Rosso corallo

di Filippo Rigli

Non accendere la luce, disse sua moglie. Perché, rispose il marito. Non chiedere, disse lei. Non devi chiedere. E non accendere la luce. Va bene, rispose il marito. Promettilo, disse la moglie. Lo prometto, rispose il marito. Poteva vedere la sua sagoma, al buio. La sua chioma voluminosa, selvaggia. Poteva quasi intuire il colore rosso fuoco. Perché sei andata via, le chiese. Perché hai fatto quella cosa. Ti ho detto di non chiedere, rispose lei. Accendimi una sigaretta, fece lei col suo tono imperioso. Voltati mentre l’accendi, aggiunse mentre lui trafficava col pacchetto e l’accendino. Lui sfilò una sigaretta lunga e bianca dal pacchetto, si voltò, l’accese, si voltò di nuovo. Beh, che fai, non me la porti? Non avrai mica paura di me, disse lei, e lui fu sicuro che lei sorridesse, mentre lo diceva. Ho sempre avuto paura di te, disse lui, sorridendo. Lei rise, cristallina. Scemo, disse lei. Portami la sigaretta. Lui si avvicinò e gliela porse.

Il babbo era impazzito. Ne era sicura. Non era più stato lo stesso, da quando la mamma era morta. Guardò la foto di sua madre sul mobile. Era un capodanno, la mamma sorrideva fasciata in un abito nero, con la sua chioma selvaggia e il bicchiere in mano. Doveva essere un po’ brilla. Alla mamma capitava. Che bella che era. Si guardò allo specchio. Non assomigliava a sua madre. Sempre immusonita, con la passata sui capelli biondicci. Tutta suo padre. L’aveva incrociato in paese dopo il lavoro, usciva dal bar tabacchi, con in mano le sigarette che fumava sua madre. Lui non aveva mai fumato. E quelle, gli chiese. Sono per la mamma, aveva risposto. Lei rimase impietrita, non rispose niente, suo padre si avviò verso casa. Non ne avevano più parlato.

Imitava la sua voce. Sembrava davvero la sua, compresa la risata. Quanto pazzo devi essere, si chiedeva col cuore stretto, per imbastire un dialogo con tua moglie morta suicida e imitare alla perfezione la sua voce. Eppure non aveva dato mai segni di follia. Era sempre stato sobrio nel suo dolore. Lo ricordava ai funerali della mamma, compassato in un completo nero che non aveva mai più messo, quasi a muso duro. Consolava lei e i suoi nipoti, addirittura. Non riusciva davvero a immaginarsi pazzo suo padre. Né meno che mai pericoloso, specialmente con i suoi figli. Lui li adorava, anche perché in quei piccoli selvaggi, in loro sì, che si vedeva sua madre. Rossi e lentigginosi, si accapigliavano continuamente tra di loro, urlando come scimmie, graffiandosi e mordendosi. Almeno fino a che qualcuno di esterno non arrivava a minacciarli, allora d’improvviso si coalizzavano e rivolgevano la loro follia contro il nemico comune. In genere il povero bambino che si azzardava a sfidare i due diavoli fuggiva entro breve. Allora il fratello e la sorella rimanevano a ridere, e la risata era anch’essa quella della loro nonna. I due stavano buoni solo con suo padre. lo ascoltavano raccontare le sue storie, fossero pure storie di briscola al circolo, o semplicemente lo guardavano lavorare, seduti per terra, coi piccoli nasi lentigginosi protesi all’insù, come ipnotizzati. No, non poteva essere pazzo. Eppure lo era, si diceva con le mani congiunte seduta nello studio del dottore, mentre aspettava il suo turno. Che altra spiegazione poteva esserci?

Martina pensa che sia pazzo, le disse. Vuole portarmi da uno psichiatra. Sorrise. Deve averci sentito parlare. Anche lei sorrise, e soffiò via una nuvola di fumo. La mia bambina, disse. Sempre tutta seria. Il marito non rispose. Rimase in silenzio, a testa bassa, seduto sul letto. A che pensi, chiese lei. Lui alzò la testa, cercava le parole. Come… come hai fatto a tornare, chiese alla fine. Sei… tipo… rimasta bloccata? Perché ho letto qualcosa… che uno può rimanere bloccato nel mezzo quando… quando si… Quando si suicida? Fu lei a finire la frase. Ancora non riesci a dirlo, disse. Ancora pensi che sia colpa tua? Il marito non rispose. Non è stata colpa tua, disse lei. Non lo è stata.

Dal dottore dei matti, disse suo padre. Da uno di quelli, vuoi portarmi? E da quale, aggiunse senza girarsi dal lavabo. Da quello che seguiva la mamma, magari? Bel capolavoro, che ha fatto, disse. Martina non rispose. Si sentiva come quando da ragazza un suo ex fidanzato le aveva tirato uno schiaffo. In faccia, secco come una frustata. Anche allora rimase impietrita. La medesima sensazione. Sentì che arrivavano le lacrime, cercò di trattenersi. Suo padre fini di sciacquare i piatti, si filò i guanti di gomma e il grembiule, si girò verso sua figlia. Vado a scuola a prendere i ragazzi, disse, poi uscì. Una volta che il rumore dei passi si spense in fondo alle scale Martina si lasciò andare e scoppiò a piangere.

Erano al mare, una stazione balneare affollata, piena di giovani smaniosi di divertirsi. La conosceva, era del suo paese, rossa, bella che sembrava dipinta. Lui dormiva in campeggio con dei suoi amici, sembrava un impiegatuccio. Capelli corti con la riga, polo stirata, occhiali. Era più basso di lei, di poco, perlomeno se lei metteva i tacchi, e li metteva spesso. Ma forse pure senza. Non c’era verso di avvicinarla, sempre circondata da bellocci chiassosi che le offrivano da bere, rideva con quella sua risata spavalda, perfettamente a suo agio. Avrebbe potuto metterli in fila e scegliere chi le pareva, come un kapò, ma le piaceva tenerli sulle spine. Lui era al bancone che si rigirava un analcolico tra le mani, nervoso, impacciato. Ogni tanto si girava a guardarla. Non sapeva che fare, e probabilmente come al solito non avrebbe fatto niente. Seduto vicino al bancone c’era un vecchio truce, il padre del proprietario del bar. Scuro e tatuato, con la barba rada e bianca, aveva visto più acqua che terra, ora stava là a fumare sigarette puzzolenti e a ricordare puttane e risse e sbronze di quando era giovane, e solcava il mare, tanti anni fa. Questo almeno credeva lui quando ogni tanto lo guardava. Magari era soltanto un vecchio, invece, pensava poi. Anche il vecchio prese a guardarlo. Guardava lui e guardava la rossa circondata dai bellocci. Oh, ragazzo, gli fece a un certo punto. Ma perché non ti alzi e ci provi. Fai l’uomo, cazzo, gli disse. Lui rimase di sasso, arrossì e abbassò la testa sul bicchiere. Mi faccio sempre riconoscere, pensò. Poi respirò forte, alzò la testa, vuotò il drink. Si alzò dallo sgabello e partì a passo svelto, come un soldato, verso la rossa. Il chiacchiericcio dei bellocci si interruppe. Lui non li guardò, punto diritto a lei. C’è una rassegna di film francesi, al cinema all’aperto, le disse. Ci vuoi venire? Non cercava neanche di sorridere, sembrava interrogasse una sfinge. La sfinge invece rise, e risero anche i bellocci. Si sentì morire. Quando lei smise di ridere lo squadrò. Poi sorrise. Fece due passi verso di lui e lo prese a braccetto. Dai, gli disse, andiamo. Si girò salutando i bellocci, che avevano facce rigide, qualcuno con ancora su stampato la risata. Ma non al cinema, eh, le sussurrò lei all’orecchio quando furono sulla soglia. Mi porti a fare una passeggiata sulla spiaggia. Il vecchio li guardò uscire. Loro non si girarono.

Almeno dimmi perché sei tornata. O almeno come hai fatto, le chiese. Ma perché vuoi saperlo, rispose lei, irata. Lui non rispose, rimasero in silenzio. Sei tornata per accompagnarmi, disse lui. Neanche lei rispose.

Non tormenti suo padre, le disse il dottore. Martina non aveva più saliva, stava seduta a denti stretti. Sentiva come se stesse per arrivare un terremoto, un crollo imminente di un vecchio muro. Non lo so se è pazzo, ma se anche fosse non avrà il tempo neanche di impostarla, una terapia. Non una terapia psichiatrica, almeno. Martina chiese un fazzoletto, il dottore ne estrasse uno da una scatolina colorata che aveva sulla scrivania, lei si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. A suo padre non rimane molto, disse il dottore. Martina guardò la riproduzione di uno scheletro umano che il dottore aveva in una teca. Lo trovò macabro. Eppure una volta le sarebbe piaciuto. Ai tempi della musica distorta e dei vestiti neri. Suo padre e sua madre non perdevano occasione per dirglielo, che sembrava tornata da un funerale. Chiese un altro fazzoletto.

Mamma e i suoi capelli. Mamma che rideva. Mamma che rideva e babbo che la guardava incantato. Mamma e babbo che passeggiavano per il corso e tutti che si giravano a guardare lei, e a chiedersi come aveva fatto lui. Mamma che le diceva di vestirsi da donna, di truccarsi, di curarsi. Lei che non lo faceva. Mamma e i vestiti rossi, mamma e i vestiti neri. Mamma e il rossetto rosso corallo. Babbo con gli occhiali sempre più spessi, coi capelli sempre più grigi. Mamma e i suoi amici, mamma e i suoi amanti. Babbo che l’aspettava sempre e comunque, mamma che sempre e comunque tornava. Mamma che non sapeva stare lontano da lui. Mamma e l’alcol, mamma e i dottori, mamma e i ricoveri. mamma e la depressione, mamma e gli psichiatri. Mamma e gli psicofarmaci. Babbo a pezzi che teneva botta, che ingoiava tristezza e la sosteneva. Mamma e Martina incinta, mamma che faceva la nonna, mamma rifiorita. Babbo di nuovo sereno. Mamma e le ricadute, mamma e quella cosa oscura che andava e veniva, che non l’abbandonava mai. Babbo che c’era sempre, inossidabile. Mamma distesa sull’asfalto, una macchia del colore dei suoi capelli, del suo rossetto, del vestito che aveva messo apposta.

E piantatela, urlò ai sui figli attorcigliati sul pavimento. Si fermarono e la guardarono. Era entrato suo padre, non lo aveva neanche sentito. Che urli, le disse a mezza voce. Cosa sei, impazzita, aggiunse. Fece cenno ai bambini, che seguirono il nonno nell’altra stanza. Li guardò uscire e chiudersi la porta alle spalle.

Una rissa furibonda. Non un accapigliarsi, un banale litigio. Una scazzottata da film, pugni, lividi, occhi neri. Vestiti strappati. Quelli c’erano già da prima. Con tutta la scuola intorno, a semicerchio nel cortile, a urlare e fare il tifo. Una scena da antica Roma. E con un maschio, poi. I suoi genitori erano allibiti. Sedevano nella stanza del preside, in silenzio, con Martina accanto. Lei non disse nulla, mai. Si beccò la sospensione e le punizioni, l’amarezza dei genitori. Ogni tanto, anche a distanza di settimane, provavano timidamente a chiedere il perché. Martina si chiudeva, scappava in camera, alzava la musica. Ma non rispondeva. Non rispose mai, neanche quando gli anni avevano stemperato le cose, neanche quando era mamma, quando il tutto era ridotto a un ricordo divertente da raccontare nelle cene coi parenti. Non glielo disse mai che la rissa era partita quando quel bulletto aveva dato di puttana a sua madre.

È ora, disse lei, e spense la sigaretta. Lui era titubante. Come faranno Martina e i bambini, disse. Non prendere tempo, disse lei, e non ti preoccupare. Lui indugiava. Lo so che sei coraggioso quando c’è da esserlo. Come quella volta al mare, ti ricordi, le chiese. Lui sorrise. Certe cose non si dimenticano, rispose. Coraggio, allora, disse lei. Lui si alzò dal letto, lei si alzò dalla poltrona. Cosa c’è dall’altra parte chiese lui. Non chiedere, le rispose. Ora posso accendere la lampada, chiese lui. Ora non serve, rispose lei. La stanza si schiarì di una luce tenue. La luce tenue divenne abbagliante. Lei era bella come a vent’anni. Lo prese per mano e attraversarono la luce.

Sembrava dormisse. Aveva la faccia serena quando lo trovò morto sul letto, la mattina. Una faccia serena che non aveva da tempo.

Gli fece mettere su il completo che aveva al funerale di sua moglie. Si raccomandò ai bambini di comportarsi bene, proprio come se ci fosse ancora il nonno. I due annuirono, e durante la cerimonia non fecero una piega, neanche piansero. Seri, impettiti, vestiti di nero. Dopo il funerale si avvicinò una vecchia zia, liftata e truccata come un pavone. Suo padre la tollerava a malapena. Sua madre la detestava. Martina l’avrebbe strangolata. Puntò dritta i bambini dribblando la loro madre. Poveri piccoli, disse loro, cantilenante. Senza la nonna, e ora anche senza il nonno, aggiunse, e scrutò la loro reazione. Il nonno è qui, rispose il bambino tranquillo. E anche la nonna, disse la sorella.

Lasciò i bambini a sua cugina, li avrebbe portati qualche giorno al mare, per svagarsi. Tornò a casa si cambiò, accese la musica e si mise sotto la doccia. Poi prese coraggio e si decise a sistemare la camera dei suoi. Mentre cambiava le lenzuola notò il posacenere e il pacchetto di sigarette avviato, sul tavolo. Nel portacenere c’era qualche mozzicone. Sui mozziconi c’era un velo di rossetto, il rossetto che portava sua madre. Non pianse, aveva pianto abbastanza. A questo era arrivato suo padre, a mettere il rossetto della moglie morta. Si mise a svuotare il cassetto. Poi presa da un tarlo aprì l’armadio e frugò nei vestiti. Poi si accanì anche su quelli nel cesto della lavanderia sporca, cercò nell’armadio dei documenti, si chinò pure a vedere sotto il letto. Del rossetto non c’era traccia.


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