All’inferno non c’è campo

di Massimiliano  Albicini

L’ometto corpulento uscì a precipizio dal locale elegante nel quale si era attardato per pranzo, facendo ballonzolare il doppio mento sotto la faccia rubizza. Era una bella giornata serena di fine primavera, e il cielo visibile a tratti negli scorci tra gli alti palazzi pareva dipinto, tanto pulito e intenso era il suo tono di azzurro. Osservare un simile spettacolo era raro, dato l’inquinamento e la foschia che di solito avvolgevano gli edifici con le loro dita spettrali, e gli abitanti della grande città si intrattenevano volentieri a guardarlo, compiaciute dalla visione di un colore così vivace, in contrasto col consueto grigiore.
Ma l’ometto non era incline ad apprezzare lo spettacolo offerto dalla natura. L’ometto stava imprecando, e la rabbia lo riempiva di sfumature ben più vivaci di quelle offerte da un banale cielo blu. Accidenti ai camerieri, ai cuochi, a tutti quelli che si erano occupati di preparargli il pasto luculliano che aveva appena consumato. Ci avevano messo una vita. Ora era in ritardo per un appuntamento importante, e lui non era mai in ritardo agli appuntamenti, fossero importanti o meno.
Sgambettò alacremente lungo il marciapiede, le cosce tracagnotte che facevano sfregare il tessuto del suo completo costoso, e mentre si affannava faceva ampi gesti di richiamo in direzione dei pochi taxi sonnacchiosi transitanti lungo il piccolo viale periferico. Nessuno ebbe la compiacenza di fermarsi, a dispetto della fretta ben visibile sulla sua faccia rubiconda, e a dispetto del fatto che chi necessitava di un trasporto con tanta urgenza fosse uno dei più ricchi manager in carriera della città. Ho detto della città? Della regione, ormai!
Dopo una serie di infruttuosi tentativi a braccia alzate, che ebbero l’unico risultato di fargli appiccicare la camicia di seta alle ascelle sudaticce, si arrese all’evidenza che non sarebbe mai giunto in tempo alla riunione, programmata da una settimana. Non avrebbe dovuto scegliere un ristorante così distante dall’ufficio, maledizione a tutti i santi.
Sbuffando, si incamminò lungo il selciato in direzione del viale principale, dove sperava di incappare in qualche tassista più compiacente. Sfilò il telefonino dalla tasca della giacca, sempre sacramentando, e si diede a pestare con le dita sullo schermo, con nervosismo crescente, finché riuscì a far comparire il numero del suo ufficio.
Sul marciapiede, pochi metri avanti a lui, erano ben visibili uno svariato numero di cartelli di divieto di transito pedonale, inviti a spostarsi sul lato opposto della strada, obblighi di indossare gli appositi dispositivi di protezione. Alcuni operai erano impegnati in un trasloco. Pesanti mobili dovevano uscire da un appartamento al secondo piano, e quelli più grandi dovevano essere fatti passare dalla balconata, per poi venire calati con il paranco del loro camioncino. Avevano transennato accuratamente l’area della banchina tra il loro mezzo e l’ampio ingresso al palazzo, ma non avevano lasciato nessuno di guardia, confidando sul fatto che i pedoni dotati d’istinto di conservazione avrebbero ubbidito alle indicazioni.
Impegnato com’era con lo schermo del suo cellulare, l’ometto non se ne curò: doveva arrivare il prima possibile alla strada principale, quella era la via più rapida, lui l’avrebbe seguita. E guai a chi avesse avuto la malaugurata idea di ostacolarlo. Borbottando spazientito, scostò con malagrazia una transenna per consentire il passaggio al suo ampio posteriore, e come niente fosse tirò dritto sul marciapiede deserto. In novantanove mondi su cento, la sua pervicace ostinazione non avrebbe avuto conseguenza più grave di qualche rimbrotto, che al massimo sarebbe potuto sfociare in un piccolo litigio.
Il caso volle che quel mondo fosse il centesimo. Proprio mentre l’ometto entrava nella zona transennata, gli operai stavano spingendo fuori dal balcone una pesante credenza di legno massiccio. Era stata costruita quando ancora non si risparmiava sul materiale, stazzava sui duecento chili abbondanti, e c’erano voluti in quattro con l’aiuto di un paio di martinetti per sollevarla e imbragarla. Era stata una fatica improba, e quando gli operai erano infine riusciti a fissarla al paranco avevano tirato un profondo sospiro di sollievo. In qualche maniera l’avevano poi spostata all’esterno della finestra, a forza di strattoni e bestemmie, e adesso la credenza dondolava a una decina di metri d’altezza, saldamente agganciata al filo d’acciaio.
In realtà, non era agganciata in modo così saldo. Per pura e semplice combinazione, il pesante nodo che assicurava l’imbragatura al gancio del paranco scelse infatti proprio quel momento per decidere di sciogliersi.
Fu un istante. Duecento chili di legno massello accelerarono verso il basso in tempo reale, trascinandosi dietro un viluppo di cavi e cordami, diretti a schiantarsi sul grigio pavimento sottostante. Purtroppo per l’ometto, e anche per gli addetti al trasloco, che furono considerati responsabili dell’accaduto, la credenza aveva un appuntamento con lui.
Il grande manager non si rese conto di nulla. Era riuscito a prendere la comunicazione con l’ufficio, e stava abbaiando frasi sconnesse alla sua segretaria, cercando di farle capire che sarebbe arrivato il prima possibile.
Purtroppo, non sarebbe più arrivato da nessuna parte. Le urla di avviso che provenivano dall’alto neanche sfiorarono la sua coscienza, impegnato com’era a imprecare nel microfono. Il pesante mobile lo colse proprio sulla testa, schiacciandolo e spalmandolo sul marciapiede come salsa di pomodoro su una granulosa bruschetta di cemento. Non ebbe neanche il tempo di accorgersi di essere morto
E lui e il suo smartphone, pestati e rimestati dalla violenza dell’impatto, si avviarono sull’oscura via dell’aldilà.

La prima cosa che pensò l’ometto, appena scomparsa la subitanea sensazione di compressione, fu che la primavera si fosse trasformata in estate di colpo. Ma non un’estate normale, bensì canicolare, afosa, polverosa e secca come un deserto.
Si diede un’occhiata intorno, e trasecolò. La città era scomparsa. Era circondato da un tormentato deserto di sabbia rossa, che si spingeva fin dove poteva arrivare il suo sguardo, ma non fu solo la vastità del luogo che lo colpì. Ai suoi occhi si presentò infatti una visione dantesca: un numero esorbitante di urlanti anime torturate. Gorgoglianti pozzi infuocati, ribollenti di lava, si aprivano nel terreno. Ospitavano caterve di entità, costantemente riarse da fiamme inestinguibili che non le consumavano. Catene e uncini emergevano dal suolo farinoso, lacerando e squartando le profondità più sensibili di quei miserevoli esseri.
Attorno alle fosse ardenti, altre anime erano mezzo sepolte nella rena. Di alcune sbucavano la testa e le braccia, di altre le gambe, che scalciavano inutilmente l’aria rovente, mentre aghi delle dimensioni di ferri da calza dilaniavano i loro corpi. Immani esseri cornuti e deformi, con ghigni ringhianti dipinti sui musi, si accanivano a casaccio sui malcapitati con nere lance e fruste infuocate, godendo delle grida e delle implorazioni che venivano loro rivolte.
L’Inferno. Non poteva essere altro.
L’ometto si guardò, e vide che era nudo, come lo erano tutti gli esseri in quel luogo di sofferenza. Nessuno aveva addosso nulla, a parte la propria pelle.
Non era del tutto vero. Aveva ancora il cellulare nella mano. Se lo portò al volto, per osservarlo meglio nel riverbero rosseggiante delle fiamme, e scrutò lo schermo acceso con un’espressione corrucciata. Il telefono non aveva segnale, e questo lo fece alquanto innervosire.
La reazione poco emotiva dell’ometto non deve stupire. Era cresciuto in una famiglia non religiosa, e le spaventose iconografie degli inferi non avevano mai scavato solchi di terrore nel suo subconscio. Da parte sua, non aveva mai avuto la minima propensione all’introspezione o alla ricerca dell’ineffabile, essendo un convinto materialista. Aveva quindi dell’idea di Inferno una concezione meramente accademica, e non arrivava neppure a ricollegarla con la realtà della propria morte.
Così, l’ometto corpulento non provava paura. Era solo molto seccato per l’imprevisto che si era venuto a creare. Perché un contrattempo di quel tipo rischiava di fargli perdere la sua riunione. Peggio ancora, se il telefonino non aveva segnale, non poteva neanche avvisare in ufficio. Quello era un grosso, grosso problema, ma contava di poterlo risolvere in breve tempo.
Per il momento nessuno dei ributtanti demoni torturatori aveva ancora fatto caso a lui, e non c’era da stupirsene, visto il numero incalcolabile di anime delle quali dovevano occuparsi. Gli sarebbe convenuto rimanere defilato il più possibile, ma non era nella sua natura.
Così, l’ometto si avvicinò con passo sicuro al diavolo nero più vicino, che gli dava le spalle, piantò per bene i piedi nella sabbia calda allargando le gambe per darsi un’aria di importanza, e gli diede tre decise manate a metà schiena. La mostruosa creatura sussultò, colta di sorpresa, e si girò verso di lui.
Si fronteggiarono. L’orrida entità, che lo sopravanzava in altezza di un buon metro, se ne stava in piedi, sbavando, con una frusta irta di frammenti di vetro ancora stretta nell’artiglio. Se i demoni avessero posseduto qualche forma di senso dell’umorismo, la vista del rotondo omuncolo nudo, l’ampia pancia sporgente in atto di sfida e la faccia mortalmente seria, avrebbe potuto strappare un mezzo sorriso alla creatura. Ma gli abitanti degli inferi non sono inclini alle amenità, per cui l’essere demoniaco si limitò a fissarlo con i suoi occhi rossi, ringhiando e agitando la sferza.
Per nulla intimorito, l’ometto gli sventolò il telefono sotto il naso.

«Ti sembra il caso che i cellulari qui non abbiano segnale?», esordì, in tono di sfida.

Colto di sorpresa dall’atteggiamento sicuro dell’altro, il demone esitò.

«Non dici niente?», proseguì l’altro, ancora più arrabbiato. «Devo avvisare in ufficio che farò ritardo per una riunione importante, e come faccio se in questo posto del cazzo non posso telefonare? Me lo spieghi?»

Il mostruoso essere si guardò attorno, smarrito. In eoni di lavoro era la prima volta che un’anima gli si rivolgeva con tanta aggressività, e la cosa lo confondeva.

«Non stare lì a cincischiare», insistette il grande manager, sempre più arrogante, puntandogli addosso un paffuto dito accusatore. «Sono pieno di conoscenze, io. Se non ti muovi a portarmi a un telefono il prima possibile, ti faccio passare i più brutti cinque minuti della tua esistenza!»

Tanto disse, tanto fece, e tanto minacciò, con la storia che conosceva persone molto in alto, che la creatura demoniaca si risolse a contattare il suo diretto superiore, per capire cosa fare. Non si poteva mai sapere, magari nel caso in questione c’erano peculiarità che andavano oltre le sue competenze. Chiese quindi aiuto al suo responsabile, mentre l’ometto continuava a zampettare avanti e indietro sulla sabbia alcalina, lanciando improperi in tutte le direzioni.
E il suo superiore venne, manifestandosi in un turbine di polvere. Era terribile nell’aspetto, simile a un uomo ma con due teste supplementari, una in forma di toro e una in forma di ariete. Stringeva una lunga lancia tra le mani possenti. Si trattava di Asmodeo, demone dell’ira. L’ometto non si fece intimorire dalla foggia del nuovo venuto. Reiterò le sue accalorate proteste, dichiarando che se si fosse reso necessario sarebbe andato a parlare con chiunque, fino alle alte sfere. E guai a chi avesse osato mettergli i bastoni tra le ruote.
Asmodeo, a dispetto del suo titolo, ascoltò con pazienza le rimostranze. Lo guidò con una mano lontano dal diavolo nero, che se ne stava fermo a guardarli, ancora parecchio confuso. Fece lunghi cenni di assenso, mentre lo scortava lungo i sentierini che percorrevano la piatta distesa infernale. Si disse certo che la sua mozione fosse degna di essere presa in considerazione. Era necessario risolvere il problema della copertura telefonica quanto prima, perchè era giusto e logico che gli inferi si modernizzassero, in sintonia con i cambiamenti della società e della tecnologia. A un certo punto gli diede persino una confortante pacca sulla spalla, cosa che ringalluzzì l’ometto ancora di più. Ormai si sentiva sicuro che tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Arrivarono a una delle pozze di lava più grandi, scavata in profondità nel suolo ferroso. In essa le grida erano ancora più strazianti rispetto al resto dell’Inferno, e le anime che vi si accalcavano se possibile più torturate rispetto alle altre, in un tripudio di lame, spilli, uncini, schegge di vetro, morse, catene, pinze. L’ometto si fermò sul bordo dell’ampia pozzanghera infuocata, e vi guardò dentro. Non fece neppure in tempo a chiedere cosa ci facessero lì, perché Asmodeo gli assestò un potente calcio tra le scapole e lo fece precipitare nel magma, gesticolante e urlante.
Il contatto con il fuoco inestinguibile della tortura bruciò la sua pelle all’istante, il telefono che stringeva ancora come un totem venne consumato, e un gran numero di chiodi e spine di cristallo emersero dalla lava a straziargli le carni. Asmodeo si girò, e tornò a occuparsi delle sue incombenze. E sotto di lui, nella voragine infernale delle torture eterne, l’anima dell’ometto strillò come quella di chiunque altro.



freccia sinistra freccia