Rosciamalpelospruzzaveleno

di Valentina Scelsa

 

«Rosciamalpelospruzzaveleno!» grida il gruppo di undicenni brufolosi appena entro in classe. Sghignazzano e si battono il cinque, branco di scimmie fetenti. Sono i maschi della classe, hanno disegnato sulla lavagna col gesso uno sgorbio di maiale con i ricci e le lentiggini che sulla testa porta il nome CAROLINA scritto bello grosso e tutt’intorno le scritte puzzona, caccolosa, merdaccia. Non muovo un muscolo della faccia, vado al mio banco e mi siedo. Prima che arrivi la professoressa girano la lavagna, le femmine ridacchiano, io aspetto la ricreazione.
Parto da quello più vicino, un biondino cicciottello con gli occhiali che sta scartando la sua rosetta al salame: «Yuri ma ancora mangi? Se qua c’è un maiale non sono mica io».
«Ma che vuoi?»
«Lo dico per te quattrocchisparapidocchi cicciabomba, molla ‘sta rosetta».
Si guarda intorno ma non c’è nessuno.
«Che fai adesso cerchi la mamma? Ma lo sai che sei brutto come la morte? E puzzi pure».
In effetti maleodora di sudore vecchio e gorgonzola.
Lo guardo male, molto male, mi sa è malocchio, intanto sorrido. Quello fa uno spasmo di broncio, fa per scappare ma gli cade il panino.
«Secondo me sei pure un po’ ritardato».
Zac! si mette a piangere. È stato facile, pure troppo.
Inizia la caccia alla prossima scimmia, con calma, che non ho fretta. Ormai l’ho capito che non serve abbassarsi a fare a botte. Basta lasciar andare la lingua, lei conosce la traiettoria, colpisce l’avversario in quel punto preciso che lo fa crollare come un bisonte nella savana.
Me li lavoro tutti, gli faccio passare la voglia.
Più le mie parole perdono potere in casa più ne ottengono nella lotta col mondo di fuori.
«Non la toccare, così l’ammazzi, basta!»
Papà continua a stringere le mani grosse di orangotango sul collo di gazzella di mia madre che strabuzza gli occhioni neri, il moccio al naso, il viso lucido di lacrime unte. Mi butto nel groviglio dei corpi impazziti, buongiorno! Le mie giornate iniziano spesso così. Esco di casa stralunata per andare a scuola dai miei amati compagni di classe coi capelli sgarrupati, le trecce me li terrebbero in ordine ma non me le faccio mai perché non mi va di essere chiamata pure Pippi Calzelunghe o Anna dai capelli rossi. La voglia di prendere un Cotral qualsiasi dalla meta sconosciuta e andare a vedere che succede fuori Roma, in campagna, è un grillo parlante che mi incanta come un pifferaio magico ogni mattino. Con me ho sempre Zanna Bianca di Jack London, potrei leggerlo sdraiata su un prato al sole cosparso di minuscoli nontiscordardimé indaco e viola, dopo aver percorso un sentiero sconosciuto in un bosco sconosciuto insieme al mio lupocane amico invisibile, sì potrei. Lo faccio spesso. Intanto vado a fare colazione al bar, tramezzino tonno e pomodoro e Coca-Cola, il solito. Mentre mastico lancio qualche squisito boccone in terra all’amico mio e mi invento storie dallo smalto lucido, penso che nel duemilauno avrò venticinque anni e sarò una potente maga. Alcune cosette già le so fare, come leggere nel pensiero e indovinare passato presente e futuro con esattezza svizzera, ma io anelo poteri grandi e vistosi: mi voglio teletrasportare con la forza del pensiero, voglio volare come fanno gli uccelli, voglio sovvertire le leggi della fisica e la forza di gravità. Solo così potrò saziare la rabbia, quest’orco gigante che mi abita dentro e che ha sempre fame.


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