di Michele Renzullo
Ornito mi aveva chiesto un cambio turno. Doveva fare un provino per una pubblicità del Mulino Bianco. Mica ci camperei ancora, però potrebbe essere un primo passo, mi aveva confessato davanti alla macchinetta del caffè. A me piaceva guidare di notte, saltavi la maggior parte delle fermate, spingevi sull’acceleratore senza paura di motorini, biciclette o vecchiette che ti si buttavano sotto il muso. L’autobus era quasi vuoto, i pochi passeggeri sonnecchiavano con la testa appoggiata al finestrino. Guidare di notte svuotava i pensieri. Però avevo visto un luccichio nei suoi occhi, la scintilla di una candela che avvia il carburatore. Un lampo che gli invidiavo. Va bene Ornito. La sera Angela mi aveva preparato la Casoeûla, lo ricordo bene. Era un piatto ricco che potevamo permetterci una volta alla settimana. Quando andavamo alla Crai controllavo di nascosto i prezzi delle confezioni: la carne costava più dell’oro, sedici mila lire al chilo. A volte facevo finta di avere una voglia matta di polenta, di stracchino o di salame. Non volevo far vedere ad Angela che ero preoccupato, ma il costo della vita a Bologna si stava facendo impossibile. Difficile arrivare a fine mese con un milione. Quest’anno ci saremmo potuti concedere solo pochi giorni a Cesenatico. La valigia di pelle marrone era già sistemata sotto il letto: ad Angela piaceva preparare tutto con largo anticipo. Quella notte non riuscii a dormire. Ero abituato a guidare, a rimanere vigile e sveglio. La carne e i crauti risalivano dall’esofago, mi bruciavano le interiora. Angela dormiva pacifica al mio fianco. Mi alzai cautamente, andai nel tinello e spalancai la finestra, ma sembrava ci fosse un muro invisibile che non faceva passare l’aria. Il ventilatore la sputava come gas di scarico da una marmitta. Accesi la televisione, azzerando subito il volume. Un giornalista stava intervistando un politico con la faccia da suino, in sovraimpressione La strage di Ustica. Sentivo goccioline solcare la fronte come lava. Fissavo la bottiglia dell’Amaro del capo, forse qualche bicchiere mi avrebbe aiutato a dormire, ma mi sentivo così stanco, no, mi sentivo così inutile, una macchina allo sfasciacarrozze senza motore, che neanche avevo la forza di alzarmi e raggiungerla.
Alle 6 e 49 spensi la radiosveglia prima che suonasse; senza fare rumore mi vestii e infilai la rampa di scale avvolta ancora nel silenzio e nel buio. L’aria a quell’ora dava un attimo di tregua. Il bar all’angolo era già aperto, preparai le trecento lire. Mi resi conto che non avevo neanche aperto la bocca per ordinare il caffè, annuii solo con la testa, il solito?
Arrivai alla rimessa. Ecco, mi sentivo spento come quei mammiferi metallici. Forse dovevo cambiare lavoro. Forse dovevamo cambiare città, magari trasferirci a Londra. Ma a fare cosa? Da dove ricominciare a trentasette anni? Ornito sognava di fare l’attore. Angela desiderava diventare pittrice. Il mio ex compagno di classe Cugliari era diventato avvocato. Azionai la levetta apri-porte. Io ero solo un autista di autobus.
Alle dieci del mattino l’abitacolo era già diventato un forno. La camicia era diventata una doppia pelle d’amianto. Poco poteva il finestrino aperto al lato, il gomito fuori. Sembrava di stare sotto una serra, il sole batteva impietoso contro il grande parabrezza.
Era strano guidarlo di giorno. Il volante era caldo, sentivo i palmi delle mani sudaticce. Mi ricordava quel giorno in cui dovetti recuperare il portafogli perso in una discoteca a Cesenatico. Niente buio, niente musica assordante o fumo. La pista silenziosa di giorno sembrava un museo, un luogo fantasma.
Il motore diesel borbottava sotto il culo, chissà se si stava lamentando, o semplicemente andava avanti e indietro senza pensieri, senza traguardi, assecondando solo l’andirivieni tra un capolinea e l’altro. Ma, non so come spiegare, quando arrivavo in prossimità delle fermate, è come se si riconoscessero. La gente e l’autobus, dico. Studenti, casalinghe, impiegati. Salivano come andare a trovare un parente. I ragazzi si appoggiavano contro le porte, i ragionieri affondavano la testa nel giornale, le nonne appoggiavano i sacchetti della spesa. Ma presto Bologna si sarebbe svuotata, lasciando le strade deserte e le serrande chiuse agli autisti di turno che avrebbero vagato come fantasmi. Io non avevo voglia di partire. Ma non volevo neanche rimanere. Come al solito, aveva organizzato tutto Angela, perché non avevo proposto nessuna alternativa.
Guardai il Winchester, le 10 e 24. I clacson si mischiavano ai fischi dei vigili, alla musica a tutto volume delle autoradio, al gracchiare dei passeggeri.
Un boato esplode nelle orecchie – nella gola – nello sterno. Mi aggrappo al volante. Il cuore rulla, mi giro. Due finestrini esplosi. Frantumi di vetro per terra. Il tetto di lamiera piegato, come schiacciato dalla mano di un gigante. I passeggeri sono immobili. Una tempesta di sabbia entra dal finestrino, una polvere di gesso e calcinacci che entra e gratta in gola. Un sibilo sinistro nelle orecchie. La gente si accalca alle portiere per capire. Ma fuori tutto è avvolto dal silenzio, come imballato da uno spesso cellophane calato dall’alto.
Metto in folle. In un istante esplodono grida, pianti, sirene di ambulanze e polizia. Due vigili del fuoco corrono nella mia direzione, mi dicono di aprire. Fanno sgomberare i passeggeri, salgono con una barella. Un braccio insanguinato penzola da sotto il lenzuolo. Sento un lamento sommesso. Arrivano altri pompieri, con occhi spiritati, reggendo altri feriti. Mi alzo dal sedile, devo correre a telefonare ad Angela, scendo un gradino della portiera anteriore ma mi blocco. Un’ala della stazione centrale è sventrata, come mangiata da uno squalo enorme. Il cielo è coperto da spirali di fumo, l’asfalto brucia e sfrigola. Centinaia di mani scavano nelle macerie, spostando mattoni, calcinacci, travi di ferro. Estraggono corpi grigi da sotto lamiere di macchine e traverse d’acciaio. Ne sfilano pezzi, braccia, gambe. Una pioggia di calcinacci, polvere e detriti cala dappertutto. In mezzo al mare di cenere, di morti grigi, di feriti insanguinati vedo una valigia marrone, di pelle, identica a quella che abbiamo sotto il letto. Mi rimetto al volante. Comincio a fare la spola tra la stazione e il Sant’Orsola, improvvisandomi conduttore di un’arca di Noè che può salvare decine di vite umane. Ne salviamo tante.
Al terzo giro, quando torno sullo spiazzale devastato, irriconoscibile, non ce ne sono più di feriti. I vigili del fuoco smontano i montanti corrimano delle porte centrali. In questo modo riescono più agevolmente a caricare i morti. Il pianale è coperto di salme. L’odore di sangue e carne carbonizzata riempie l’abitacolo arroventato. Una signora, con gli stessi occhi buoni di Angela, ha delle lenzuola in mano. Non capisco cosa vuol fare. Chiede aiuto a vigili e volontari. Drappeggiano i finestrini con le lenzuola. Riparto in direzione dell’obitorio, guidando un carro funebre bianco e rosso, irriconoscibile dall’esterno.
40 anni dopo
Angela ha preparato la valigia. La stessa. La conserviamo come una reliquia. Chi non ci conosce ci guarda male quando arriviamo all’albergo a Cesenatico, pensa che siamo due straccioni. Ma a noi non interessa. In quella valigia riusciamo a mettere tutto quello che conta.