IdentitĂ  urbane

di Nicole Spallina

Come d’abitudine, la Flâneuse si era alzata di buon’ora, aveva fatto colazione con un caffè nero e qualche biscotto, poi si era preparata con cura. La temperatura era abbastanza clemente da permetterle di indossare un paio di calze leggere color carne, cui aveva aggiunto una gonna nera a tubo e una camicia bianca a maniche lunghe. Si era presa tutto il tempo necessario per vestirsi, senza la minima fretta: non c’era nessuno ad aspettarla da qualche parte, a parte Parigi e le sue piccole meraviglie quotidiane. Trovava quella prospettiva elettrizzante e pregustava il piacere della mattinata che le si prospettava davanti. Aveva preso con sé la comoda borsa nera ormai segnata dall’uso giornaliero, in cui vi erano un libro da poco iniziato, il Navigò e qualche fazzoletto, successivamente aveva infilato le sue ballerine preferite e un cappotto. Era pronta per l’avventura.
Quella mattina il vagabondaggio non prevedeva alcuna meta specifica, perciò la Flâneuse aveva lasciato ai suoi piedi il compito di guidarla autonomamente verso la fermata metro più vicino. Quest’ultima si trovava lungo la linea quattro, la sua preferita. Oltre ad attraversare la città da nord a sud, la quattro era caratterizzata da una registrazione dei nomi delle fermate per lei assolutamente adorabile: ogni stazione veniva annunciata la prima volta con tono interrogativo, la seconda a mo’ di affermazione, e tutto ciò le provocava una gioia infantile, difficile da spiegare a parole. Era questa la ragione per cui sorrideva come una ragazzina all’annuncio dell’impostata voce maschile “Réaumur-Sébastopol? Réaumur-Sébastopol”. Per stabilire dove scendere, si basò su un aleatorio quanto efficace senso estetico: il grado di piacere che quel giorno le provocava all’orecchio il nome della fermata. La stazione prescelta fu Barbès-Rochechouart.
Assieme a lei scese una vera e propria orda di avventori mattutini della metropolitana, i quali rischiarono di travolgerla a causa della loro fretta, completamente opposta alla tranquillità senza tempo di lei. Tutto ciò non la stupì, era abituata alla grande confusione di boulevard de Rochechouart: quando vi camminava, veniva sempre fermata per i motivi più disparati, tuttavia restava affascinata dalla grande varietà di nazionalità, colori e lingue che la investivano.
Decise di non proseguire lungo il boulevard, bensì di tagliarlo verticalmente: non si sentì ispirata da boulevard Barbès a nord, perciò scelse di proseguire verso sud, lungo boulevard Magenta. Dopo qualche minuto di distratto passeggio, lo sguardo per aria verso le nuvole grigiastre, si rese conto che stava per incontrare orizzontalmente rue Lafayette, una delle strade a suo parere più affascinanti del nord della città. Non avrebbe saputo spiegare perché se ne sentiva così attratta, probabilmente dipendeva dal suo peculiare connubio di vitalità e sobrietà, ben diverso dal caos dei boulevard confinanti. La lunghezza di quasi tre chilometri era solo uno dei suoi tanti lati positivi: era un percorso perfetto per camminare in tutta serenità, respirare l’atmosfera di Parigi nord – che la Flâneuse distingueva perfettamente da quella di Parigi sud – e immergersi indisturbata nei suoi pensieri.
La vita della Flâneuse poteva essere definita come assolutamente normale. Il suo lavoro era dei più comuni e ripetitivi, la sua famiglia era piuttosto semplice, il suo partner poteva tranquillamente passare inosservato. A guardarla da vicino, non era un’esistenza invidiabile o degna di menzione per chissà quale particolare elemento, tuttavia la Flâneuse l’amava esattamente così com’era per il solo fatto di essere così fortunata da trascorrerla lì dove voleva. Poteva sembrare una vita ordinaria, uguale a tante altre, ma era a Parigi. Nelle occasioni in cui si concedeva lunghe passeggiate senza scopo e senza meta, la Flâneuse rifioriva, usciva dal torpore quotidiano e splendeva di una luce tutta sua. Pur nella semplicità della sua esistenza, emanava così tanta energia da sembrare una creatura invincibile, superbamente magnifica.
Arrivata all’incrocio con rue Lafayette, ella svoltò a destra. Trovandosi in zona, aveva deciso di fare una capatina in un luogo che apprezzava particolarmente. Aveva già percorso una distanza considerevole, tuttavia non si sentiva per niente stanca, era abituata a coprire lunghi percorsi a piedi. Le piaceva considerarlo un modo di contribuire al benessere del pianeta, il fatto di evitare mezzi privati e ridurre gli spostamenti con quelli pubblici. Ogni tanto le capitava di sentire alle sue spalle qualche apprezzamento maschile provocato dal suo passaggio, ma non vi badava mai, tranne quando veniva espressamente fermata da un qualche passante, desideroso di esprimere di persona ammirazione per il suo stile. Tali circostanze potevano anche divertire la Flâneuse, perché chiacchierava ben volentieri con chiunque il destino le ponesse davanti, però non evolvevano mai in niente di più di quel che erano: a lei interessava il contatto con la città, niente di diverso da questo.
Una donna scalza le si parò improvvisamente davanti con un movimento rapido e aggraziato: era una delle tante SDF della città, una vagabonda per le strade. La Flâneuse non indietreggiò né fece finta di non vederla, si limitò a sorriderle.

«Une pièce pour manger, madame, s’il Vous plaît.»
«Mi dispiace, non ho denaro con me.»

La Flâneuse in queste circostanze non portava mai denaro, non voleva rovinare il suo vagabondaggio con la tentazione di cedere al consumismo e comprare cose di cui non aveva veramente bisogno.

«Io posso dirti quel che vuoi, sono un’indovina. Posso leggerti il futuro solo a guardarti negli occhi. Se non mi credi, te lo dimostro. Tu possiedi del denaro anche se non sai di averne con te. Cerca nei tuoi vestiti.»

La Flâneuse scosse la testa e continuò per la sua strada. Le era già capitato d’incontrare delle gitane e sapeva quanto fossero abili nel mostrare di saper carpire segreti, erano brave a leggere i dettagli. Una volta aveva visitato Roma con il suo compagno: mentre si concedeva una passeggiata pomeridiana vicino ai Fori Imperiali, era stata fermata da una donna scalza, la quale senza nemmeno averla sentita parlare aveva sentenziato, in un francese piuttosto oscuro, che la Flâneuse era di Parigi. Quest’ultima ne era rimasta colpita, per quanto la magia nera non avesse sicuramente alcun legame con l’accaduto.
Se c’era una cosa in cui credeva, di certo era l’incanto apparentemente originato da qualsiasi cosa incontrasse per il cammino. Era una forma di magia, quella? Una malia proveniente dal respiro stesso della città. Arrivata al semaforo, la Flâneuse attraversò e svoltò a sinistra lungo rue du Faubourg Poissonnière, per poi dirigersi in uno dei primi negozi alla sua destra. Non era forse un caso che la gitana di poco prima le avesse ricordato Roma: era appena entrata in uno dei negozi di libri in lingua italiana più belli della città, La libreria. Da fuori poteva sembrare un esercizio commerciale come un altro, piuttosto piccolo e dalla vetrina ben curata, dentro però vi era una vera e propria esplosione di volumi, da quelli perfettamente ordinati sugli scaffali a quelli ancora da sistemare, lasciati provvisoriamente in lunghe colonne traballanti al suolo.
La Flâneuse aveva studiato italiano al liceo, leggeva con una certa facilità i libri in lingua originale. Le capitava di passare alla Libreria per scambiare quattro chiacchiere con la proprietaria o leggere qualche quotidiano della penisola; a volte veniva con la ferma intenzione di concedersi un romanzo, così da non perdere l’allenamento. A quell’ora il negozio era piuttosto tranquillo, perciò si dedicò a una lenta ricognizione degli scaffali e del tavolo centrale al piano inferiore, dove vi erano esposte decine e decine di volumi. La Flâneuse venne salutata gentilmente dalla proprietaria mentre si attardava su una mensola di libri di poesia.

«Dia un’occhiata a questa raccolta, è di uno degli autori più interessanti del panorama italiano contemporaneo.»
«Grazie.»

La Flâneuse ne sfogliò distrattamente qualche pagina, affascinata dal titolo della raccolta e dalla brevità di alcuni dei suoi testi, che le fece venire in mente subito per opposizione i lunghi componimenti di Victor Hugo. Incuriosita, ne lesse qualcuno; lo stile impiegato era abbastanza semplice da far comprendere la bellezza delle immagini usate anche a una non madrelingua come lei. Si soffermò a lungo su una pagina quasi completamente bianca, dove dimorava umilmente una poesia lunga quanto un soffio: quattro versi, una semplice domanda.

 Io vengo dalla spina dorsale
delle farfalle,
e tu
da dove vieni?

Le piacque subito il suono delle parole, la loro chiarezza sembrava celare un incanto degno di quello suscitato dalla città. Dopo aver salutato la proprietaria, la Flâneuse riprese il suo vagabondaggio svoltando per rue de Montholon, che si ricongiungeva con rue Lafayette. I versi continuarono a risuonarle per la mente. Da dove veniva, lei? Sentendo il ritmo cadenzato del suo passo, reso rumore dal tacco consumato delle ballerine, ebbe l’impressione di condividere quell’origine così misteriosa legata alle farfalle. Questi eleganti insetti avevano come scopo nella vita il volare di fiore in fiore, allo stesso modo in cui lei si spostava di luogo in luogo per trarre piacere dalla sua.
Stava di nuovo camminando lungo rue Lafayette quando venne fermata da una comitiva di turisti in vacanza per un’indicazione. Le capitava spesso di dover dare una mano a gente non del luogo: nella maggior parte dei casi sfruttava l’inglese, ma capitava che avesse occasione di servirsi delle sue conoscenze arrugginite d’italiano o spagnolo, sufficienti per farsi capire nel modo più elementare. Le piaceva anche quell’aspetto del suo vagare, il fatto di non sapere mai in che lingua dialogare con chi le capitava di ritrovarsi davanti. L’apparente mancanza di un mezzo di comunicazione, solo momentanea, la riportava in un ordine collettivo, condiviso, in cui per qualche istante tornava a essere parte del mondo. Se in generale era una spettatrice immersa nella meraviglia del flusso continuo delle cose, in tali circostanze diventava lei stessa vettore di quel movimento. Anche questo sarebbe stato difficile da spiegare, ragion per cui si limitava a vivere le sue sensazioni senza dare loro un senso a parole.
Dieci minuti – e un chilometro – dopo, la Flâneuse cominciò a sentire una certa stanchezza, segno che il vagabondaggio era quasi giunto al suo termine. Diventava difficile godere appieno della bellezza intorno ai suoi occhi quando i piedi dolevano, perciò preferiva fermarsi sempre un attimo prima che fosse troppo tardi. Mentre attraversava la strada per raggiungere la fermata della linea sette Le Peletier, frugò nelle tasche del cappotto per cercare il Navigò – poiché, come al solito, aveva dimenticato di riporlo in borsa dopo averlo vidimato all’andata – tuttavia s’imbatté in qualcosa di piccolo e liscio. Le ci volle più di un minuto per estrarre l’oggetto a causa di un buco nella tasca. Era una moneta da due euro.
Le venne da ridere ricordando le parole della vagabonda. Più che di magia, tuttavia, credeva si trattasse di una questione di sbadataggine. Decise di segnare quella piccola deviazione dalla norma facendosi un regalo. Giusto a qualche metro di distanza dalla stazione metro, al civico quarantacinque, vi era uno dei pochi Prêt à manger della città: la Flâneuse decise di entrarvi, pregustando già ciò che avrebbe ordinato.
Cinque minuti dopo era seduta a uno dei tavoli vicino alla vetrata del piano terra, davanti a un roulé à la cannelle. Ne addentò un pezzo, incapace di mascherare il piacere che la invase: non avrebbe saputo dire se a provocarle quella sensazione fosse la croccante pasta sfoglia sotto i denti, il sapore inebriante del burro aromatizzato alla cannella oppure lo zucchero rosso. Nonostante tentasse di prolungare il delizioso pasto il più a lungo possibile, la viennoiserie terminò ben prima di quanto avrebbe desiderato, lasciandole qualche cristallo di zucchero sulle labbra, le mani appiccicose e il grembo coperto di briciole di pasta sfoglia.
Conclusasi quella non pianificata parentesi dolciaria, la Flâneuse avrebbe potuto alzarsi e andarsene, non senza una breve sosta in bagno per rinfrescarsi, tuttavia volle restare seduta lì ancora per un po’, a contemplare fuori dalla vetrata la vita mentre scorreva davanti ai suoi occhi. Non aveva più nulla da mangiare né una scusa per attardarsi, se non il semplice desiderio di sentire il passare dei minuti sulla pelle, un tempo che correva via senza un senso e senza uno scopo. Erano quegli istanti lì, i suoi preferiti, poiché da lei non pretendevano nulla se non la sua completa devozione, rivolta al battito pulsante della città.
Parigi aveva un cuore, due polmoni, vene, arterie e anima. Lei sentiva tutto. A volte avrebbe giurato che la città fosse più carne e sangue del corpo da lei stessa abitato, viveva solo quando sincronizzava il suo battito con quello intorno a lei. Poteva risultarle difficile entrare in sintonia con le singole persone, ma non accadeva mai con la città. Con quest’ultima ci poteva essere solo una comunione continua, rinnovata felicemente giorno dopo giorno, in qualunque luogo la Flâneuse si trovasse.
Non era difficile dare una risposta alla domanda che i versi le avevano posto, pensò la Flâneuse mentre lasciava il ristorante per dirigersi alla fermata della metropolitana.

Io vengo da Parigi. Io vivo a Parigi. Io sono Parigi.

Versi tratti da Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra, Milano, Chiarelettere, 2017, p. 83.



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