di Stefano Scanu
Per ogni giro di pala l’orlo della tovaglia faceva un sussulto uguale e contrario. Come una pendola, la ventola sul soffitto fendeva l’aria umida scandendo gli istanti che precedevano l’inizio del servizio.
Alle sette in punto C. si alzò da tavola, rimise le sedie al loro posto e sparecchiò. Lasciò solo due bicchieri e la bottiglia del vino. Il padrone e lo chef rimasero seduti ancora un po’ a sorseggiare in silenzio e a pizzicare le briciole.
Nello stanzino sul retro un paio di giovani camerieri si preparava velocemente. C. tirò fuori la divisa dallo stipetto e si vestì davanti allo specchio. Lo fece con precisione e una certa solennità, come un cavaliere. Si infilò prima i calzini di filo, slabbrati e lisi sul tallone, poi i pantaloni neri, la camicia bianca che abbottonò fino in cima e la fascia elastica dentro cui rimboccò la pancia. Indossò pure un cravattino con il gancio e la giacca che non riusciva più a chiudere del tutto, passò due mani veloci di lucido sui vecchi mocassini sformati e con l’indice pulì le sbavature. Penna, cavatappi, taccuino, e via in sala.
Per un po’ rimasero tutti e tre sotto il portico a fumare e ad aspettare studiando il traffico di maggio e i passanti. Più di una volta C. s’incantò a guardare le Nike del collega poi soffiando fuori un po’ di fumo gli chiese se fossero comode. Il ragazzo si voltò appena per rispondergli:
– Tu che dici?»
C. provò a ricordare. All’epoca sua se per caso ti presentavi al lavoro con le scarpe da ginnastica, come minimo ti sbattevano dietro il banco degli antipasti dove potevano vederti solo dal busto in su, guai a muoversi da lì, e se anche sopra non era tutto pulito e in ordine, per dire, una macchia sul bavero o un bottone scucito, allora ti rimandavano direttamente a casa, «che poi è dove dovresti tornartene tu con le tue scarpe. Certo sarebbe un po’ severo ma giusto, niente da obiettare». Quell’ultima considerazione la tenne per sé ma guardò il ragazzo e sorrise come se quello lo potesse sentire.
Il ronzio dei frigoriferi ammaliava tutti e tre, ognuno avvolto nel fumo e nei propri ragionamenti, almeno finché il rumore delle auto nel vialetto non li risvegliò, allora in un istante si misero sull’attenti ad accogliere i primi clienti e nel giro di mezz’ora la sala si riempì di voci e odori.
I due ragazzi correvano dai tavoli alla cucina urlando le comande allo chef che a sua volta ribadiva al secondo e così via lungo una brevissima linea gerarchica che terminava in fondo al locale, dove un filippino annuiva nervosamente mentre squamava orate decongelate nell’acquaio. I loro ranghi erano i primi a riempirsi e gli ultimi a svuotarsi, rimpiazzavano gli stessi coperti più di una volta. Con entrambe le mani sparecchiavano tutto in un colpo solo, mance incluse, voraci come dei pokeristi, poi lanciavano in tavola tovaglioli e stoviglie, e avanti un altro.
Dalla parte opposta la serata languiva, C. dava il benvenuto ai clienti che via via entravano ma quelli ricambiavano distrattamente e andavano oltre, così per non stare con le mani in mano passava in rassegna i propri tavoli, anche più di una volta o almeno finché non si decidevano a occuparli. Ogni posata al posto giusto, parallela al tovagliolo, e poi i calici, quello per il vino all’interno, appena sotto il bicchiere dell’acqua, con cura, mica come quegli altri due che li buttavano un po’ come veniva. A fare le cose bene, in fondo, ci vuole poco, e anche se i clienti non lo notano, pensava, insomma se appena seduti disfano tutto senza farci troppo caso, non vuol dire che sia inutile. L’ordine, soprattutto se impercettibile, è un balsamo. Non è pure per questa ragione che si va al ristorante? Ma questo pensiero durò poco, spazzato via dalla smania e dalla confusione che il sabato sera riversava dentro il ristorante.
Nonostante ciò, C. non cercava di sveltire il servizio e liquidare i clienti, non lavorava sulla quantità, al contrario, dedicava a ognuno la massima attenzione, li consigliava, li guidava nelle scelte cercando di condurli fuori dalle banalità del menù. Perché non cominciare con un bel cocktail di scampi e continuare con una battuta di tonno o una spigola sotto sale? Ne erano rimaste giusto un paio di quelle fresche, altro che allevamento, una carne magra e bianca come non l’avevano vista mai. Da accompagnare magari a un fiano ghiacciato, anzi meglio, a un vermentino di Gallura di una cantinetta sarda, sconosciuta ma eccezionale. Magnificava quelle prelibatezze senza cedere alla cantilena, nonostante le raccontasse da anni, da quando a capo di una piccola truppa di camerieri montava salsa rosa e porzionava uova di quaglia al tartufo per principi e commendatori in un elegante ristorantino del centro. Mentre questi altri, adesso, dopo averlo ascoltato senza mai alzare gli occhi dalla carta, ripiegavano comunque su una margherita e qualche birra. Così C., con la faccia di chi parla e dice niente, raccoglieva i menù, se li infilava sotto il braccio e tirava via i calici per il vino e i coltelli da pesce lasciando la tavola un po’ più più nuda.
La sera avanzava mentre i vetri delle finestre perdevano la loro trasparenza, ora sembravano schermi neri su cui si riflettevano le mille luci dei lampadari, e in quella costellazione abbacinante si intravedeva pure la sagoma di C. che fluttuava come un cosmonauta smarrito. Cominciò a correre come gli altri, o quantomeno ci provò, facendo la spola tra la cucina e la sala. Verso le dieci aveva già dissipato gran parte del proprio contegno: due grosse macchie di sudore s’erano fatte strada sotto le ascelle, le maniche della giacca erano unte di sugo e un paio di righe d’inchiostro nel taschino denunciavano le volte in cui non aveva trovato nemmeno il tempo di rimettere il cappuccio alla penna.
Di due tavoli ancora liberi il penultimo venne occupato da una coppia di anziani magri e pallidi, mentre l’altro rimase lì vuoto per oltre un’ora ad aspettare un nome, Vico, Vico, e ogni volta che a C. cadeva l’occhio sul bigliettino, gli suonava più familiare, qualcuno a cui cercava di associare un volto ricacciandolo fuori dalla memoria.
A guardarli bene quei due vecchi, solo la donna sembrava viva, nervosa e loquace come una scimmia mentre il marito, impegnato a conservarsi il più possibile, si limitava ad annuire. Un minuto d’attesa le sembrò già troppo e dopo aver spinto tutto ciò che riteneva superfluo in un angolo del tavolo, chiamò C. agitando la mano ossuta. Quando quello arrivò col taccuino per raccontarle i piatti del giorno, lo disinnescò all’istante ordinando supplì, pizza e birra, per sé e per il marito.
Un uomo lesse il nome sul bigliettino attraverso le lenti fumè e occupò l’ultimo tavolo rimasto, in quel momento ogni cosa trovò il proprio posto nei ricordi di C.
Il principe Vico non era cambiato per niente: il fazzoletto di seta al collo, l’anello al mignolo, lo stesso vestito di sartoria, i capelli all’indietro, ormai bianchi e brillanti, e poi le basette lunghe, fuori moda, tutto esattamente come venticinque anni fa.
Ci misero pochi istanti a riconoscersi. Come stava? Che ci faceva lì? Ne era passato di tempo. C. ricordava ogni singola abitudine di quell’uomo che aveva servito centinaia di volte nel suo vecchio ristorante. Gli portò subito due gambi di sedano e una tazza d’olio in cui intingerli, un bicchiere di chianti per aprire la cena e poi una bottiglia di bianco secco per pasteggiare. A seguire un riso all’inglese e un sorbetto di limone per favorire la tartare di manzo. Il principe mandava giù ogni boccone masticando lentamente e staccando appena la schiena dalla sedia, ogni tanto abbandonava le posate sul piatto, sollevava appena la mano dal tavolo e per oltre un minuto rimaneva in quella posizione, come se tenesse una sigaretta invisibile tra le dita, poi riprendeva a mangiare il suo riso freddo.
La vecchia spezzava grissini spiando quello strano uomo che aveva catalizzato tutte le attenzioni del cameriere. Si lamentò per via delle pizze troppo cotte e del servizio. Che fine avevano fatto i suoi supplì?
C. chiese scusa e andò in cucina a informarsi ma quando riemerse lo fece spingendo un carrello verso il tavolo del principe. Sopra c’era la sua battuta di carne e tutto ciò che serviva per condirla. Con una forchetta fece pressione al centro della polpetta cruda lasciandoci scivolare dentro due tuorli. Aggiunse senape, olio, salsa piccante, cipolla, sale, pepe e qualche goccia di limone. Mescolò senza mai fermarsi o almeno finché l’uovo non intrise ogni cosa. Ora tutti guardavano il maître: i due giovani camerieri, i clienti, la vecchia e suo marito. Il principe era ipnotizzato da quei gesti abili e conosciuti, eseguiti quasi a memoria.
La spuma gialla e lucida che montava nella scodella ricordava quella che fa il fiume lungo gli argini. Incantava come le notti in cui C. tornando a casa dal lavoro andava a prendersi le zaffate di umido e acqua dolce sul lungotevere. Con la soddisfazione di aver fatto bene, le tasche piene di mance e di bellezza. Le signore nel salottino su una gamba sola che aspettavano il proprio tavolo, stregate dal prosecco, consumando lunghissime Merit, le perline nei bicchieri, la lacca nei capelli come pure i fermacravatta, i fermasoldi, i Dupont d’oro, il tartufo, flambè, creme brulèe e béchamel. Tutto impastato in quella tartare che ora si tirava dentro pure lui, il rumore, le pizze, la malinconia e i supplì di questo sabato sera.
E così rimase finché non servì tutto nel piatto. Il principe annusò profondamente la carne e sorrise. C. piegò il tovagliolo sull’avambraccio, accennò un mezzo inchino e solo dopo sentì la sala risvegliarsi e i piedi fargli un po’ male.