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Breve analisi del rapporto tra le opere di Alan Moore e i rispettivi adattamenti cinematografici.

 

Il legame esistente tra fumetto e cinema è sempre stato molto forte: basti pensare agli adattamenti cinematografici delle avventure a fumetti e viceversa, oppure agli storyboard (molto simili ai comics) che vengono realizzati sia per avere una rappresentazione grafica di quelle che saranno le inquadrature del film, sia per avere una previsualizzazione del montaggio (magari anche con bozze di doppiaggio ed effetti sonori). Sono molti i casi in cui da un fumetto, comics o graphic novel, viene tratto un adattamento cinematografico più o meno fedele o di libera interpretazione. Si pensi, ad esempio, alla recente trilogia di Batman The Dark Knight di Cristopher Nolan, il ritorno/reboot sul grande schermo di Superman con il film Man of Steel di Zack Snyder o alla meravigliosa e più recente rilettura del Joker di Todd Phillips che si è avvalso di uno straordinario attore come Joaquin Phoenix. Ma ci sono anche casi in cui il film genera il cosiddetto universo espanso a fumetti, come è accaduto per il film Darkman (1990) di Sam Raimi o, per portare un esempio più lampante, pensiamo alla vasta mole di comics –libri e videogiochi- che hanno continuato, espanso e approfondito l’universo di Star Wars.

Un caso di particolare interesse riguarda le controverse trasposizioni delle opere a fumetti di Alan Moore. Nel corso dell’intervista rilasciata alla rivista Strange Things Are Happening vol. 1, no. 2, May/June 1988, egli ha espresso il suo pensiero circa il rapporto esistente tra cinema e fumetto: “The relationship between films and comics has been overemphasised to a degree. If you understand cinematic techniques then you’ll be able to write better, more gripping comics than someone who doesn’t, but if cinematic technique is seen as the be all and end all of what comics can aspire to, then at the very best comics are always going to be a poor relation to the cinema. What I’d like to explore is the areas that comics succeed in where no other media is capable of operating. Like in Watchmen, all that subliminal shit we were getting into the backgrounds. You are trapped in the running time of a film – you go in, you sit down, they’ve got two hours and you’re dragged through at their pace. With a comic you can stare at the page for as long as you want and check back to see if this line of dialogue really does echo something four pages earlier, whether this picture is really the same as that one, and wonder if there is some connection there”.

Secondo Moore, quindi, i due linguaggi, pur utilizzando l’immagine come principale mezzo espressivo, possiedono potenzialità intrinseche che li rendono molto diversi. Moore rivendica in primis, per il fumetto, una autonomia formale, culturale e tecnica rispetto ad altre forme artistiche analoghe, quando sostiene di voler indagare aree non percorribili da nessun altro mezzo espressivo. Infatti la fissità dell’immagine, che da alcuni potrebbe essere considerata uno svantaggio rispetto al cinema, è in realtà un elemento qualificante e diversificante perché spinge il lettore ad una maggiore attenzione e comprensione, sia dell’apparato scenico che della materia narrativa nel suo complesso. Egli pensa inoltre che la grammatica cinematografica, con particolare riferimento alle scelte registiche, possa essere usata per ottenere un innalzamento del livello qualitativo della narrazione a fumetti, ma che debba comunque rimanere subordinata agli elementi sostanziali del racconto. D’altra parte, pur apprezzando il cinema come espressione artistica, Moore si è sempre dimostrato sospettoso e poco favorevole agli adattamenti cinematografici dei comics (in particolare dei suoi), tanto da rifiutare di comparire nei credits dei film ricavati dalle sue opere.

Questo suo rifiuto, ad una analisi più attenta, non appare ingiustificato: adattamenti cinematografici come The League of Extraordinary Gentlemen del 2003, diretto da Stephen Norrington, e Constantine del 2005, diretto da Francis Lawrence, sono risultati deludenti, incapaci di trasferire sul grande schermo lo spirito delle opere di Moore. Al di là del mero intrattenimento e senza tenere in considerazione le differenze tra movies e comics, si sono dimostrate opere mediocri. Un altro esempio è il film From Hell (curiosamente tradotto in italiano La vera storia di Jack lo squartatore) del 2001, diretto da Albert e Allen Hughes. Infatti, nonostante l’impiego di una importante star di Hollywood come Johnny Depp nelle vesti dell’ispettore Frederick Abberline e di Sir Ian Holm, che interpretava il medico-killer al soldo della regina Vittoria, il risultato finale, per quanto non disprezzabile, risultò ben lontano dalla densità narrativa e dalla complessità del graphic novel. Possiamo avanzare l’ipotesi che l’avversione di Moore nei confronti degli adattamenti cinematografici dei comics abbia origini più lontane. Nel 1982 e nel 1989, infatti, furono realizzate due modeste trasposizioni cinematografiche liberamente ispirate al personaggio di Swamp Thing, primo successo americano dell’autore inglese. Dei due adattamenti, Swamp Thing (1982), diretto dal maestro dell’horror Wes Craven e The Return of Swamp Thing (1989), diretto dal noto regista di B-movies Jim Wynorski, il primo è stato accolto più o meno positivamente da pubblico e critica, mentre il secondo, nel quale le tematiche sono state trattate con una superficialità che ha svilito il lavoro di scrittura di Moore, è stato stroncato sia dalla critica che dal pubblico.

Anche le due più recenti trasposizioni cinematografiche V for Vendetta del 2005, diretto da James McTeigue, e Watchmen del 2009, diretto da Zack Snyder, sebbene risultino essere opere con una regia ed una sceneggiatura più sorvegliate e sebbene abbiano incontrato un notevole favore da parte del pubblico, e parzialmente anche della critica, non hanno comunque ottenuto l’approvazione di Moore, che ha rifiutato di figurare nei titoli. Senza entrare nel merito delle differenze tra comic e movie, che per altro riconosciamo essere dettate dalle diversità di fondo dei due linguaggi, un’attenzione particolare va prestata alla conclusione del movie V for Vendetta. Infatti nella sceneggiatura dei fratelli (oggi sorelle) Wachowski il finale del film è stato modificato e reinterpretato, sostituendo la visione negativa di Moore, che immagina il prosieguo della lotta di V, e della sua erede Evey, svilupparsi lungo un percorso oscuro di violenze ed oppressioni, con una visione positiva (e populista). I Wachowski nel finale della loro versione cinematografica immaginano che dagli atti terroristici di V possa scaturire un movimento che risvegli le coscienze del popolo inglese e che quest’ultimo possa addirittura sollevarsi contro il ‘regime’ che lo soffoca.

Il grande successo di V for Vendetta e la sua ampia e ininterrotta diffusione, ma soprattutto la popolarità che l’opera ha raggiunto in conseguenza della trasposizione cinematografica del 2005, hanno influenzato movimenti politici giovanili, generalmente fondati sulla capacità di aggregazione della rete. È il caso, ad esempio, del movimento Anonymous, associato erroneamente alla figura degli hackers, che ha scelto come simbolo proprio la maschera che rappresenta Guy Fawkes per condurre la sua lotta contro le ingiustizie e i cosiddetti poteri forti. Anche il Movimento 5 Stelle, anch’esso convinto della potenzialità di diffusione delle loro idee politiche attraverso la rete, si è ispirato al graphic novel di Moore. Il Movimento, fondato dal comico e politico genovese Beppe Grillo con l’intento di eliminare dalla politica del nostro paese ogni forma di corruzione, facendo riferimento all’opera di Moore e Lloyd, ha adottato come simbolo la V rossa iscritta nel cerchio di V for Vendetta.

Gli adattamenti cinematografici non hanno smesso di tormentare Alan Moore nemmeno in tempi più recenti. Nel 2019, infatti, Damon Lindelof, sceneggiatore, produttore e fumettista statunitense, nonché autore della celebre serie Lost, ha dato alla luce la miniserie televisiva Watchmen: un sequel ambientato trent’anni dopo le vicende narrate nel graphic novel negli Stati Uniti di un 2019 alternativo (proprio come accadeva nel fumetto). Moore si è dichiarato non interessato al progetto e per niente entusiasta. Non possiamo che essere d’accordo con la posizione del guru di Northampton, dal momento che tutto ciò risulta alquanto superfluo; in buona sostanza si tratta di ‘nuova’ materia narrativa non davvero necessaria. Questa dinamica di carattere commerciale attanaglia da lungo tempo il fumetto e le sue trasposizioni cinematografiche. Già nel 1961 Carlo Della Corte, giornalista e scrittore esperto della nona arte, scriveva al riguardo nel suo libro I Fumetti: “Confezionare un film attorno a un protagonista delle storie a fumetti è insomma un’impresa di tutta tranquillità, perché il richiamo è tale da garantire l’opera da ogni insuccesso, indipendentemente dalle sue intrinseche qualità. È una prova di più, se ve ne fosse bisogno, del raptus che stordisce un numerosissimo pubblico, fanatizzato all’eccesso, legato ormai non tanto al personaggio, ma al suo schema, al suo solo nome, al modulo fisso che si perpetua di anno in anno, quasi meccanicamente”. Tali parole, tutt’altro che delicate, dimostrano un’analisi cristallina e dovrebbero invitarci a riflettere sulla via ‘industriale’ e priva di anima che in alcuni casi tali adattamenti scelgono di perseguire. Proprio lo scorso anno la medesima questione, seppure in modo più blando e meno lucido, è stata sollevata da regista Martin Scorsese che si è scagliato contro i cosiddetti cinecomics della Marvel che invadono le sale cinematografiche togliendo spazio a film più narrativi.

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Gianmarco De Chiara è nato Napoli il 5 Aprile del 1989. Dopo gli studi classici si iscrive alla facoltà di Lettere Moderne dell’Università Federico II, laureandosi in Letteratura Inglese con una tesi sul rapporto tra Tolkien e il Medioevo e specializzandosi nel biennio successivo in Filologia Moderna con una tesi sperimentale, ancora in Letteratura Inglese, sul rapporto tra Letteratura e Fumetto. Alterna l’interesse per la scrittura con quello per il disegno e il fumetto, sperimentando anche altri linguaggi espressivi come la grafica, l’illustrazione, la pittura e il cinema. Collabora con diverse realtà editoriali, anche indipendenti, in veste di autore o in qualità di illustratore e grafico. Nel 2008 ha fondato la rivista Malefico e alla fine del 2010 Fumé, rivista di fumetto, arte e cultura. Nel 2015 ha esordito con il suo primo romanzo Dove stanno le lucertole, edito dalla casa editrice Homo Scrivens, e con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2017, il secondo romanzo A sud della mia persona.

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