La Linea Verde

di Fausto Campana

Mi dirigo all’appuntamento, le campane di una domenica di ottobre ridondano in lontananza, sono le otto del mattino e vedo Rosario Villari che sta già litigando in una piega di Via della Croce Bianca. Schiaccia il clacson, per farsi sentire da quelli che giocano a carte dall’altra parte della piazza, ai tavoli del bar. E anch’io che cammino, rifacendomi ancora una volta gli stessi conti in testa, mi fermo a guardare. Dal finestrino della sua Fiat 124 rossa, Villari stende il braccio per maledire gli antenati della vittima con cui ha scelto di prendersela stamattina. Ho ancora il fischio delle ruote nelle orecchie, il puzzo di bruciato dei freni mi si infila dentro al naso. La nebbia si sta aprendo come le tende di un teatro. Oggi non è freddo, ma l’umidità è insopportabile, dicono che la porti su il grande fiume. A scuola, finché ci sono andato, sapevo a memoria tutti i suoi affluenti e la maestra mi diceva bravo. Dora Riparia, Dora Baltea, Secchia, Taro e Panaro. Ormai ricordo solo questi. Non troppo lontano da me, un signore distinto, con quel che resta del suo giornale, sta con le natiche sui sanpietrini, si è adagiato per un rinculo più che altro immaginato. Che fortuna! Un minuto prima e Villari, con il suo bolide, avrebbe steso me. L’uomo con il giornale, che ormai ha i fogli sparsi per tutta la strada, impreca, si mette sulle ginocchia e si rialza, da solo. Si strofina i pantaloni all’altezza del culo e poi arranca per salvare qualche pagina che svolazza via, accompagnata dal vento. Il muso rosso dell’auto luccica, anche se non c’è il sole, minaccia il povero pedone a non più di dieci centimetri. Penso sia finita lì, l’uomo si dà un’ultima controllata e alla fine pare non voglia fare troppe storie, ma Villari gli strombazza ancora in faccia, intimando di ripartire senza aspettare oltre. A quel punto ci scappa qualche bestemmia, l’investito è uno del posto e, come tutti in questo paese, non se ne tiene una. Qui non capiscono il salvifico ruolo del silenzio.

“Non sei su una pista da corsa, Nuvolari. Datti una calmata” l’uomo agita il giornale come un ventaglio, per raffreddare lo spirito dell’automobilista. Come risposta, la Fiat 124 romba e accelera a vuoto. Quell’altro non si sposta. Allora Villari spegne il motore e scende dall’auto, sbatte lo sportello per imporre ancora ai presenti di fare attenzione. Nonostante da giorni l’aria sia solo grigia, Villari porta occhiali da sole nerissimi; mentre si avvicina, se li aggiusta sulla testa e, quando è sotto l’uomo, si alza sulle punte dei piedi e gli stringe le mani al collo.
“Ripeti quello che hai detto, se hai coraggio” man mano che si infiamma, Villari impenna la voce, tutte le consonanti del suo accento, che è anche quello delle mie parti, echeggiano con durezza sui muri delle case.
“Ti conosco te, sei quello che va a picchiare la gente e ad estorcere denaro per conto dei tuoi amici terroni” anche l’investito fa un gran vociare, gonfia il petto e prova a divincolarsi.

Ma Villari ha la presa di un toro.

 “Anch’io ti conosco, Zamminelli, e quello che fai non mi piace” Villari gli molla uno schiaffo in pieno viso.

Zamminelli si rianima dalla sorpresa e ricomincia a urlare “Io ti denuncio, non ho mica paura, sai. Da quando siete arrivati voi, qui non si vive più.”

Villari stringe di più la presa al collo e pare possa alzare l’uomo da terra.

“Ascolta, ficcanaso. Se continui a scrivere tutte quelle fandonie su di noi, sarai un uomo morto. Ti do un consiglio: lascia il paese al più presto, senza scrivere altro. Se hai capito, sparisci o ti troveranno sforacchiato con questa” Villari gli toglie una mano di dosso, la mette in tasca e tira fuori una Beretta.

Zamminelli non è per niente impressionato, pianta i piedi sulla strada come per tornare giù e sfida l’esattore.

“Cosa fai allora, perché non mi spari qui davanti a tutti?”

A Villari stanno per esplodere le vene del collo, guarda nella direzione del bar, lì tutti lo conoscono e lui non ci sta a fare una figuraccia davanti ai conterranei. Alza il cane della pistola e ne conficca la punta nella gola di Zamminelli. I due non si scambiano più una sola parola, ma si fissano come ipnotizzati. Io per un attimo penso che l’autoctono sia un pazzo. Dal bar non si fiata. Invece, dai balconi della piazza, qualche borbottio comincia ad arrivare.

“Ma dai, lascialo in pace” dicono, con quella loro cadenza che fluttua come una musica. Sembra sempre che vogliano sdrammatizzare, anche le cose più brutte. Qualcun altro, invece, passa a suggerimenti più pesanti.
“Ohé, chiamiamo i carabinieri.”

Villari si guarda intorno, le forze dell’ordine non sono contemplate nei suoi affari. E se lui si è mosso di domenica mattina, così di buon’ora, qualche affare ce l’ha di certo.

“Sei fortunato che i tuoi paesani ti vogliono bene. Per oggi non ti ammazzo” alla minaccia dell’arrivo dei carabinieri, l’esattore si infila in macchina, fa retromarcia e sparisce oltre le case, con un gran chiasso.

Io lo so che in certe situazioni è meglio non immischiarsi, torno sui miei passi e vado dove devo. Due travi arrugginite trafiggono gli spigoli della casa che ho di fronte, reggono con fatica una tabella. Per fortuna la nebbia si è ritirata del tutto, il cerchio giallo e nero, che indica la postazione del telefono, si sporge sopra una saracinesca aperta. Eccolo lì, il bar di Via della Croce Bianca. Le mani mi sudano e per l’ennesima volta frugano fino a stringere i due rotoli di denaro, uno per tasca. Ci sono ancora. Non mi sono fidato di lasciarli in stanza, dove dormono ancora tutti. Se a questi soldi aggiungo le duecentomila lire che mi spettano, il primo piano di casa dovrei riuscire a finirlo. Per un po’ ascolto solo i miei passi sui sanpietrini della piazza, poi il brusio del tresette mi raggiunge. Come sospettavo, il bar è vivo. Non mi piace venirci, ma il caporale mi ha dato qua l’appuntamento per pagarmi, e certo non potevo rifiutare. Dopotutto, il lavoro me l’ha trovato lui, quando sono arrivato qua. È che nel bar ci sono sempre gruppetti di tre o quattro colleghi che si bevono il salario seduti ai tavoli malconci e se mi unissi a loro, pretenderebbero che anch’io offrissi il mio turno. Guardano le carte in silenzio, solo quando sono belli gonfi di Sangiovese trovano il coraggio di esalare parole amare, alle spalle dei padroni. Io non mi posso lamentare. Anche se l’ho visto una volta sola, il cavaliere Moretti mi tratta bene, al massimo ritarda la paga di tre o quattro mesi, ma alla fine il caporale me li dà e nel frattempo riesco a campare lo stesso. Al tavolo piazzato proprio di fianco all’entrata del bar, c’è Salvatore. Offre caffè, sorrisi e pacche sulle spalle a chiunque, deve far vedere come lo tratta bene il suo padrone. Sta dicendo che, sul cantiere, lui non fa turni più lunghi di sei ore e che dorme ogni sera a casa. A me invece, quando ci sono giornate più lunghe e il caporale vuole far vedere al cavaliere che impastiamo il cemento già all’alba, tocca passare la notte in macchina, con altri tre colleghi. Più che altro è la puzza di piedi che non sopporto. Io non ci credo a quello che blatera Salvatore, fa lo spaccone e poi lui mica deve pensare a farsi una famiglia. Si mormora che un giorno si candiderà a sindaco di questo paese e forse ha già aperto la sua campagna elettorale. Non ci riuscirà mai. Pensa se la gente di qua vota uno come lui! Fesso, chi vuole restare in questo posto tutta la sua vita, per me è un fesso. Incollato sulla vetrina del bar c’è pure Bastiano, non sono abituato a vederlo fuori dall’abitacolo del suo camion, oggi è riposo perfino per lui. Sta declamando uno dei suoi soliti comizi, ma non riesce a convincere il cameriere ragazzino ad appiccicare un manifesto. A Bastiano la donna gli ha riempito la testa di un sacco di idee strane. Me lo diceva il nonno che la moglie te la devi trovare dove sei nato. Bastiano si è fatto fregare da una di qui, si sono sposati in comune. Ha sempre avuto la fissa con le donne del nord. “Sono più emancipate” dice. Io non so neanche cosa significhi, a me pare che siano solo un po’ più mignotte, forse è per questo che gli piacciono. Non sono come Virginia. Dopo che ha conosciuto quella donna, Bastiano usa parole difficili: mancata compilazione dei libri paga, appalto di mano d’opera, omesse comunicazioni all’Ufficio del Lavoro, mancata denuncia all’Inail, omissione dei versamenti all’Inps e all’Inam. Io non ci capisco niente di tutte quelle sigle. Non farà una bella fine Bastiano. Anch’io per qualche mese sono uscito con una del posto, ma l’ho troncata presto. Ci vive gente strana qua, con troppe idee. Parlano sempre, di qualsiasi cosa, ma soprattutto della guerra, qui ognuno ha un padre o una madre che ha fatto il partigiano, o che è morto ammazzato. Mio padre diceva che Mussolini non era poi così male, è stato Hitler a fotterlo. Una volta, uno dei pochi amici che mi sono fatto qua, mi ha spiegato che, non troppo lontano da questi posti, passava il confine, tra due Italie. Tutti lo conoscevano come Linea Gotica, ma pare che Hitler lo volesse chiamare la Linea Verde. Io non so nulla di certe faccende, ma ogni tanto mi sembra che quella linea ci sia ancora, a separarci. Loro da questa parte, noi dall’altra. Quella ragazza con cui uscivo si chiamava Ines e anche lei era fissata con sindacati, scioperi, diritti delle donne. Mi piaceva e sapeva come rendere felice un uomo, ma dopo un po’ che parlava, io mi stufavo. Virginia non deve saperne nulla di questa storia. Virginia parla poco. Se aggiungo queste altre duecentomila lire, il primo piano di casa dovrei riuscire a finirlo. Agli altri quattro ci penseremo con calma. Virginia ha sempre detto che vuole almeno tre figli e quindi un piano devo tenermelo di scorta, nel caso ci vengano altre voglie. Io non posso che essere d’accordo con lei. Non importa quanti saranno, vivranno comunque tutti sopra la nostra testa e, anche quando saremo vecchi, staremo tutti insieme. Io, Virginia e i ragazzi. E forse anche i nostri genitori, se camperanno ancora. Appena il caporale mi avrà dato i soldi, vado a comprare il biglietto del treno e poi addio a questo posto senza colore. Se penso che adesso al mio paese c’è il sole, vorrei fare un salto e trovarmi là, con le tasche piene e senza questa giacca sempre addosso. Quando ho detto al caporale che me ne voglio andare e che ho bisogno in fretta dei soldi, ha fatto un po’ di storie, ma poi si è convinto e ha capito. Pensavo fosse più difficile riuscirci.

Entro nel bar e saluto tutti solo con un cenno del mento, per fortuna sono intenti alle carte e non mi considerano troppo. Io aspetterò il caporale al tavolo più in fondo, come stabilito. Mi avvicino al bancone e mi ci aggrappo come un naufrago al suo pezzo di legno. Dalle voci che sento fuori, capisco che la situazione è tornata alla normalità e la sceneggiata di Villari non ha avuto grosse conseguenze.

“Un caffè” bisbiglio a Nando, un barista di origine napoletana. Si dice in città che non sia lui il vero proprietario del bar.
“Ti sei cacato addosso, frate’?” mi chiede, vedendomi bianco in volto; si riferisce all’incidente scampato. Non lo degno di una riposta. Non siamo amici. È che io certe cose preferisco evitarle. Pago, prendo il caffè e me lo porto al tavolo più in fondo, così posso bermelo in pace, senza le battute di un gradasso. Mezzo cucchiaino di zucchero e giro. Giro e fisso i vortici beige che si formano sulla superficie. Penso alle onde del mare. Non le vedo da tre anni, ma fra un po’ potrò tornare a farmi il bagno, quello vero, nell’acqua salata. Magari con Virginia, se il padre non rompe le palle. Spero che le duecentomila lire mi bastino. Ho fatto i conti decine di volte, ma li faccio e li rifaccio nella mia testa, in continuazione. Forse potrei perfino spuntare uno sconto dall’idraulico, dopo tutto è un amico e presto saremo quasi colleghi. Se ci so fare, qualche lira posso risparmiarla e metterla da parte. Ora fuori c’è di nuovo silenzio. Bevo il mio caffè. Mando giù l’ultimo sorso con decisione, come fosse veleno da deglutire in fretta. E lo vedo. Ha rimesso i suoi occhiali nerissimi, nonostante il sole non lo vediamo da settimane. Anche lui ordina un caffè. Nando è troppo deferente nei suoi confronti, deve conoscerlo e non gli chiede di pagare. Villari prende la sua tazzina e non ci mette zucchero. Si gira e guarda verso il fondo del bar. Si avvicina. Senza salutare né chiedermi il permesso, prende una sedia da sotto il tavolo e la sferraglia sul pavimento con platealità. Si comporta come fosse il padrone del bar. E forse lo è. Si siede e non dice nulla. Penso si sia sbagliato a sedersi qua, fra un po’ potrebbe arrivare il caporale. Io gli dico buongiorno, perché comunque sono una persona educata. Lui non risponde. Beve il caffè, si accende una sigaretta e continua a guardarmi. Solo adesso capisco che è qui per me.



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