2020

di Livia Podestà

 

Nell’anno
della distruzione,
della paura,
del divieto del contatto fisico,
del distanziamento sociale,
del virus spietato,
delle scuole chiuse,
dei musei serrati,
dei teatri vuoti e tristi,
nell’anno senza più feste né sagre,
dei concerti annullati,
dell’isolamento istituzionalizzato,
della solitudine forzata,
dell’alienamento,
della paura di un abbraccio,
nell’anno dei confini chiusi,
dei muri alzati,
dei voli cancellati,
degli aeroporti abbandonati,
della crisi nera
e del futuro bruciato,
io
ricorderò
per sempre
le calde notti d’agosto
passate insieme
i tuoi quadri che affollano le pareti,
il calice rotto nella foga del momento,
Chet Baker che suona per noi,
la tua pelle piena di nei
come costellazioni da scoprire,
i nostri abbracci affamati,
i baci mandati,
i giochi per le scale,
la tua voce profonda
che mi chiama «Dea,
oh, mia Dea»
il nostro darci senza riserve
e la chimica perfetta
dei nostri corpi familiari
e inesplorati,
il fuoco che brucia il mare,
l’infinita tenerezza
di te commosso
da un paesaggio straordinariamente ligure,
lo stupirsi ed emozionarsi
di un te bambino
e di un adulto
che forse
poco ha avuto.
Ricorderò per sempre
il modo in cui chiami il mio nome
quando mi vuoi,
il sudore salato
e il ventilatore vegano,
le serate che diventano mattine
scandagliando film, libri e vita,
di come ti sarebbe piaciuto
vivere a Parigi
con Modì
ai primi novecento,
del Marché aux Puces nella banlieue,
i tuoi ricordi bolognesi,
il pantano
della noiosa vita in provincia
che poco o nulla offre
a chi vuol sognare,
e il tuo isolarti
per non affondare.
Ricorderò
i miei sandali d’oro
da Cleopatra
sparsi sotto il divano,
la tua maglietta con Keith Haring,
le poesie di Kavafis,
i quadri di Hilma af Klint.
Ricorderò la mia sorpresa
per le bretelle nere
sulla tua pelle nuda,
le scorribande notturne
nel sottotetto,
i baci rubati
su pianerottoli altrui,
l’assonnato palazzo
che prende fuoco,
il mio vestito nero tirato su,
il tuo chiamarmi per nome
e contare
piano piano
per assaggiare ogni istante
prima che non ci sia più.
Ricorderò il comodino spostato
nella casa-mausoleo,
i letti uniti troppo tardi
per dormire abbracciati
e svegliarsi di colpo,
felici
come non lo si era da tanto,
dai tuoni d’un temporale estivo.
Ricorderò il vento caldo
sul balcone stellato
accarezzare i nostri discorsi accaldati
e i capelli arruffati,
noi nello specchio rococò
ancora giovani
e belli
e con qualche sogno
ancora intatto.
FOTO DI CLASSE

Ritrovo una vecchia foto
un po’ sbiadita
di noi bambini
coi grembiulini
e grandi sorrisi
per la prima foto di classe.
In alto a destra
tra le fisionomie dimenticate
trovo te
col tuo caschetto oro
e un sorriso birichino
che non riesci a celare.
In basso a sinistra
con la frangetta castana
ci sono io
che guardo verso te
ignorando i richiami
del fotografo scolastico.
Quanti anni son passati
da quella mattina anni Ottanta
e il tuo viso
è l’unico rimasto familiare
l’unico che riconosco
l’unico caro
adesso più che mai.

CORSICA

In un giorno di sole glorioso
dopo le interminabili piogge
ti presi per mano
e ti portai a vedere oltre l’orizzonte
dal monte con l’asilo più bello del mondo
con vista mozzafiato sul golfo.
Camminammo giù per un sentiero
alla scoperta
tu con la ghitarra
fino a trovare quella terrazza
da fare nostra.
Mi cantavi canzoni d’amore
mentre io,
col vestito psichedelico di mia madre ragazza figlia dei fiori
scrutavo il mare sotto di noi
cercando la tua barca.
Mi mancava solo un fiore tra i capelli
per far sorridere Battisti
il sole ci scaldava la pelle fredda di dicembre,
e ci baciava,
noi ci scioglievamo in caldi abbracci
baci tanto aspettati e risate accecanti.
Poi dal piazzale della chiesetta sul monte,
seduti sul muretto a strapiombo sul mare,
improvvisamente c’erano le isole
così nitide e meravigliose
uno spettacolo mai visto
solo per noi.
Il tramonto epico faceva da sfondo
alla prima volta che seppi con certezza
che anche tu mi amavi
e sarei morta felice lì con te.
Ma durò poco
e anche se non smisi mai di inseguire tramonti,
le isole non le vidi più.


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