La madre francese

di Laura Nicchiarelli

Ieri ho avuto bisogno di farmi un regalo. All’una e dieci sono uscita dall’ufficio e ho deciso di barattare la pausa pranzo per un giro alla Rinascente. Il cielo non consentiva illusioni: l’alone del sole era fioco, nascosto da una spessa cataratta di nuvole perlacee. Ho raggiunto via del Tritone in poche falcate, distratta dal pensiero dell’inchiesta che mi era atterrata sulla scrivania poche ore prima e frastornata dal suono dei clacson che si moltiplicava a ogni incrocio.
Nella mezz’ora seguente ho subito l’efficacia logistica del centro commerciale. Io volevo una gonna. Ero convinta di desiderare una gonna. Ma arrivata al penultimo piano ero già passata attraverso una rete di esperienze sensoriali che hanno presto inquinato quel semplice bisogno. Sono uscita dal reparto bellezza con le mani intrise di unguenti e i polsi che sprigionavano effluvi preziosi (Soleil Blanc, Tom Ford). Salita al piano uomo ho afferrato un golf di Ralph Lauren taglia L, ne avevo ristretto uno in lavatrice e ancora non l’avevo detto a Paolo. L’itinerario non lasciava nulla al caso, ho dovuto attraversare anche il reparto lusso e pelletteria, a palla di fucile, si intende. Lì ho accarezzato alcune ecopellicce e mi è sembrato che il loro manto emettesse un suono simile alle fusa di un gatto nonostante la composizione sintetica.
Finalmente la scala mobile mi ha depositata al piano del prêt à porter femminile. Allora ho capito che acquistare una gonna sarebbe stato un atto di masochismo ingiustificato, visto lo strato di morbidezza accumulato di recente. Non ero lì per castigarmi. Di cosa avevo bisogno quindi? Fingevo di ponderare la scelta, ma le narici lentigginose già fremevano per l’odore di cuoio o camoscio che le scarpe firmate hanno nel mio immaginario.
Sono riscesa al piano delle calzature come un diabetico si appropinqua al bancone di una pasticceria. Ecco, era lì che dovevo trovarmi. Ho abbandonato ogni riserva, e con lucida determinazione ho subito chiesto il mio numero di uno stivaletto a punta e stretto alla caviglia di Sergio Rossi. Il prezzo era scandaloso come le fantasie di cui li vedevo protagonisti.
La commessa si stava avvicinando con quei capolavori di design tra le mani, quando mi ha visto al piede destro, prontamente liberato dalla sneaker, uno di quei calzettoni di lana caldi e un po’ ruvidi che avrebbe fatto attrito con il materiale aderente e ancora rigido.

– Ah, aspetti che le porto un calzante!

Ho ringraziato, mi girava la testa. Ciò mi succede a volte quando un oggetto, un odore o un suono mi catapultano indietro sulla linea temporale.
La ragazza si è sbrigata in pochi minuti e mi ha appoggiato ai piedi la scatola chiusa con sopra il calzante. Era un oggetto nero, lucido, dal manico allungato: mi è venuta voglia di metterlo in borsa ma naturalmente ho rinunciato. Anche se desidero spesso cose non mie non sono una ladra. Può essere che ciò sia vero oggi solo grazie alla reazione che mia madre ebbe l’unica volta in cui trasformai un impulso cleptomane in azione.

Era mio padre a utilizzare il calzante. Il suo lavoro richiedeva abiti formali, faccio fatica a ricordarlo senza completo scuro. Anche la cravatta era la regola, insieme a scarpe stringate di pelle rigida che faticavano ad arrendersi al suo piede grosso e nodoso. Al mattino era sempre di fretta – ci impiegava più di un’ora per raggiungere il centro – e con un braccio già nel soprabito attraversava la casa fino all’ingresso dove c’era l’armadio delle scarpe. Mia madre era in cucina e sparecchiava la colazione ascoltando il giornale radio. Sarebbe uscita più tardi accompagnando me e mio fratello a scuola. Io ero in camera, ancora impastata di sonno. Mi infilavo la divisa e sentivo:

– Sabine dov’è il calzante?

Lei, accompagnata da un tramestio di stoviglie:

– Lo avrai rimesso nell’armadio con le scarpe.

Lui, senza malizia nella voce ma con una certa impazienza:

– Qui non c’è… L’ho usato ieri.

Intanto si accaniva sui bordi di cuoio, pigiandovi dentro il tendine smilzo che da solo non voleva entrare.

– Vedrai, deve essere lì>> diceva mamma senza mai spazientirsi.

Ma il calzante non si trovava.
Alla fine papà riusciva a entrare nelle scarpe, trattenendo le bestemmie di cui non era capace e accontentandosi di imprecazioni sommesse.
Altri giorni il calzante era dove ci si aspettava che fosse, ma non era mica mai lo stesso. Ne passarono di tartarugati, alcuni di legno e altri di plastica. Ne ricordo uno rosso e lungo che papà riportò dal negozio Church’s. Sparì anche quello.
Questi oggetti andavano e venivano, ma non era chiaro né quando venissero sottratti né dove andassero a morire. Mia nonna diceva <<La casa nasconde ma non perde>>, eppure.
Ma i ranghi della gestione familiare erano serrati, c’era ben altro da amministrare: prima il trasferimento di mamma in un altro ospedale – faceva l’ostetrica – poi la miopia di mio fratello Luca che peggiorò di botto, e il mio odioso esame di maturità. Non c’era tempo per gli oggetti smarriti.
I miei genitori litigavano di rado. Quando succedeva l’atmosfera vibrava dei bisbigli astiosi di mio padre. Si rintanava nello studio per evitare lo scontro frontale. Mamma invece si attardava nelle stanze parlando da sola, inveiva in francese e intanto si avvicinava alla porta chiusa. Apriva giusto uno spiraglio e fissava papà, come un serpentello munito di un veleno potente ma di scarsa volontà che gioca con la preda.
Ma per i calzanti non litigarono mai.

Maman aveva un tono speciale anche per dichiarare quando usciva con le amiche.

– Io esco  diceva, ma lo diceva con tale boria, con una risata di beffa nascosta da qualche parte nei tratti da dipinto fiammingo. “Io esco”, e se ne andava raggiante come chi è appena scampato a un grosso pericolo, mento in su, tacchi alti e appena un’ombra di trucco. La porta si chiudeva, e io la immaginavo risorgere a una vita eccitante di liquori e segreti bisbigliati in francese. In quelle occasioni papà rimaneva con noi, eravamo tre pesci in un acquario.

Il mio piede è sgusciato nella scarpa senza resistenze e il calzante è rimasto sulla poltroncina in pelle dove mi ero seduta. Ho chiesto alla commessa di portarmi il numero più piccolo.

I miei vivono ancora insieme, si sono trasferiti da poco in un appartamento a via Panisperna. È un ultimo piano mansardato, piccolo ma luminoso. Hanno realizzato il sogno di vivere nel centro storico, accantonato tanto tempo fa per crescere noi bambini. Ora non hanno lo studio dove nascondersi, e siedono vicini in poltrona o al tavolo da pranzo a osservare la rispettiva vecchiaia, inondati dal sole che entra dal lucernario. È molto comodo per me, dall’ufficio sono lì in quindici minuti a piedi. A volte mi invitano a pranzo ma non sempre accetto, la cucina ipercalorica di mamma è un attentato al mio metabolismo dormiente. In verità sono pietanze che si addicono solo a mio padre, il burro sembra sciogliersi nelle sue vene di amianto per poi tramutarsi in energia intellettuale. Da lui ho ereditato solo la professione e un tipo di alcolismo prestigiatore: non si è mai sobri né ubriachi, ma si barcolla sul limite della decenza sociale. Comunque, finché il medico dice che sta bene lui si dichiara intoccabile. Mamma lascia correre, fedele alla sua nazionalità che non conta il vino tra gli alcolici.

Siamo stati io e mio fratello a fare il trasloco per loro e anche Paolo si è fatto due viaggi avanti e indietro col furgoncino. Ancora non stavamo nemmeno insieme, è stato gentile.
Dicono che si diventa grandi quando per la prima volta ci si confronta con le debolezze dei genitori. Io quella sera sono cresciuta di botto. Avevamo caricato gli ultimi scatoloni, imballato i quadri e arrotolato i due tappeti del salotto. I mobili erano già stati portati via sul furgoncino.
Mio fratello suggerì che scendessi in cantina, casomai ci fossimo dimenticati qualcosa.
Lì, oltre alla polvere, rimanevano solo una bicicletta a cui mancava una ruota e il lettino di quando Luca era piccolo, col materasso tutto a chiazze di pipì. Sotto c’era una scatola di cartone pesta di umidità. L’ho aperta con due dita perché mi faceva schifo: dentro c’era un ragno e i calzanti di papà. Ne ho riconosciuto uno di legno chiaro nel mucchio e quello di plastica rossa.
Non capivo.
Risentivo il tono di ostentata indifferenza di maman in cucina, e mio padre che intanto si schiacciava le dita tra il tallone e la scarpa. Perché aveva sempre negato?

Ho infilato la scatola in una busta, sono salita in macchina con Luca poggiandola sui sedili posteriori. Arrivati al mio indirizzo ho salutato e ho preso la busta con me, mio fratello non ha fatto domande.
Ero furiosa. Davvero era stata così infantile? Ripetere questa beffa all’infinito la rendeva felice? Di cosa si vendicava con un dispetto insensato? E se non per vendetta, perché nascondere un pacco di oggetti plasticosi in cantina? Mi era sembrato un inganno enorme e meschino, la mia percezione era ingigantita dall’irrazionalità del fatto, privo di movente. Ma il rancore è sbollito quasi subito, non era ragionevole da parte mia. Se mia madre aveva un lato sbandato non stava a me smascherarla. Ho pensato a lungo all’infinita tenerezza nel tirarci su, alla grazia con cui sopportava le fatiche domestiche dopo un turno di dieci ore, e non me la sono sentita di affrontarla su una questione così insignificante.
Poi, a sangue freddo, mi sono accorta di avere finalmente gli strumenti per interpretare a pieno l’episodio del mio unico furto.

Più di venticinque anni fa, nella scuola di periferia dove frequentavo la quarta elementare, i bambini tornarono in aula dopo la ricreazione. Non fecero in tempo a sedersi ai banchi che scoppiò una tragedia: qualcuno aveva sottratto il Tama Gochi di Isotta dal suo astuccio. Per chi non avesse vissuto gli anni Novanta né come figlio né come genitore, il Tama Gochi era una di quelle aberrazioni protodigitali nate durante il mesozoico della tecnologia. Era un gingillo poco più grande del quadrante di un orologio e impersonava un animale domestico. Comandato da un software più che basico e azionato da pochi pulsanti, interagiva tramite un display striminzito con immagini e messaggi pixelati. Alternava bisogni tipici di un cane o di un gatto, pretendendo di essere nutrito o coccolato; bisognava stargli dietro o sarebbe crepato di morte virtuale. L’inutilità del Tama Gochi era perfetta: rivestito in plastica trasparente con gli ingranaggi a vista, alienava il bambino creando dipendenza e non insegnava nulla. Volevo disperatamente possederne uno.

Dopo un severo interrogatorio da parte della maestra di italiano, che cercava di estorcere una confessione spontanea al colpevole, e una volta placati gli spasmi di pianto di Isotta, la quale incolpava Marco pur non disponendo di prove plausibili (Marco era in effetti un bambino pestifero), tutta la classe se ne tornò a casa con una nota sul diario che intimava i genitori a investigare sull’innocenza della prole.
Io ero insospettabile: timida ma non emarginata, un fagotto tutto guance e lentiggini col colletto macchiato del sugo rappreso della pizza che mi portavo a merenda. Solo una volta avevo nominato il Tama Gochi tra i regali che avrei voluto per Natale. E mio padre: <<È spazzatura>> Docile, capii che non era un diniego negoziabile.
Persino mia madre, abile conoscitrice del mio piccolo animo, ci mise un paio di giorni a scovare il giocattolo: le sue ricerche furtive terminarono quando, tastando delle calze rosa nel cassetto della biancheria, si accorse di un bitorzolo sospetto. Io ero dietro di lei, minuscola contro la carta da parati a fiori. Ricordo il modo plateale in cui si bloccò – una pausa del tutto superflua che sottolineava la solennità del momento – prima di estrarre il corpo del delitto dal calzino e di girarsi verso di me col palmo aperto. Che classe, maman. Che pathos.

Maman…  Feci in tempo a balbettare, perché il disprezzo che le saettava nello sguardo mi aveva atterrita ben prima della manata che ne seguì. Una sberla a cinque dita piazzata sullo zigomo. Crollai col sedere a terra.

Poi mi sgridò, scelse parole gelide e rarefatte che il suo accento francese coprì di spine dolorose: le “r” intrappolate in gola e rivomitate fuori servivano da trampolino ai suoni mozzati, le vocali uscivano correndo su accenti gridati nel vuoto, repentini come lo schiaffo che mi aveva assestato.
Non mi sgridò mai più così, né mi sfiorò mai. Per lungo tempo ho creduto di vedere nella sua reazione un grumo di vergogna e di legittima delusione. Lei che lavorava a volte anche la notte per regalare ai figli una vita sfacciatamente spensierata. Il tutto per poi ritrovarsi in casa una baby borseggiatrice, e vigliacca peraltro. Invece – suppongo – aveva riconosciuto in me la propria attitudine al segreto, e l’abilità nell’ordire bugie solitarie.
Dovetti restituire il Tama Gochi a Isotta, alla quale nel frattempo ne era stato regalato un altro (quello nuovo era rosa e aveva delle funzioni aggiornate). Fu una delle giornate più umilianti della mia vita. Per oltre due settimane mi mostrai amareggiata, pentita fino al pianto, sempre mesta sia a casa che a scuola. Nessuno seppe mai della gioia pura e scandalosa che avevo provato a custodire quel bottino proibito senza neanche utilizzarlo. Soltanto lo estraevo dalla calza e lo rimiravo sotto la lampadina dell’abat-jour. Lo giravo sotto al fascio di luce – era maledettamente seducente nel suo rivestimento di plastica verde – producendo bagliori arcobaleno sul copri piumino, e mi crogiolavo in uno stato di colpevole euforia.

Ho impugnato il calzante e ho spinto il piede – il mio non è né grande né piccolo – dentro lo stivaletto. Stavolta era fasciante al punto giusto, si stringeva sulla caviglia come un guanto. Mi sono alzata e ho mosso due passi incerti verso lo specchio: niente male. Sono indietreggiata di un paio di metri, ora con un’andatura più sensuale.

– Sì, li prendo.

Dopo la decisione è arrivato il leggero spaesamento che segue un acquisto importante (il prezzo equivaleva a un quarto del mio stipendio). In questo stato di stordimento mi sono guardata intorno: la frenesia da saldi e le luci accecanti mi rendevano invisibile e la commessa era andata a cercarmi un paio chiuso in magazzino. Allora ho appoggiato il busto allo schienale di pelle marrone e ho rilassato le braccia abbandonandole ai lati del divanetto. In questa posizione il calzante era quasi a contatto con il mio indice sinistro. Mi sono allungata ancora e l’ho afferrato.

Anche a pagamento concluso sono rimasta intrappolata nella logistica a ritroso: ho dovuto ripercorrere tutti i reparti scintillanti, sfilando verso l’uscita tra corridoi di borse da quattro zeri e respirando da capo gli odori svenevoli del piano cosmetici. Nulla, ero diventata immune. D’istinto ho toccato la borsa, dove il calzante aggiungeva il suo leggero peso specifico, e ho imboccato la porta a vetri.



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