La memoria dell’elefante

di Gius Petruzzi

 

Un’altra mezz’ora e l’elefantuccio sarebbe uscito dall’orologio a cucù della signora Linda portando su e giù la piccola proboscide meccani-ca per otto volte, tante quanto l’ora appena scoccata. E lei con un oplà avrebbe lasciato il divano per la camera da letto. Berry titillava il bracciolo della poltrona e con la testa sul cellulare ascoltava – si fa per dire – il racconto di quella volta che Carlo, il marito della vec-chia, si era aggiudicato quell’orologio non proprio bello. Erano pas-sati otto anni da quando lei e sua figlia Clelia l’avevano sepolto nella cappella della famiglia Schiavone, eppure per la vecchia il signor Carlo non era mai morto. Colpa o merito dell’Alzheimer: i ricordi più belli galleggiavano nella testa della vecchia e tutti i giorni torna-vano a scaraventarsi come onde. Questo non permetteva alcuna di-sperazione o tristezza, ma solo l’abitudinaria serenità che il suo grande e unico amore sarebbe rientrato a casa, certo stanco, ma sem-pre bello ai suoi occhi.
«Lo sai come ci è finito quell’orologio lì al muro?» chiese la vecchia. «In realtà non è proprio bello, ma a quanto pare tutti i fratelli e le sorelle bramavano quell’elefantuccio».
Berry distolse per un attimo lo sguardo dal cellulare e concesse alla signora Linda una piccola attenzione. «Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché tutti volevano quell’orologio?»
«Ah non me lo chiedere,» la vecchia rise «ancora non me lo spiego».
Berry aspettava che ora procedesse per il racconto vero e proprio: quell’orologio era solo uno tra i tanti cimeli che dovevano essere as-segnati a sorteggio tra i fratelli e le sorelle del signor Carlo quando la casa dove tutti erano cresciuti andava svuotata di tutto quel che da anni vi giaceva.
«Quando mia cognata Giuseppina lesse il nome di mio marito sul biglietto…» continuò la signora Linda.
«Santo cielo che faccia che fecero» disse Berry tra le labbra.
«Santo cielo che faccia che fecero!» esclamò la vecchia.
«Ora guarda l’elefantuccio» anticipò il ragazzo.
Linda volse lo sguardo verso l’orologio non proprio bello concen-trandosi sull’elefantuccio nascosto nella sua piccola dimora. «E ora eccolo qui» concluse con un sorriso a mezza bocca. «Uh sono già le otto meno venti, mi tocca mettere su l’acqua a bollire. Carlo sarà qui a breve».
«Non ti preoccupare Linda, l’ho già fatto io».
«Grazie Carlo» rispose la vecchia.
«Berry…»
«Uh sì. Grazie Berry».
Il ragazzo infilò il cellulare e sospirò. Tanta era la tenerezza per la signora Linda, ma spesso gli riusciva davvero difficile dover stare ad ascoltare sempre le stesse storie. Cresceva sempre più la convinzione che per la signora Linda Berry non era mai stato davvero Berry, ma il signor Carlo Schiavone. D’altronde la figlia Clelia aveva insistito perché lui accettasse di fare compagnia a sua madre solo per via della somiglianza con il marito defunto che sembrava a quel punto essere l’unico e dunque il più importante requisito. «Questo» gli supplicò la figlia «la renderà più allegra e serena». E Berry si era lasciato con-vincere anche perché non sarà la cosa più divertente del mondo, pensò, ma per un ragazzo di diciott’anni venti euro, senza far nulla, sono i soldi più facili da guadagnare. Certo, non sapeva che ‘nulla’ avrebbe significato assorbirsi il loop mentale di una malata d’Alzheimer. Ogni giorno si faceva forza guardando la proboscide dell’elefantuccio che a breve avrebbe iniziato i suoi otto rintocchi.
L’indice del ragazzo ora era totalmente dentro la spugna del braccio-lo.
«Non grattare troppo Carlo» ¬¬disse la vecchia.
«Berry…»
«Non grattare troppo Berry» si corresse. «Guarda come l’ha ridotto quel bracciolo» attaccò subito la vecchia.
«Carlo si addormenta sempre col sigaro tra le dita…» sussurrò il ra-gazzo.
«Carlo si addormenta sempre col sigaro tra le dita» disse la vecchia. «Glielo dico sempre: “Ti fanno le dita gialle” ma lui niente non ne vuole sapere…»
Berry fece un segno d’assenso e si alzò. Tutto quel tempo seduto gli aveva anchilosato le gambe. Si fermò ai vetri del mobile accanto alla TV, quello dei dischi. Ormai li conosceva tutti. Scivolava le pupille lungo i dorsi delle copertine, caratteri piccoli come formiche. Prose-guì sulla fila e si fermò all’ultimo 45 giri, l’unico che, inclinato, mo-strava la copertina per intero. Su uno sfondo bianco due uccelli si univano l’uno all’altro lasciando tra loro uno spazio chiuso. Al cen-tro un cuore piatto, ma prepotente e palpitante, mostrava la sua figu-ra rossa. Berry lesse tra le labbra la scritta in stampatello: IO CHE AMO SOLO TE. Alla vecchia avrebbe fatto piacere ascoltarlo, pensò. Nello sfilare il cartone colpì la cornice in ciliegio, quella dove i corpi in bianco e nero di Carlo e Linda stavano ritti e solenni nel giorno del loro matrimonio. La voce alla TV venne interrotta dal rumore del vetro ormai a pezzi. Linda si svegliò dall’impasse dello schermo e volse gli occhi al ragazzo. Berry si aspettava un rimprovero, uno sgomento, ma la vecchia parve concentrarsi sui due uccelli. Lui fece finta di nulla e prima che la vecchia s’accorgesse del danno – se mai questo fosse accaduto – lasciò il disco e corse a prender scopa e pa-letta.

Linda gemeva. Piccola e curva, dondolava stringendo a sé il disco che Berry aveva lasciato sulla poltrona. Il giovane non l’aveva mai vista così. Il suo circolo mentale non aveva mai lasciato spazio alla tristezza. Ora che la vedeva piangere, con quel cuore rosso sul suo, non sapeva cosa pensare. Le si avvicinò e si sedette accanto: «Cos’è successo signora Linda?»
La vecchia non rispose.
Berry sapeva che la vecchia ormai viveva la sua vita come un’improvvisazione. Viveva di piccoli ricordi che le risultavano co-me una riscoperta. Piccole scatole impolverate in un angolo remoto del suo cervello. Capitava però – senza sapere come e perché – che una folata di vento spazzasse via la polvere da quelle scatole mentali. Allora Linda poteva ricordare, come un’entità immersa nel fumo, co-sa ci aveva riposto. E se quel ricordo, seppur vago, la teneva lì stretta negli uccelli innamorati, doveva essere qualcosa di speciale, unico e irripetibile.
«Ti va di farmelo ascoltare Carlo?»
«Berr…» il ragazzo si trattenne. Si diresse al giradischi e adagiò il di-sco sul piatto. «Certo tesoro» rispose.
Il braccio meccanico scese sul disco e iniziò a graffiare. In crescendo il flauto si espanse per tutta la stanza. Si fermò solo quando Endrigo iniziò ad intonare:

C’è gente che ha avuto mille cose, tutto il bene tutto il male del mondo.
Io ho avuto solo te…
E non ti perderò, non ti lascerò per cercare nuove avventure.

Dal buio della sua casetta di legno l’elefante spiava il salotto della si-gnora Linda. L’animaletto parve muoversi in preparazione dell’imminente uscita. Da anni nessuno si preoccupava di passare un panno su quell’orologio non proprio bello eppure il velo di polvere che il tempo aveva costruito su di lui non avrebbe reso meno leggero l’animale che, puntuale, avrebbe iniziato ad agitarsi per ricordare alla vecchia che era ora di andare a dormire.
Se per qualche fenomeno che sfugge alla razionalità umana l’elefantuccio avesse avuto la facoltà di intendere e di volere; se per miracolo avesse avuto un’anima, l’elefantuccio avrebbe saltato, alme-no per quella sera, il turno delle otto per rendere eterno il ballo che Berry e Linda consumavano al centro del salotto. Ali nelle ali, i due si tenevano l’uno nelle braccia dell’altro.
Se è vero che il sogno è tale perché sfugge al tempo, allora quello della dimenticanza è il dono più bello che si possa desiderare e Linda era la prescelta. Ma il tempo si sa, non si può fermare e di miracoli non se ne vedono da un pezzo. La lancetta delle ore con un tac si fermò sul numero otto e l’elefantuccio uscì dalla sua casetta portan-do su e giù la proboscide meccanica.
Linda appisolata sul petto di Berry si destò e con un sorriso che sa-peva di eternità gli disse che era ora di andare a dormire.



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