Numero 66 – SETT./DICEMBRE 2021

Illustrazione di Vera Taccani

Ai tempi della scuola, quando viaggiavo quotidianamente in treno, mi capitava di scorgere nel cielo dei segnali di divieto. Neutri, generici segnali di divieto: anelli di colore rosso attraversati da una striscia obliqua altrettanto rossa.

«Buongiorno teorico del cinema, come sta?»
«Bene scrittore, e lei?»
«Non c’è male, grazie. Mi chiedevo, ma cosa ne pensa delle nuove piattaforme…

Un’altra mezz’ora e l’elefantuccio sarebbe uscito dall’orologio a cucù della signora Linda portando su e giù la piccola proboscide meccani-ca per otto volte, tante quanto l’ora appena scoccata…

LLa notte era da poco cominciata e, caldo a parte, prometteva niente male.

Prima corsa completata e 30 euro in saccoccia, per lasciare in aeroporto un’accoppiata di argentini dal sorriso molto acceso e dalla mancia molto facile.
Tipi come loro andavano clonati. Senza se e senza ma. Il mondo e l’esistenza, specie quella sua, ne avrebbero giovato.

Nell’anno
della distruzione,
della paura,
del divieto del contatto fisico,
del distanziamento sociale,
del virus spietato,
delle scuole chiuse,
dei musei serrati,
dei teatri vuoti e tristi…

Fanculo cari colleghi arrivisti. Godetevi il vostro niente in tagli da dieci, venti, cinquanta, cento euro. Godetevi una casa che non abitate. Una famiglia di cui non fate parte. Una cravatta da girare due volte intorno al collo, quando vi accorgerete, e magari sarà tardi…

Un anno di tutto e di niente.
Il tempo è trascorso
trascinando ogni cosa con sé.
Ho costruito argini resistenti
– sono brava in questo –
sapranno trattenere i ricordi.
La paura ha un po’ meno…

«Rosciamalpelospruzzaveleno!» grida il gruppo di undicenni brufolosi appena entro in classe. Sghignazzano e si battono il cinque, branco di scimmie fetenti. Sono i maschi della classe, hanno disegnato sulla lavagna col gesso uno sgorbio di maiale con i ricci e le lentiggini che sulla testa porta il nome carolina scritto bello grosso e tutt’intorno le scritte puzzona, caccolosa, merdaccia. Non muovo un muscolo della faccia, vado al mio banco e mi siedo. Prima che arrivi la professoressa girano la lavagna, le femmine ridacchiano, io aspetto la ricreazione.

Alle sette e mezza ho salutato i miei amici all’ingresso della stazione di Riccione. Avevamo ancora nelle palpebre l’ubriachezza e il sonno della notte. Il caldo di agosto appiccicava le camicie di lino alle nostre schiene scure. Nonostante fosse mattina presto il sole picchiava già. Ci siamo salutati e poi sono andato al binario. Il regionale è arrivato in orario: sette e quarantacinque. Era quasi vuoto, come mi aspettavo, caldo da matti. Un anziano con la pipa e i pantaloni larghi e ascellari leggeva il Corriere.

Illustrazione di Vera Taccani, liberamente ispirata al racconto "Il giorno del concorso" di Matteo Bonfiglioli.

Sull’avambraccio destro aveva tatuato ‘fearless’.
Era il titolo della sua canzone preferita tra quelle che aveva registrato nel suo primo EP autoprodotto, la stava cantando giusto in quel momento, sul palco del Siddharta, mentre io la guardavo oscillando nell’oscurità in mezzo a una ventina di persone, con la maglietta sudata e la pelle delle braccia resa viscida e appiccicosa dal sudore degli altri. Era il pezzo più lento dei suoi, simile ad un galleggiare elettrico. Come se essere ‘senza paura’ dovesse per forza significare essere riflessivi, introspettivi, «spalancare gli occhi verso l’interno di noi», cantava Isa in inglese, invece che fuori, era la sua soluzione per risultare “interi”. Avevamo diciotto anni, Isa era alta quasi 1,80 e con gli anfibi New Rock arrivava almeno a 1,90, stringeva il microfono sospirandoci dentro le parti più dolorose…

Illustrazione di Chiara Romagnoli, liberamente ispirata al racconto "Terra bruciata" di Adriano Giotti.
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