di Matteo Bonfiglioli

Alle sette e mezza ho salutato i miei amici all’ingresso della stazione di Riccione. Avevamo ancora nelle palpebre l’ubriachezza e il sonno della notte. Il caldo di agosto appiccicava le camicie di lino alle nostre schiene scure. Nonostante fosse mattina presto il sole picchiava già. Ci siamo salutati e poi sono andato al binario. Il regionale è arrivato in orario: sette e quarantacinque. Era quasi vuoto, come mi aspettavo, caldo da matti. Un anziano con la pipa e i pantaloni larghi e ascellari leggeva il Corriere. In prima pagina, accanto all’articolo sulla crisi dell’automobile, un titolo recitava: «In pieno svolgimento il grande esodo estivo – resse anche nelle stazioni ferroviarie». Tutti stavano andando verso il mare. Io invece andavo nella direzione opposta. Il distacco dall’odore di salsedine e pino marittimo è stato traumatico.
«C’è un concorso da tipografo e uomo di fatica all’AMGA questo sabato. Me l’ha detto il mio collega Carboni. Ti ho iscritto. Prendi il treno al più presto». Me l’aveva comunicato al telefono, mio padre Alfonso, biascicando una pasta scotta di mia madre. Non aveva accettato repliche o lamentele. Le mie vacanze finivano lì, dal telefono a gettoni del Bagno 71. Pensavo alla sua bocca unta d’olio che mi comandava di tornare. Mio padre è socialista, è votato al risparmio e balla la mazurca in salotto. Dopo che ho compiuto sedici anni, ho smesso di essere suo figlio e sono diventato una golosa possibilità di reddito, una quota investibile in società, un’occasione di riscatto contadina.
Sono arrivato alle nove e tre quarti. La folla del binario 2 mi dava le spalle, aspettava il treno per Riccione. Ho preso un caffè nel bar della stazione, dato che ero in anticipo; la mia camicia di lino aveva due aloni scuri sotto le ascelle. Ho realizzato in quel momento di essere tornato a Bologna. La solita Bologna con le merde di cane, le colonne scrostate dei portici, e l’odore di macinato crudo che esce dalle finestre. Fortunatamente il concorso si sarebbe svolto nella via accanto alla stazione e non avrei dovuto trascinare il borsone per troppo: via Gramsci, poco dopo piazza Medaglie D’Oro, una strada obliqua che porta alla Montagnola. Fuori dal chiasso della stazione si sentiva solo qualche vespa e qualche cantiere in lontananza. Il concorso lo facevano di sabato per poter usare gli uffici vuoti. Non sapevo nulla dei requisiti, non ero interessato a passarlo.
Sono arrivato nell’ufficio intorno alle dieci. Una donna dagli occhiali spessi e i capelli ramati e vaporosi mi ha detto che potevo lasciare il borsone nel suo studio e io gliel’ho consegnato. Dalla radiolina che aveva sulla scrivania, gracchiava una canzone di Kate Bush che mettevano sempre al Bagno 71. Ho visto gli altri ragazzi nella sala d’aspetto. Mi hanno intimorito perché parevano non voler stare da nessuna altra parte se non lì. Ero l’unico a essere sudatissimo. Quando si è sentito il boato erano le dieci e venticinque e stavano per consegnarci i fogli per il primo test. Gli infissi hanno tremato ed è caduto un orologio dietro alla signora coi capelli vaporosi e ramati. Ci siamo tutti accalcati vicino alla finestra a commentare, a fare ipotesi. Mi pareva che ci conoscessimo da sempre, come una classe delle elementari. Un dito dei nostri ha indicato verso la colonna di fumo nero. Qualcuno ha detto che veniva dalla stazione.
Quando ci siamo tutti riversati in strada, gli altri edifici stavano facendo lo stesso. Non ho un’immagine precisa di quegli istanti, mi ricordo solo che ho corso molto velocemente, come tutti. Arrivato nella via davanti alla stazione, un uomo a braccia conserte parlava con delle anziane dai capelli radi e gli abiti estivi, floreali. Avevano tutte le mani davanti alla bocca, come in preghiera. L’uomo diceva di aver visto tutta la parte sinistra dell’edificio fare un salto e poi cadere e disfarsi. Diceva che per un istante era sembrato restasse sospesa. Il fumo e la polvere stavano alzandosi in aria.
Prima si sono sentite le sirene e poi, a poco a poco, le grida si son fatte sempre più distinguibili. Un commerciante col camice sporco stava dirigendo il traffico. Altri ragazzi accanto a me hanno cominciato a correre e allora ho corso anche io, senza chiedermi perché lo facessi, come tutti. Alcuni uomini con grosse videocamere grigie erano già sul posto. Uno di loro riprendeva un taxi schiacciato sotto un pilone, altri interpellavano i presenti. Un uomo, davanti alla telecamera, piangeva senza dire niente, girava su sé stesso. Mi sono reso conto di avere paura. L’adrenalina, quando se ne va, lascia il corpo orfano, tremante. In quel momento ero tutto nei miei occhi. Ho visto una scarpa col tacco, lì a terra. L’ho presa in mano, ho cercato qualcuno a cui potesse appartenere. L’ho riposta. Un uomo a torso nudo mi ha scosso e mi ha detto di darmi una mossa. Aveva una Marlboro sopra l’orecchio e pareva essere lì da sempre a gestire il tutto. Realizzavo a poco a poco la gravità dell’accaduto. I vigili accettavano aiuti dai civili e i civili entravano dentro la parte di stazione che da poco non esisteva più. La sala d’aspetto era un ventre nero e fumoso. Ho visto un vigile e un uomo con la maglia in testa, tipo bandana, portare fuori le poche sedie rimaste intatte, con cui recuperare i feriti. Il primo che ho visto, aveva un buco profondo all’altezza dell’occhio destro. Stava seduto composto, mentre lo trasportavano.
L’uomo con la maglia in testa ha chiamato me e un altro giovane molto magro con gli occhiali tondi. Aveva anche lui una camicia simile alla mia. Mentre li aiutavamo a spostare un pezzo di cemento, ci siamo guardati negli occhi, nello sforzo. I nostri volti avevano gli zigomi e i menti pieni di polvere e sudore. Sotto il cemento c’era una donna immobile, stesa a pancia in giù. Le ho guardato i piedi e ho visto che aveva entrambe le scarpe. Il vigile e altri uomini l’hanno presa e l’hanno portata nell’autobus trentasette, gravido di feriti da trasportare. Le ambulanze non bastavano.
Io e il ragazzo con gli occhiali tondi eravamo fermi nel caos, a guardare quella tragica orchestra. Le formiche operaie colte alla sprovvista ma pronte, frenetiche e cooperanti. Lui provava ad asciugarsi la faccia con un lembo di camicia, forse pensava fosse tutto inutile. Mi sono chiesto se fosse anche lui di Bologna, se studiasse all’Università. Poi, per un attimo ho pensato a mio padre e a cosa gli avrei detto tornato a casa. Pensare a lui mi ha fatto realizzare che fosse inutile aspettare indicazioni. Nessuno ne aveva realmente. Mi sono detto che dovevo entrare anche io nel ventre nero. Dimenticare me stesso ed entrare. Ero lì per quello.
Non ho più visto il ragazzo nelle altre tre ore in cui sono stato lì. Verso la fine sono arrivati i cronisti, chiedevano informazioni. Inizialmente sembrava fosse esplosa una caldaia. Più tardi qualcuno ha affermato di aver sentito l’odore netto e distinguibile della polvere da sparo e che le caldaie, quando esplodono, non fanno mica quell’odore lì. L’autobus 37 ora trasportava solo salme. Poi, i vigili urbani ci han detto che era meglio che ce ne andassimo; avrebbero gestito tutto loro, con i militari e i vigili del fuoco; un soccorritore anziano si è pure incazzato, si è sentito escluso. Dovevamo riassumere il nostro ruolo di spettatori, dall’altro lato della strada; lasciare spazio al cordoglio. Era giusto così. Quando ho deciso di tornare a casa non mi sono più voltato indietro. I piccioni erano tornati a posarsi sui fili telefonici. Era pomeriggio, avevo fame.
Mia madre è corsa verso di me in silenzio, senza espressioni. Mi ha stretto forte e poi mi ha detto quanti erano i morti e quanti i feriti; non la vedevo da giugno. Mi aveva accompagnato lei alla stazione. Si era raccomandata che non spendessi troppo e non facessi il coglione. Quando sono entrato in casa, mio padre era fermo in cucina a fumare. Mi ha guardato togliermi la camicia sudicia e mi ha chiesto, con le lacrime agli occhi, se avessi voglia di andare con lui in Piazza Maggiore quella sera. Il mattino dopo era in balcone a sfogliare il Corriere. In sesta pagina, a fianco alle previsioni del tempo, un titolo recitava: «Milioni di villeggianti tutti (o quasi) a destinazione ieri, una giornata torrida, le punte massime di traffico».