collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, L’Irrequieto, Sicilian Post), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi. Nel 2018 ha pubblicato il racconto "Vladimir’s Blues" con Aulino Editore, mentre con "L’uomo di colore" è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Catania, dove ha di recente svolto il ruolo di collaboratrice editoriale per la prima edizione del festival letterario EtnaBook.

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