di Adriano Giotti

Sull’avambraccio destro aveva tatuato ‘fearless’.
Era il titolo della sua canzone preferita tra quelle che aveva registrato nel suo primo EP autoprodotto, la stava cantando giusto in quel momento, sul palco del Siddharta, mentre io la guardavo oscillando nell’oscurità in mezzo a una ventina di persone, con la maglietta sudata e la pelle delle braccia resa viscida e appiccicosa dal sudore degli altri. Era il pezzo più lento dei suoi, simile ad un galleggiare elettrico. Come se essere ‘senza paura’ dovesse per forza significare essere riflessivi, introspettivi, «spalancare gli occhi verso l’interno di noi», cantava Isa in inglese, invece che fuori, era la sua soluzione per risultare “interi”. Avevamo diciotto anni, Isa era alta quasi 1,80 e con gli anfibi New Rock arrivava almeno a 1,90, stringeva il microfono sospirandoci dentro le parti più dolorose della sua canzone mentre l’elettronica dei sintetizzatori si mischiava alla cupa linea di basso e al ritmo etereo della batteria. I suoi capelli neri le invadevano il volto, nascondendola.
Isa era sempre stata brava a nascondersi. Pur volendo a ogni costo farsi vedere.
Per lei, tre anni prima, avevo iniziato ad ammettere il nero come unico colore possibile per vestirmi. Fin dall’inizio delle superiori, Isa mi aveva colpito. Era una ragazzina alta e dritta, quasi senza fianchi, indossava sempre gli auricolari e non la vedevo mai in compagnia di nessuno. Guardava in modo cupo qualsiasi persona incrociasse il suo sguardo. Sapeva metterti a disagio, come se nel profondo dei suoi occhi si agitasse qualcosa di irraggiungibile. Ma quel suo modo di ferirti guardandoti, mi attirava, desideravo incontrarla nei corridoi della scuola e allo stesso tempo avevo paura di farmi guardare.
L’istituto tecnico si trovava in una cittadina toscana di medie dimensioni dove ci conoscevamo tutti, frequentato anche da ragazzini e ragazzine, come Isa, provenienti dai paesini vicini. Era come un borgo, l’istituto, e presto le voci iniziarono a circolare su ognuno di noi, comprese le cazzate. In particolare su Isa, di cazzate, ne circolavano molte. Si diceva che fosse figlia di un cantante rock tedesco trasferitosi in una “comune” vicino Firenze per disintossicarsi dall’eroina e là avesse messo su famiglia con un’italiana figlia dei fiori ex-tossica pure lei. Si diceva che occupassero illegalmente gli appartamenti, sfruttando il fatto di avere una figlia minorenne e spostandosi solo ogni cinque-sei anni al limite dei privilegi che concedeva loro la legge. Si diceva che Isa era stata educata in casa fino alle scuole medie perché aveva dei disturbi della personalità che le avevano fatto tentare il suicidio già a sei anni, quando aveva provato a gettarsi dalla finestra. Si dava la colpa a suo padre che manteneva la famiglia coltivando e vendendo erba al limite di un appezzamento di terreno che però nessuno sapeva dove fosse realmente. Qualcuno, addirittura, insinuava che Isa fosse nata sieropositiva e che questa fosse la ragione del suo tentato suicidio.
L’unica cosa certa, però, era che Isa creava scomodità.
Tra i ragazzini, e forse persino tra i professori che non sapevano mai cosa pensasse davvero.
A me invece mi aveva risucchiato. Ogni volta che la guardavo, sentivo che diventavo sempre più schiavo del suo mistero.
E da schiavo divenni presto complice.
Mi comprai un lungo giubbotto di pelle usato, iniziai a offrirle le sigarette a ogni ricreazione. Per ogni sigaretta lei mi faceva ascoltare un gruppo punk diverso. Il lettore mp3 era il suo unico amico. Dopo le prime volte, mi accorsi che mi guardava diverso, non voleva più ferirmi guardandomi. Non so perché. Forse in me intravide un’innocenza, forse qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno che ci sarebbe stato per sempre. Perché diventai il suo confidente. Mi parlava di musica e dei ragazzi che si scopava. Avevamo quindici anni e conoscevo il sesso solo dai porno che ci scambiavamo tra maschi sottobanco. Isa invece già si faceva caricare nelle auto dei ragazzi di quinta superiore, si faceva scarrozzare in giro durante la notte, si faceva portare a Firenze, nei bar, nei locali, nelle feste e nei concerti. Le offrivano shortini di vodka, a volte di tequila, anche se a lei piaceva bere lo zombie fatto bello carico. E poi le piaceva farli godere.
Era il suo modo di ringraziarli. Di sentirsi viva.
A me, invece, non ringraziava mai. Non si ringraziano mai gli animaletti domestici. Si carezzano soltanto, quando ci fa comodo. E io mi segavo in bagno pensando a lei, immaginandola contorcersi sui sedili posteriori, senza maglietta e la gonna alzata, o con i jeans neri abbassati e il tanga spostato di lato, la immaginavo mentre la scopavano in fretta da dietro contro la lamiera ammaccata del cofano, con le cosce aperte che sfregavano contro la ruggine del paraurti, la immaginavo fare pompini con il freno a mano che le premeva forte contro il petto lasciandoci il segno, immaginavo quei ragazzi più grandi spingerle la testa per farsi ingoiare il cazzo più a fondo e, alla fine, immaginavo il suo orgasmo con la bocca spalancata contro la polvere del sedile, contro il mare in tempesta dei suoi lunghi capelli neri.
Un orgasmo aggressivo, più di quello degli altri.
Mentre cantava fearless, vidi il padre di Isa, un uomo sulla cinquantina dai capelli biancastri rasati stile skinhead farsi strada tra la gente. I suoi occhi azzurri stavano piangendo, lacrime trasparenti sulle guance gonfie e rossastre. Non avevo mai visto un uomo con una faccia così dura piangere. Prima, durante i pezzi più elettro-punk, lo avevo visto bere birra e scatenarsi a pogare tra noi ragazzini, fregandosene della differenza d’età. Lo avevano spinto con cattiveria, una cattiveria che riservavano solo a lui. Qualcuno aveva pure riso. Era un vecchio ubriacone di paese e non meritava altro. Lo conoscevano tutti il padre di Isa. Ma lui non si offendeva mai, semplicemente faceva finta di niente e continuava a bere. Portava la sua storia scritta nel ventre. Lo vidi asciugarsi le lacrime per nascondere la commozione prima di arrivare sotto al palco a fine brano. Le passò una bottiglietta di birra. Isa lo ringraziò con un cenno del capo, ne bevve metà con un sorso poi la appoggiò sul palco accanto all’asta del microfono. Un lampo di tenerezza attraversò lo sguardo di Isa mentre guardava suo padre piccolo e sfatto circondato dai volti anonimi, durò poco, la tenerezza, già iniziava il ritmo ossessivo della canzone successiva e lei tornò a dimenare il suo corpo animale fasciato da un corto vestito di latex nero.
Il padre di Isa restò là sotto a cantare a squarciagola il testo che conosceva a memoria. Isa non sembrava scomodata di averlo vicino, non ne sentiva il peso. Neanche quando nei suoi concerti precedenti lo aveva raccattato fuori dai bagni con il vomito appiccicato sul maglione. Neanche quando lo vedeva in piazza urlare alle finestre dei palazzi le sue teorie complottiste antiamericane. Isa non si era scomodata mai. Come se suo padre non le fosse mai pesato. Neanche quando puzzava così tanto da sembrare un vagabondo e noi entravamo in casa ubriachi alle quattro del mattino con la voglia di mettere la musica dark a tutto volume e lui ci entrava in camera per ballare e partecipare alla nostra festa puzzando ancora di più di sudore alcolico e sparando cazzate, le stesse per cui in paese veniva preso per pazzo, le stesse per cui Isa era presa per pazza. Le stesse per cui io avevo perso i miei amici.
Non si vergognava di lui neanche quando litigavano.
La madre di Isa non viveva più con loro. Si erano fatti terra bruciata anche con lei ed erano diventati una coppia-mondo. Un guscio l’uno per l’altra. Ma anche una trascurata centrale nucleare sempre sul punto di esplodere. Litigavano per i soldi, litigavano per l’erba, per l’alcol, litigavano per chi poteva prendere il Booster nero. Una volta vidi Isa aprire uno degli spilli da balia che teneva come orecchini e infilarselo dentro la guancia sinistra. Si attraversò la pelle da parte a parte solo per mettere fine alla discussione. Isa era così. A ogni incomprensione, lei alzava il volume. E quando non poteva più alzare il volume, dirottava dal piano verbale a quello fisico. Aveva scoperto che funzionava, specialmente con suo padre.
E ne abusava per averla sempre vinta. Era il suo modo per vendicarsi di lui.
Molte volte mi sono chiesto come sarebbe cresciuta, Isa, con un padre diverso, di quelli come tanti, di quelli che non pesano, di quelli che non ti rendono scomodo se non con la loro noia e banalità, con il loro essere invisibili, condannandoti alla stessa identica invisibilità, perché forse è solo nell’invisibilità che risiede la pace.
A fine concerto, le luci del palco si spensero. Lo stanzone nero del Siddharta fu riempito solo da un applauso scontato. Un paio di persone si avvicinarono per congratularsi con la band. Io rimasi in disparte. Avevo fatto qualcosa di cui non andavo molto fiero, ultimamente. Sentii le luci accendersi sulla mia faccia, le guance avvampare. Il mio sguardo s’incrociò con quello di Isa che stava arrotolando il cavo del microfono. Feci finta di non essermene accorto, mi allontanai verso il guardaroba per prendere il mio giubbotto di pelle. Passai avanti a un paio di coppiette approfittando della loro distrazione. Lo indossai in fretta e uscii dal locale. Il freddo della notte mi ghiacciò il sudore sulla pelle.
Anche il Siddharta me l’aveva fatto conoscere lei.
Un locale notturno a Prato Est, frequentato da persone dark, gotiche e oscure. Un locale che non esiste più. Fin dalla prima volta che mi ci portò, mi resi conto che pure là dentro Isa era la diversa. A livello esteriore no, alcuni frequentatori erano perfino più eccentrici e fedeli alla linea, ma nell’interiorità sembravano avere paura di lei: anche quando le stavano vicino era come se le stessero lontano, a distanza di sicurezza. Parlavano con Isa seduti sui divanetti in pelle rossa, ballavano con Isa nella dark-room, le offrivano da bere al bancone e da pippare in bagno, potevano anche baciarla e scoparla, ma rispettavano con una sorte di timore il suo alone cupo.
Come se lei, con la sua vera aurea, svelasse l’artefatto della loro facciata.
Isa era quella vera, loro quelli falsi.
Con lei mi sono fatto il primo piercing, con lei il primo tatuaggio. Con lei ho rischiato di morire per la prima volta. Stavamo tornando verso casa, in macchina di uno dei suoi amici. Avevo la testa appoggiata sulla sua spalla, mezzo addormentato e totalmente ubriaco. Quando un tonfo forte seguito da un grattare furioso mi svegliò, vidi scintille fuori dal finestrino, avevamo sbattuto contro il guard-rail, il ragazzo che guidava si era addormentato. La macchina si fermò dopo pochi istanti, le luci dei fari rimasero accese ma il motore spento. Isa aveva picchiato la testa contro il finestrino, si stava massaggiando la tempia, io la guardai e ne approfittai per baciarla. Lo feci d’istinto, senza pensare alle conseguenze. Isa si scostò bruscamente. Non era infastidita, era gelida. Mi guardò negli occhi mentre con le mani iniziò a stringermi il collo, inespressiva. Non riuscivo a respirare, né avevo immagazzinato abbastanza aria. Isa strinse più forte. Fin quasi al limite. Poi, quando lasciò la presa, fu più doloroso che morire.
Mi stava guardando come stava guardando gli altri. Come a voler ferire.
Spaventato, uscii dalla macchina. Eravamo fermi nel raccordo autostradale, a ogni respiro il mio fiato si trasformava in fumo fuori dalla mia bocca. Non passava nessun’altra auto. Aprii lo sportello, aiutai il ragazzo mezzo addormentato a spostarsi dietro, accanto a Isa. Guidai io fino a casa. In silenzio. Sentendomi lo sguardo di Isa addosso.
Per settimane non ci siamo più parlati. Per lei ero diventato come tutti gli altri.
Fuori dal Siddharta, a fine concerto, mentre fumavo una sigaretta con il sudore che mi si ghiacciava addosso, vidi suo padre appoggiato a un angolo. Non so perché ma glielo raccontai. E lui mi rispose ridacchiando e strascicando le parole che era normale avere paura di sua figlia. Anche lui ne aveva.
«Una paura fottuta» mi disse «e sai perché?»
Io scossi la testa.
«Perché Isa non ha mai pianto. Neanche da piccola quando si sbucciava le ginocchia cadendo dalla bicicletta. Eppure non c’è niente di male a piangere» aggiunse, con le lacrime che nuovamente gli affioravano ai lati degli occhi.
Gli chiesi il permesso di fargli una domanda personale.
Lui annuì.
Gli chiesi se Isa aveva mai tentato il suicidio da piccola.
«Tutte cazzate» mi rispose. Anche se quella domanda gli aveva fatto male.
«La gente s’inventa cazzate per spiegare quello che non riesce a spiegare altrimenti» sentenziò.
Gli offrii una sigaretta, rimasi un altro po’ a fargli compagnia.
«Fearless l’ho scritta io, anni prima che nascesse. Ma non sono mai riuscito a cantarla in quel modo» mi disse.
Vidi Isa uscire dal locale, me ne andai. Da lei avevo imparato a essere vigliacco. O forse lo ero sempre stato e lei era servita solo a farmene accorgere.
Uscii così dalla sua vita. Senza una spiegazione. Senza sapere che di lì a poche settimane suo padre sarebbe morto di cirrosi epatica, che Isa si sarebbe inventata che se l’era portato via un cancro per non rivelare che aveva contratto l’epatite C quando si scambiava le siringhe usate ai tempi d’oro dell’eroina. Me ne uscii senza sapere che Isa avrebbe smesso di cantare perché la morte di suo padre l’aveva resa sola al mondo e quindi ammutolita. Forse l’aveva davvero fatto cremare e ficcato le ceneri in una bottiglia di Super Tennent’s rispettando il suo ultimo desiderio.
O forse aveva rispedito il suo corpo ad Amburgo per farlo riposare nella sua terra.
In ogni modo fu comodo andarsene, sul momento. Mettere più chilometri possibili tra me e lei.
Ma quando ritorno al paese, ogni tanto, qualcuno mi parla ancora di Isa. Dicono che sia cambiata, che adesso insegni mindfulness e tenga corsi di yoga in un’associazione culturale di provincia. Si è calmata, addomesticata. Dicono che eravamo fighi assieme, fatti l’uno per l’altra. Mi fa male sentirlo, ma incasso in silenzio, faccio finta di niente. In alcuni momenti mi capita di avvertire una strana sensazione, quando cammino per i vicoli stretti del centro storico, e allora mi volto. E la immagino seguirmi, con i capelli neri e gli auricolari nelle orecchie, la immagino fermarsi ad accendersi una sigaretta e guardarmi dal profondo del suo vuoto. Perché con il vuoto, ci si nasce. Anche in mezzo al furore del mondo, il vuoto ci segue. Per me Isa può fare quello che le pare, adesso, ma nessuno sfugge mai veramente a sé stesso.
Si può fare terra bruciata soltanto fuori, contro gli altri.