Petali nell’aria
di Donatello Cirone

Il sole fuori si era eclissato. Bice si dimenava, le punte dei chiodi penetrate dentro le sue braccia luccicavano sotto il neon, una luce bluastra le illuminava la fronte, il ventre era gonfio come il palloncino volato via al suo settimo compleanno, i muscoli della mascella si erano lacerati, i nervi annodati, i denti polvere e le gengive zampillavano come la Barcaccia dopo la scesa della compagnia dei fioristi, i suoi capelli si muovevano come pale di mulini a vento sferzati da una bufera, nella stanza si respirava pace proprio come in un cortile con una vacca e tre tori pronti alla monta. Spingeva Bice, si dilatava, trasudava sangue, le dita dei piedi, nell’aria, danzavano come dieci ubriachi in preda a un delirium tremens.
Bice era solo Bice e respirava, a fatica ma respirava.
La luna, di giorno, era visibile in cielo. I suoi occhi davano l’impressione che sarebbero usciti fuori dalle orbite senza chiedere il permesso, la barba lunga nascondeva la tensione, i capelli assenti si erano congedati qualche anno prima, il bacino si muoveva a tempo, il petto fiero si ergeva forte e vigoroso dinanzi alla prima fila che diventava sempre più debole, sempre meno certa, umida. Si stagliava nel cielo bianco la sua figura e tutti ne erano affascinati, tutta la potenza sprigionata dai suoi muscoli si concentrava nella punta fine della sua bacchetta, movimenti studiati disegnavano nell’aria scie invisibili. La seconda fila percepiva le prime leggere ondate di sudore che arrivano dalle sue ascelle già visibilmente commosse. La terza invece era concentrata sui suoi occhi, verde vernice, la bacchetta era una grande penna a inchiostro magico e tutti ascoltavano, quel suo incedere in uno spazio non visibile ancorava gli occhi di tutti a quel corpo bronzeo, una statua vestita di bellezza. Un suono mistico, modellato dalle sua labbra carnose e rosse, si staccava per dilaniare tutto quello che incontrava, un do tagliò di netto l’orecchio del sacrestano, un fa e un Re distrussero l’urna con le ceneri di un anacoreta morto sui monti accanto a una lupa. La sua anima in note si spargeva come polvere sulle teste di tutti. I suoi movimenti erano pennellate di gioia sulle tele nere dei disillusi, cantava e la sua voce si arrampicava sulle narici dei presenti per specchiarsi, poi si intrufolava nelle loro anime e si sedimentava lentamente nei loro cuori. Tutti i coristi fissavano Giovanni che gonfiava il petto seguendo il crescendo della musica, il suo pubblico era incatenato alle sue sillabe come un cucciolo di gazzella fra tre leoncini giocherelloni. Le mani di tutti erano giunte, una grande croce dominava la sala. Il freddo aveva fatto arrossare le punte dei nasi, le dita dei piedi, i dorsi delle mani. Giovanni continuava senza sosta, la sua voce si alzava potente, parole perfettamente scandite. Un ultimo gesto, l’acciuffare un petalo invisibile nell’aria e un silenzio surreale. Il respiro affannato di Giovanni e del coro. Cento cuori e cento respiri all’unisono per continuare un altro spartito.
Bice era Bice, il palloncino era tornato a vivere fra le nuvole, i chiodi estratti e i muscoli rilassati, i capelli lisci adagiati sul cuscino, una coccarda rosa attaccata alla porta. Bice era Bice e Giovanni sussurrava dal vetro di un’incubatrice una ninna nanna dalle note delicate, profumata di incerto, bagnata di speranza.