Il soffitto con gli specchi
di Donatello Cirone
La mattina del trenta febbraio Ismaele Giudici uscì di casa con uno strano sentore di improvviso. La città era stranamente viva, lui stanco e annoiato. I turni in fabbrica si accorciavano sempre più, il licenziamento si avvicinava. Il bar era come al solito vuoto, lo sgabello scomodo. La birra fresca scendeva leggera, le bolle si schiudevano in bocca e uscivano dal naso solleticandolo.
Gli occhi stanchi erano il segno più evidente dell’insonnia e i capelli ricci erano arruffati, la fronte sudata. Le mani affaticate dal continuo logorio tremavano.
Guardò la macchina e decise di lasciarla lì, avrebbe camminato. Le strade nel frattempo si erano svuotate, le voci di prima avevano fatto posto alla solitudine e all’assente latrare dei cani.
Una volta arrivato a casa posò le chiavi, sistemò il cappotto all’attaccapanni e si spogliò. Riempì la vasca fino all’orlo e s’immerse, l’acqua traboccò per essere assorbita in parte prima dai vestiti lasciati lì a terra e poi fin sotto il tappeto. Era fermo, con la testa rivolta verso l’alto a specchiarsi. Gli specchi montati per un capriccio di Brigilda che prima di scappare di nascosto aveva voluto l’intero soffitto ricoperto da specchi. Per quel desiderio Ismaele aveva fatto anche i turni di notte e firmato settecentoquarantadue grammi di cambiali. Poi era andata, fuggita non si sa dove e neanche con chi, scappata nel nulla.
Ismaele fissava il suo corpo dall’alto: l’immagine dissolta e deformata dal riflesso dell’acqua sembrava la foglia d’autunno caduta nella buca lungo un viale calpestato mille volte da mille uomini pesanti.
Era stanco Ismaele della fabbrica e dei rimproveri. Era stanco di soffrire per un passato oramai sbiadito dall’acido accumulato, Brigilda era andata, scappata da più di due anni. E per quei maledetti due anni aveva vissuto ramingo in cerca d’amore; come tutti del resto.
La sveglia, il caffè, il cartellino timbrato, la pressa in fabbrica, pranzo in mensa. Lavoro fino alle sei, il bar e la birra fresca. Una mezza parola con il barista e a casa. Doccia, cena in forno microonde, un po’ di tivù e poi un occhio alla rivista di motori, poi gli occhi fanno male e ancora un po’ di tivù. Il sonno lo si aspetta improvviso ma, prevedibilmente la notte si consuma e gli occhi sbarrati intravedono le prime luci. La sveglia inutilmente suona : una nuova giornata.
Per oltre due anni Ismaele aveva vissuto muto e solo. La ripetitività del suo vivere lo stava distruggendo, tutto di lui si stava disgregando come le fibre d’una gazzella sotto i morsi d’un branco di leonesse gravide.
Il doloroso addentrarsi in sé lo aveva isolato in una camera buia, la sua vita proseguiva come un viottolo di campagna mai battuto.
Era fermo Ismaele, il rumore sordo dell’acqua che sbatteva contro le pareti bianche della vasca era l’unico percettibile rumore della casa, tutto in quella casa era fermo.
Continuava a guardarsi e non si rivedeva, dove era Ismaele? Dove?
Il sentore della mattina si concretizzò: l’improvviso avvertito mentre faceva colazione divenne reale; moto reale. Si levò dalla vasca con forza, poggiò i piedi sul tappeto e si diresse in camera, di spalle si lasciò cadere sul letto, era nudo e bagnato. Le piccole goccioline fra i peli della sua schiena vennero subite assorbite dalle lenzuola, infiniti piccoli rivoli d’acqua alimentati dalle altrettante goccioline condensate sul suo petto villoso scendevano prima lenti e poi sempre più veloci con l’aumentare della curvatura della pancia verso le lenzuola. Quella notte Ismaele dormì profondamente, recuperò i suoi due anni di vita e di sonno. Si addormentò così nudo e bagnato sul letto con le lenzuola nere.
L’indomani si alzò alle undici mangiò un’abbondante colazione con gusto, si diede una sciacquata alla faccia, sistemò un po’ casa e cambio il paio di lenzuola con un altro di un bel colore giallo canarino.
Quella stessa mattina chiamò la fabbrica, si fece passare il suo caporeparto e gli comunicò il suo licenziamento con alcune dolci e sentite frasi che sarebbero state censurate perfino dal demonio in persona, scaricò attraverso quella cornetta la rabbia nascosta da sette anni di soprusi e umiliazioni.
Esaudì il suo più recondito desiderio. Rimise la cornetta al suo posto si sedette sul divano e si godette il suo momento: l’ultima volta che aveva provato quella piena sensazione di soddisfazione fu quando distrusse tutti i vetri della macchina di Luca Dorem, il fruttivendolo. Aveva cercato di toccare la sorella una volta che era andata da sola a comprare le arance fresche.
Ismaele aveva dato una svolta diversa alla sua vita, quella sporca e striminzita maglia che aveva addosso sarebbe diventata una splendida lunga giacca che gli avrebbe coperto tutto.
Ismaele riprese in mano la sua vita e il suo mondo per vivere quello che c’era da vivere al meglio, senza rincorrere l’equilibrio o chimere inutili, senza cercare di strafare. Vivere respirando aria e mangiando pane. Bere direttamente dalla sorgente.
Quella sera Ismaele uscì di casa felice. Aveva il vento sulla faccia, con fierezza gladiatoria si destreggiava fra la folla che si muoveva in direzione opposta alla sua, era uno scaltro matador.
Mentre si dirigeva verso un locale in centro con passo sicuro si sentì chiamare, si girò e con estremo stupore vide materializzarsi dinanzi a se la figura splendente di Brigilda. Rimase basito Ismaele. L’assenza di salivazione gli impediva di parlare, le mani, le braccia, i polsi, le spalle erano pesanti, le gambe deboli. Ismaele non pronunciò una sillaba, nemmeno un impercettibile suono plasmarono le sue secche labbra. Muti si incamminarono verso casa. Lui aprì il portone, lei timorosa lo seguiva. Lei tolse il cappotto, lui fece lo stesso. Andarono in camera si spogliarono, lei si sdraiò lui fece lo stesso.
Tutt’e due fissarono il soffitto per tutta la notte tenendosi per mano.