Il racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, il cui titolo originale era Bartleby the Scrivener: A Story of Wall Street, esce per la prima volta nel 1853 in forma anonima in due parti presso la rivista Putnam’s Magazine. Successivamente, solo tre anni dopo, viene integrato nella raccolta The Piazza Tales con alcune variazioni testuali.
Negli stessi anni le strade di Milano prendono confidenza con le rivolte operaie e socialiste; il commodoro Perry attacca Tokyo, costretto così i suoi confini alle influenze occidentali; contemporaneamente nasce la stazione di Innsbruck. Un anno vissuto con la colonna sonora di Verdi e un primo globalismo dirompente.
L’analisi di questo avvincente racconto pone la discussione letteraria su piani differenti, il primo dei quali, (immediato e urgente già a una prima lettura), è il più discusso in tutti gli ambienti accademici, soprattutto nei dipartimenti di Letterature Comparate. Si tratta dell’aspetto sociologico e antropologico della storia: la denuncia di Melville ai danni del sistema lavorativo statunitense e di Wall Street, l’ambiente che in assoluto diventerà il più indifferenze alle esigenze e ai bisogni dei lavoratori. Il secondo aspetto invece riguarda la riscoperta da parte dei più di un Melville che vive, incuriosisce e stimola la riflessione, aldilà di Moby Dick, un’opera senz’altro imponente ma in qualche modo ontologicamente più semplice rispetto a questo breve racconto.
La storia si svolge in uno studio legale di Wall Street a New York. Il primo e pressochè unico personaggio a parlare e a presentarsi è l’avvocato titolare dello studio, «un uomo piuttosto anziano […] profondamente convinto che la via più facile sia la migliore»; ad accompagnarlo nei suoi compiti quotidiani ci sono i suoi dipendenti: Turkey «[…] un inglese, basso e corpulento», Nippers che in breve «[…] non sapeva ciò che volesse» e Ginger Nut «un fanciullo di circa dodici anni». A sconvolgere la “vita nel guscio” dei personaggi è l’arrivo nello studio di Bartleby, un altro scrivano, « […] un immobile giovanotto, […] quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta!», l’estraneo che interromperà la meccanica dell’utilità come mezzo e fine della propria fatica e del proprio lavoro.
«Non di rado accade che, se contrariati in maniera insolita e profondamente irragionevole, si senta vacillare in noi le nostre più elementari convinzioni. Si comincia, per così dire, a contemplare la possibilità che, per quanto sorprendete sia il fatto, tutte le buone e giuste ragioni aitino in casa dell’altro.» (p.14)
Se inizialmente il lavoro nello studio procede tranquillamente e Bartleby svolge compiutamente tutte le sue mansioni, un giorno il copista decide di smettere di lavorare, iniziando a rispondere a qualsiasi richiesta con la frase “I would prefer not to” «Avrei preferenza di no». L’avvocato, e voce narrante, infastidito e sorpreso da questo atteggiamento, col passare del tempo scopre la disagevole situazione del suo dipendente, senza amici né famiglia, costretto a vivere nello studio. Impietosito l’avvocato inizialmente cerca invano di persuadere lo scrivano. Dopo svariati tentativi e proposte generosissime purchè se ne vada, non riuscendo ad allontanarlo decide di trasferire lo studio altrove. A questo punto si potrebbe ritenere la storia conclusa, eppure non è così. Infatti, dopo poco tempo l’avvocato viene contattato dai nuovi proprietari infastiditi dalla presenza di Bartleby che per tutto quel tempo non aveva mai abbandonato l’edificio. Bartleby a causa di questa condotta riprovevole viene poi imprigionato e lì, nel cortile del carcere, si lascia morire.
Le contingenze economiche, politiche e sociali dell’America a fine Ottocento non sono trascurabili per poter interpretare la lettura di questo testo: infatti, negli stessi anni se in Europa il lavoro impiegatizio veniva letto socialmente in modo negativo (l’impiegato viene visto come un uomo mediocre il cui ascensore sociale non può di certo salire), in America la situazione è completamente rovesciata. La condizione del lavoratore è a tutti gli effetti uno spartiacque verso una scalata sociale potenzialmente senza limiti. Nonostante questo Bartleby decide di non approfittare dell’occasione ma di rimanere immobile, creando nei personaggi che lo circondano e nei lettori una prorompete sensazione di turbamento. Il protagonista esce così dalla macchina produttiva e fa di sé un personaggio scomodo. Il testo di Melville, seppur ermeticamente, non può esimere i lettori dal porsi questioni di essenza e identità culturale tra l’America e i personaggi che lì vivono più o meno avidamente. La partecipazione dei personaggi, infatti, non risulta immediata e neppure scontata, là dove il protagonista, Bartleby, pronuncia poche parole, la voce narrante si fa testimone della carica simbolica che lo scrivano non riesce a chiarire. All’interno della dialettica narrativa Bartleby sovverte l’idea che attraverso il dialogo e la parola sia davvero ragionevole capire gli altri; trovando la parola (come mezzo di comunicazione) ormai un sacchetto vuoto, e persa la fiducia, affida tutte le sue intenzioni alla riflessione che solo il silenzio può stimolare negli altri.
«Mi ricordai che mai parlava se non per rispondere; […] mai l’avevo veduto leggere: no, neppure un giornale; che per lunghi periodi egli restava all’impiedi innanzi alla sua pallida finestra oltre il paravento, guardando là fuori quel cieco muro di mattoni…» (p.23)
Melville organizza la narrazione facendola scorrere sinuosamente tra il grottesco, l’assurdo e il drammatico. Quest’ultima sensazione nasce e si alimenta grazie a un presupposto di “irrimediabilità” che Bartleby trasuda e dall’arrendevolezza del suo anziano datore di lavoro che, seppur affranto, cede all’indifferenza come unica via per sopravvivere a quell’uomo «tanto scellerato». Da cosa nasce questa indifferenza?
«Ciò nasce piuttosto da una non so qual impotenza nel porre rimedio ad un male che sia estremo e organico. Per un essere sensibile, non di rado la compassione è dolore. E, quando infine egli s’accorge che tale compassione non può portare alcun effettivo soccorso, il buon senso sponge l’animo a sbarazzarsene. […] lo scrivano era vittima d’u disturbo innato ed incurabile. Avrei potuto essere caritatevol con il suo corpo; ma non il suo corpo gli dava pena; era la sua anima che soffriva, e quella io non potevo raggiungere.» (p.24)
L’autore attraverso una retorica letteraria che oggi potremmo dire fare scuola allo storytelling che ci circonda, confonde emotivamente il lettore che oscilla continuamente tra sentimenti contrastanti di odio, rabbia, rassegnazione, divertimento, e risa. Il narratore non si esime dal condividere con il lettore tutte le teorie e i flussi di coscienza che gli passano per la testa, ormai sul punto di cedere, continua a interrogarsi sul suo dipendente arrivando infine a una conclusione «Ed egli era uomo di preferenze, più che di assunti» (p.31). L’avvocato racconta di Bartleby ponendolo fuori da ogni tipologia letteraria riconoscibile, facendo perdere le tracce di un punto di riferimento narrativo. Quando si interrompono i flussi empatici, Melville rimane fedele a se stesso ripromettendo una “incondizionata democrazia di tutte le cose”: lascia al lettore la possibilità di vedere le vicende che si susseguono sotto tutti gli aspetti senza affrettare giudizi o permettere il consolidamento superficialmente di preconcetti. Anche una volta finita l’opera però rimane una sensazione di spaesamento, frustrazione, il cui sollievo arriva solo nel momento in cui finiscono i tormenti di Bartleby, che esce definitivamente di scena.
Il tema portante di tutte le vicende, che si interrogano sull’essenza dell’uomo, è senz’altro il lavoro, e se si pensa a quello che è diventato il lavoro oggi e alle conseguenze sociali e individuali che ha portato non si può che riflettere sulle intenzioni provvidenziali dell’autore nel mettere in guardia i suoi contemporanei e i posteri rispetto gli effetti di un processo iniziato e vedutamente inarrestabile. Per questi motivi si potrebbe definire Bartleby un esercizio allegorico in cui la testimonianza dell’anziano avvocato che parla ai lettori riflette la classe sociale lavorativa deteriorata e consumata dalla società americana che ha perso il contatto con l’individuo a fronte di uno sfruttamento cieco dello stesso che risulta sempre essere una figura sostituibile e da sostituire una volta diventata inutile. Per questo lo scrivano reclama e denuncia la sua perdita di identità con l’annullamento di sé e la figurazione concreta della sua persona come ingombrante. La pesantezza e il volume del corpo umano, lo spazio fisico che occupa, richiamano l’attenzione anche di chi prima non l’avrebbe notato dopo anni di lavoro assieme. In questo senso Deleuze offre una visione distorta di Bartleby quando lo inserisce tra i “personaggi folli” di Melville: lo scrivano non è folle, non si comporta senza senno, anzi risulta essere lucidissimo nelle sue scelte e nel suo modo di comportarsi; è il personaggio all’interno del romanzo più consapevole, a lui la storia è tanto chiara da far sembrare degli inetti i personaggi che non la comprendono.
E perché parlare di intraprendenza? Per l’innovativa protesta che Bartleby mette in atto: prima quando consapevolmente (si suppone) decide di smettere di esistere come impiegato dello studio; poi, più radicalmente, quando si lascia morire di fame e di sete, e scompare dalle catene sociali anche come uomo. Nella celebre frase di cui già si parla sopra «I woulf prefer not to» si potrebbe leggere l’intenzione di svincolare la coscienza dal corpo e di trasferirla nel misterioso sistema esistenziale che rimane ancora un enigma irrisolto nella lettura di questo testo. Ma può leggersi questo epilogo come un a vittoria definitiva per lo scrivano? Sì, in effetti potrebbe leggersi anche come una vittoria. Bartleby infatti con solerzia (letteralmente senza far nulla) ha trasformato il luogo di lavoro svuotandolo del suo significato e rendendolo così inutile allo scopo produttivo, rimanendo solo una scenografia funzionale alla narrativa del rifiuto. L’inerzia, nemico assoluto dell’utilitarismo americano, si rivela essere la potenza dello scrivano che con disinvoltura e totale indifferenza espugna l’inespugnabile frenetismo di Wall Street. Bartleby si riconosce essere alieno alla vita e la vita, in risposta, confermando le sue supposizioni, lo allontana e lo rigurgita dai meccanismi sociali di inclusione, compassione e simpatia. L’esistenza di Bartleby è paradossalmente un’esistenza in stato di potenza, che si compie, esce dal guscio, solo nel momento in cui completamente smette di esistere, e muore. Agamben ha parlato di “rifiuto dell’atto a vantaggio della potenzialità”, una condizione archetipica che si lascia davanti svariate possibilità e nessuna definitiva conclusione.
Bartleby lo scrivano, in base a questa analisi, risulta essere un testo efficacissimo all’interno di questa Rubrica che si interroga su come letteratura contemporanea riesca a parlarci del nostro presente indagando attraverso fatti storici e romanzati le cause e i precursori delle situazioni che viviamo. Un autore che di certo non si è fatto sfuggire l’occasione di riportare in auge, anche in teatro, questo misterioso testo di Herman Melville è Daniel Pennac. Nel 2018 infatti esce per L’ E’ditions Gallmard MON FRE’RE ( in italiano “Mio Fratello“), un monologo teatrare che presenta una notevole riduzione di Bartleby lo scrivano, il cui protagonista è Bernard, una delle persone più importanti nella vita di Pennac, suo fratello appunto.
Data la complessità del testo (la quale per motivi di spazio e intenzioni divulgative non ho reso nella sua completezza), consiglio di leggere per i più curiosi un saggio interessantissimo di Agamben e Deleuze: Bartleby, La formula della creazione.
Inoltre potrebbe essere interessante approfondire il percorso di Melville nella creazione di questo racconto dall’insuccessso di Moby Dick attraverso le lettere scritte dall’autore tra il 1850 e il 1852. Nel caso foste interessati, fatemelo sapere nei commenti.
è nata nel 1996 a Pesaro, si è laureata in Lettere Moderne con una Tesi in Letteratura Italiana Contemporanea rigurardo “Lo sfacelo dell’istituzione familiare ne Gli indifferenti di Alberto Moravia”. Ha lavorato per Mangiatori di Cervello, premiato ai Macchianera Awards nel 2016 e ha intrapreso un breve percorso nel mondo della cronaca. Nonostante l’inesauribile passione per la letteratura si è avvicinata al mondo del Marketing e della Comunicazione cui ha sostenuto diversi esami durante il percorso di studi. Mentre frequenta la Magistrale in Italianistica lavora nell’ambito della comunicazione politica. Già appassionata sin da giovanissima ha pubblicato “Elle” nella collana di Rupe Mutevoli.
Devi essere connesso per inviare un commento.
Associazione Culturale L'Irrequieto
, Firenze-Paris @2010-2018
Privacy policy-cookie
|| Contatti || Mappa del Sito
Ciao Virginia, aspetto i tuoi articoli con curiosita. Sono sempre acuti e profondi. Ogni volta riesci a incuriosirmi e torno a rileggere il libro o ad acquistarlo. Aspetto il prossimo!!!
Ciao Katia, grazie mille per la tua fiducia e il tuo tempo. Nelle prossime settimane uscirà un articolo speciale, con tanti consigli di lettura!
A presto 🙂