di Sara Paracchini
Eli pensava in cerchi. Le avevano insegnato a raggruppare ogni cosa in cerchi concentrici. Nel primo c’era lei.
In classe i cerchi erano disegnati su una lavagna a parte, perché imparassimo a usarli anche noi.
Primo cerchio: Eli. Secondo cerchio: mamma, papà, l’amore.
In quello degli amici, il terzo, c’erano anche dei maschi, e a me non andava giù.
Il giorno del suo dodicesimo compleanno l’avevo seguita nel bagno di scuola. Aveva i capelli neri e gli occhi come la macchina di zio Renato dopo che la portava a lavare. Azzurra come uno schiaffo, diceva lui.
In classe la spingevo, le pasticciavo i quaderni pieni di schemi pulitissimi e lei gridava di rabbia. E a volte piangeva.
Io ero nel sesto cerchio, il penultimo, creato apposta per quelli come me: i conoscenti che ti trattano male. L’ultimo era quello degli sconosciuti, quelli a cui non poteva parlare con la stessa confidenza che dava agli altri.
Più mi piaceva e più la torturavo, buttavo a terra le sue matite posizionate secondo un rigoroso ordine di colore: bianco, giallo, arancione, rosso, e poi di nuovo bianco, rosa, fucsia, viola. Metteva una matita bianca all’inizio di ogni categoria di colore. Ogni volta che la mia mano passava sul suo banco come un uragano, lei doveva rimettere tutto in posizione, o le era impossibile iniziare la lezione.
Più la esasperavo, più lei mi affossava nel sesto cerchio.
Per questo l’avevo seguita in bagno.
Avevo 12 anni quando tre compagni di classe mi fecero fare una penitenza.
Giacomo non era tanto d’accordo, ma era talmente in fissa con Caterina che avrebbe fatto qualunque cosa per stare con lei, fu lui a propormi di saltare la scuola e passare la mattinata insieme a Laura e a lei.
Giacomo era un amico, Laura e Caterina invece stavano sempre con le femmine, non è che parlassimo spesso, ma erano amiche di Eli. Erano state a casa sua, un paio volte, e parlavano con lei come nessuno di noi faceva.
Pensai che se fossi stato capace di impressionarle, le avrebbero detto qualcosa di buono sul mio conto, talmente buono da farle dimenticare quello che avevo fatto.
Quella mattina misi nello zaino la busta intera dei cracker e poi andai a scuola con mio padre.
Come sempre lo salutai all’incrocio tra Piazzale Porticciolo e via XX Settembre, vicino all’entrata di scuola.
Vidi subito Laura, Giacomo e Caterina allontanarsi dal cancello per venirmi incontro. Giacomo sorrideva come un cretino, Laura e Caterina, invece, erano tese, non volevano essere viste.
In bagno, mentre Eli ancora mi dava le spalle, l’avevo chiamata per nome e appena si era girata le avevo dato un bacio sulle labbra, una specie di pugno dato con la bocca. Ero stato più veloce della sua reazione.
«E adesso siamo fidanzati! Adesso devi mettermi nel secondo cerchio!»
Piangeva.
Avevo sentito la rabbia crescere, e mentre lei con le braccia si puliva la bocca, le avevo dato una spinta colpendola con le mani sul petto.
Camminammo lungo le saline, vicino agli alberi, attenti a nasconderci dietro i tronchi al passaggio di ogni macchina sulla strada principale. Passammo per la pineta dietro il cimitero e appena lo strada fu deserta, l’attraversammo e ci infilammo nel terreno dei Cortese. Poi, senza farci vedere, tagliammo per il giardino incolto delle sorelle Briganti verso la villa successiva, e finalmente scavalcammo il muretto che circondava la casa degli Strina, la famiglia di Giacomo. Facemmo il giro della casa e, come sempre, mi sorpresi di quanto il mare fosse arrivato vicino alla strada. Erano anni che si mangiava la spiaggia. Pensavamo tutti che prima o poi Giacomo avrebbe potuto pescare dalla finestra.
La sorella non aveva preso la macchina.
Appoggiai la fronte al finestrino della Vitara. Giacomo aveva ragione, le chiavi erano lì.
Avevo urlato in faccia a Eli, e adesso gridava lei.
L’insegnante di sostegno era arrivata prima che potessi scappare e mi aveva afferrato per la spalla. «Ho solo cercato di abbracciarla,» avevo detto io.
Eli in un primo momento non era riuscita a raccontare la sua versione dei fatti, le avevo creato confusione tra i cerchi. Aveva imparato che i baci sulla bocca si danno solo alle persone del secondo cerchio, quello della famiglia o dei fidanzati, e non era logico che io ora mi trovassi lì. Non riusciva a spiegarsi questa anomalia.
Era stata male per il resto della mattinata e il giorno dopo non era venuta a scuola.
In classe la preside e l’insegnante avevano parlato per un’ora. L’insegnante aveva detto che per capire quello che avevo fatto dovevo pensare a una persona che impara a guidare una macchina. Uno può anche farla partire, ma se non impara a usarla e a rispettare la segnaletica, avrà difficoltà a stare in mezzo alle altre macchine.
Rompere i cerchi era stato come stracciarle il manuale di istruzioni e confondere tutti i cartelli stradali.
L’idea della prima penitenza era stata di Caterina, e Giacomo aveva colto al volo la possibilità di fare colpo. Chi avrebbe mai sacrificato la macchina della propria sorella per accontentarla? Così tolse il freno a mano, accese il motore e mise in folle. Tutti insieme riuscimmo a spingere l’auto fin fuori dal cancello.
A quel punto Giacomo mi fece cenno di salire e, come tutti si aspettavano, mi misi al posto del guidatore. Non avevo mai toccato una macchina in vita mia.
Schiacciai con fatica un pedale a caso. Non successe niente, Giacomo mi spiegò come ingranare la prima e riprovai.
La macchina cominciò ad avanzare sulla strada sterrata sbandando un po’ a destra e un po’ a sinistra. Mi distrasse il rumore dei giunchi sotto il parafango, tanto che non mi curai di girare. Poco più avanti le piante lasciarono il posto ai sassi accatastati a difendere la strada dall’erosione del mare. Quando mi accorsi di essere troppo vicino all’acqua mi spaventai e di riflesso affondai il piede nell’acceleratore.
«Vai a sinistra!» urlò Giacomo.
Il volante mi sfuggì di mano e cercai immediatamente il freno pestando i piedi a caso, ma presi solo la frizione.
Eli era rimasta a casa per una settimana, tanto che ci chiedevamo se sarebbe più tornata. In realtà, scoprimmo in seguito, era andata in montagna con la famiglia, lo facevano ogni anno ed era bene non spezzare quella routine di sport e passeggiate sulla neve.
Durante la sua assenza ci avevano fatto fare molti esercizi sul linguaggio. Imparare a dire tutto in maniera letterale.
Lo stavano facendo perché sapevano che a volte ci divertivamo così: dicevamo a Eli «guarda come sei brava, sei un mostro», «il prof. Cannas ha un palo in culo,» oppure la invitavamo a giocare e bastava anche solo un nascondino a mandarla in pezzi. Ci bastava dirle «devi diventare invisibile», che lei non capiva. Come faceva a diventarlo? Era un mostro? Non vedeva nessun palo. «Che tristezza Eli, non ridi mai», «non lo sai che è buona educazione rispondere grazie a un complimento?», «dovevi nasconderti Eli, ci hai fatto perdere.»
E il suo sguardo serio e a tratti interrogativo si posava su ognuno di noi per pochi istanti, poi su altro.
Si bloccava. E l’assenza di reazioni accendeva in noi un senso di potere che non riuscivamo a non esercitare, come uno sfogo. Io ero sempre il più arrabbiato.
Il motore si spense e finii in mare.
Non riuscivo a muovermi, paralizzato dallo spavento.
Giacomo da fuori riuscì ad aprire la portiera, l’acqua gli arrivava appena sotto il ginocchio. Il Seccagno era così, anche cento metri più avanti.
Lasciammo lì la macchina e ci allontanammo correndo, pregando di non essere stati visti da nessuno. Attraversammo il piccolo canale maleodorante che collegava le saline al mare e ci lanciammo al guado di cespugli e muretti a secco.
Quando fummo sicuri di essere ben nascosti ci fermammo, tutti con il fiatone, e lasciammo cadere gli zaini a terra.
Laura e Caterina si guardarono negli occhi, poi si girarono verso di me.
«Che c’è?»
Non risposero.
«Oh! Allora?»
Niente.
«Che cazzo c’è?»
«Non ho capito» disse Laura.
Caterina prese il mio zaino, tirò fuori i cracker e ne distribuì un pacchetto a ciascuno, tranne che a me.
«E io? Ho un buco nello stomaco.»
«Non vedo nessun buco», mi disse lei.
«Dai! Sto morendo di fame.»
«Non è vero, non stai morendo,» mi disse ancora.
«Dammeli o te li spacco in testa con tutto lo zaino.»
«Gli zaini non si spaccano,» disse Caterina.
Mi spazientii e cercai di afferrare i cracker.
Mi saltarono addosso tutti e tre. Cercai di svincolarmi dalla loro morsa scalciando come un matto, ma lo spavento della macchina mi aveva tolto le energie. Riuscirono in fretta a immobilizzarmi sedendosi sulle mie braccia e sulle mie gambe distese.
«Ma che cazzo avete? Toglietemi le mani di dosso!» Urlai.
Tutti e tre rimasero seduti dove stavano e sollevarono le mani, il che non mi ridava mobilità.
«Le braccia, fa male, cazzo!»
«Ok, cosa dobbiamo fare?» Disse Caterina seria.
«Basta, non ce la faccio più!» Dissi sull’orlo del pianto. Le braccia mi facevano male davvero, erano schiacciate sulle pietre.
«Non sei chiaro.» Questa era Laura.
«Mi fa male!» Urlai.
Andammo avanti così per un tempo che mi sembrò lunghissimo.
«Ci puoi spiegare cosa vuoi che facciamo?» disse ancora Caterina.
Vidi l’occhiataccia che le lanciava Laura.
«Vi dovete alzare dalle braccia, vi dovete spostare, vi dovete sollevare! Lasciatemi libere le braccia!» Dissi piangendo, più per la rabbia che per il dolore.
«Ok,» disse Laura, e si alzò seguita da Caterina.
Anche Giacomo mi lasciò e si mise in piedi. Io rimasi sdraiato a massaggiarmi i nuovi lividi sugli avambracci. Scacciai una lacrima con il palmo della mano.
«Hai capito adesso?» Mi chiese Laura.
Non risposi, continuai a massaggiarmi. Giacomo mi passò un pacchetto di cracker.
«Scusa Gio’, me l’aveva chiesto Cate,» disse.
«Vaffanculo,» fu la mia risposta.
Quando Eli si bloccava, quello che per noi era indifferenza e distacco, non era solo la mancanza di risposte a messaggi che non riusciva a comprendere, era la sua autostima che si sgretolava. Era la sicurezza che andava in pezzi, quelli che l’insegnante e la famiglia avrebbero cercato di riattaccare con fatica mentre noi, come pioggia battente, l’accusavamo di non voler partecipare, di non saper giocare. «Non lo sai fare», «non sei capace», «non puoi.» Erano parole anche mie.
Ancora nascosti e stanchi ci mettemmo a sedere sotto un pino.
Staccai un ago da un ramo caduto dall’albero e cominciai a spezzettarlo.
Restammo in silenzio per un po’, poi Giacomo chiese: «Secondo voi Eli è come Rain Man?»
«Non dire stronzate,» disse Laura. «Non esistono quelli come Rain Man.»
«Si, quelli sono geni,» disse Caterina. «Di geni ne nasce uno ogni tanto. L’ha detto la mamma di Eli.»
Giacomo non disse niente.
«Io ho un cugino come lei, come Eli.» Disse ancora Laura.
«Davvero?» Chiesi.
«Si, l’unica differenza tra lui e lei sono i genitori. Eli nella vita farà qualcosa. Sicuro. Mio cugino la finirà in un istituto, vedrai.»
«Perché? Cosa fanno i genitori di tuo cugino?» Domandai io.
«Bella domanda,» mi rispose con voce di scherno, «guardati allo specchio e avrai la risposta.»
Non risposi. Ripresi a spezzettare gli aghi di pino.
Ero arrabbiato con Laura? Con Eli? Con me? Non lo capivo.
«Glielo hai detto ai tuoi che ti hanno sospeso?» Mi chiese Caterina.
«Con l’obbligo di frequenza, che sfiga!» Disse Giacomo. Caterina rise.
«Lo sapevano già, hanno chiamato a casa da scuola.» Risposi.
«E?»
«Si sono messi a litigare tra di loro,» dissi.
«E non ti hanno detto niente?»
«Non mi hanno rivolto la parola per un paio di giorni.»
«Vi prego, sospendete anche me!» Disse Giacomo e mi fece sorridere, una volta suo padre mi aveva tenuto un’ora a parlarmi della cilindrata della moto nuova, volevo morire.
Ci fu un momento di silenzio.
«Secondo voi una persona che è in un certo modo, può diventare in un modo diverso?» Domandai.
«Ti riferisci a Eli?» Chiese Giacomo.
«Ti riferisci a te?» Disse Laura.
Guardai Laura, e cominciò a piovere.
Corremmo a riparaci sotto la tettoia della casa più vicina, e trascorremmo il resto della mattinata dimenticandoci delle penitenze.
Eli era l’unica persona della classe a saper suonare la chitarra. Nei giorni in cui io la lasciavo in pace, i suoi pochi amici le chiedevano di suonare durante la ricreazione. Lei prendeva il plettro e si sedeva su un banco. E loro stavano intorno a lei, in cerchio.
Le lanciavo brevi occhiate con un distacco che mi sfiniva e me ne stavo lì, tre cerchi più indietro.
Non appena aprii la porta di casa sentii la mano ghiacciata di mia madre colpirmi la guancia. Pensai a Eli, e agli occhi azzurri.
«Adesso m’incazzo. Tuo padre è venuto a prenderti a scuola. Bella figura da cretino che gli hai fatto fare.»
Rimasi in silenzio.
«Non dici niente?» Mia madre si girò verso la porta della cucina. «Tuo figlio non sa cosa dire.»
«Mio figlio non sa mai cosa dire.» Rispose mio padre mentre tagliava in pezzi un pollo. «Vedrai che anche quando sarà grande non saprà mai cosa dire.»
Poi si rivolse a me: «A furia di saltare la scuola diventerai un ignorante, e ti vergognerai di parlare. Non scherzo Giovanni, arriverà il momento in cui non avrai niente da dire, non saprai più parlare di niente.»
Non risposi; la mia mente era come un’autostrada di parole che sfrecciavano velocissime senza lasciarsi afferrare da me.
Mio padre sospirò. «E sembrerai uno stupido a tutti. Devi lottare contro il tempo, perché stiamo per perdere la pazienza, e stai tranquillo che la speranza è già bella che andata.»
Mi guardai le punte dei piedi mentre mi toccavo la guancia. Salii in camera.
Col tempo, Eli era riuscita a riportare l’ordine tra i cerchi e, lentamente, mi aveva spostato al quinto. Rimasi lì, prima del cerchio degli insegnanti e dei parenti.
Anni dopo, verso la fine delle scuole superiori, che avevamo frequentato in istituti diversi, la rividi vicino al Seccagno.
Era seduta al posto del conducente nell’auto della scuola guida. Guardai la macchina girare a sinistra, prima delle pietre che proteggevano la strada dal mare.
Non arrivai mai al secondo cerchio, né al terzo.