Inferno trip

di Isabella Ballarini

Illustrazione di Vera Taccani

Ovviamente, per andare nella Tana della Bestia bisognava pagare. Salato.
Mica ci si poteva presentare dalla Bestia come pezzenti, con le toppe sul culo e il cappello tra le mani, eh. Il Bosso non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Lui liquidava gli spilorci in un attimo, sbattendoli fuori dalla sua grazia con la stessa tranquillità con cui si fumava un sigaro.
Per essere accettati bastava poco. Un anello di quelli giusti – con oro diamanti e tutto – valeva un biglietto immediato per il bus. Anche i contanti sfuggiti ai controlli della polizia andavano bene: pericolosi sì, ma non si sputa mai sul vile denaro. Un dente d’oro tenuto sul palmo della mano poi era perfetto: ci si presentava davanti al Bosso col molare in bella vista e lui annuiva subito.
Imbarcarsi sull’autobus era facile. A patto di avere la grana. E Mister Miriam, modestamente, aveva messo da parte un bel gruzzolo. Risparmi che avrebbe dovuto usare per il futuro, per se stesso, per qualunque cosa, ma non per la Bestia. La Bestia doveva essere lasciata in pace, là, nel mondo perduto nel quale si trovava.
Mister Miriam aveva scelto diversamente: era uscito di casa, era saltato sulla macchina, aveva abbandonato il paese in rovina portando con sé tutti i soldi che gli erano entrati nelle tasche. E si era lanciato nel vuoto senza paracadute. Un matto, in pratica, com’erano matti tutti gli altri.
Arrivò là con la borsa piena di contanti, un bagaglio talmente gonfio da dare nell’occhio in modo incredibile. Si presentò davanti agli uomini del Bosso, aprì a fatica il borsone. Questi sono i… Soldi, avrebbe voluto dire, ma non riuscì neanche a finire la frase: la borsa gli venne scippata all’istante e spalancata davanti a lui; gli uomini del Bosso guardarono dentro, tirarono fuori più denaro di quanto avessero preventivato in precedenza.

«Va bene, merda. Puoi salire» dissero ributtandogli il borsone addosso.

Mister Miriam mormorò un grazie, come se fosse felice di essere stato chiamato merda. Si diresse verso il bus barcollando, perché la strada in quel punto non era più nemmeno una strada: era uno sterrato fatto di polvere, sassi, buche che avrebbero fatto inciampare chiunque.

«Non così in fretta, merda» gli gridarono dietro.

Miriam si voltò. Non ebbe nemmeno il tempo di dire un semplice eh: gli uomini del Bosso lo accerchiarono, gli tapparono gli occhi con una benda, strinsero così tanto che Miriam barcollò, vinto dalle vertigini e dal nodo che premeva proprio sul cervelletto.

Lo spinsero sul bus con una manata: Miriam andò dritto contro il tale che gli stava davanti. Trovò a tentoni un sedile, ci si sistemò sopra. Respirò a fondo, quando sentì il bus partire.
Il mondo della Vera Guerra non era più quello che un tempo l’umanità aveva chiamato casa. Niente ricordi, né testimonianze di un passato che pareva non essere mai esistito sul serio. Era il tempo degli edifici che crollano, dei pazzi vestiti di stracci che vengono su dal deserto. Là, dove anche l’ultima memoria presto sarebbe andata perduta e tutto sarebbe stato barbarie.
Il bus andò per strade che dovevano aver visto tempi migliori: percorsi pieni di curve, mulattiere, buche che facevano sobbalzare tutto, anche il fegato. Miriam veniva spinto di qua e di là come un pupazzo a molla. A ogni frenata faceva un salto in avanti contro il sedile di fronte. Scusate, diceva aggiustandosi la benda. Gli altri Ospiti dovevano essere messi anche peggio: si sentivano mugugni, qualche urlo strozzato. Devo andare in bagno, disse una voce.
Il freno a mano venne tirato di colpo. Il bus fece un balzo così potente che più di un Ospite rotolò giù dalla sua sedia e finì sul pavimento. Miriam si sentì afferrare da mani possenti che lo costrinsero a rimettersi in piedi. Giù, disse una voce. Venne spinto dal bus con forza. Cascò per terra, la polvere gli entrò in gola. Lui cominciò a tossire. Una merda sta male, disse una voce. Tutti là intorno risero. Non era un bel mondo, sul serio. Ma era l’ultimo mondo rimasto e Miriam si rimise in piedi a fatica.
La benda gli venne tolta di colpo: la luce lo costrinse a sbattere le palpebre più volte, per far ritornare la vista com’era prima. Là davanti c’era il palazzo: decorazioni, piastrelle, marmo, gradini pazzeschi all’entrata. Mister Miriam rimase fermo, la borsa coi contanti in mano, la gente accanto a lui con la bocca aperta perché quel posto lasciava sempre senza parole. Una delle ultime case intatte… disse una voce in mezzo alle altre.

«Venite avanti, branco di stronzi!» gridò uno degli uomini con le scarpe a punta.

Loro erano là, ai lati del palazzo, su per le gradinate, affacciati alle finestre. Vederli faceva sempre uno sporco effetto: i loro stivali erano rinforzati sul davanti e finivano dritti come uno stiletto, armi che se ti beccavano in culo allora sì che potevi dire addio alle chiappe. Scesero dalle loro postazioni con la rapidità di un animale, saltando giù dai davanzali, venendo fuori da ogni anfratto.
Si piazzarono accanto alla folla, gli occhi fuori dalle orbite, l’aspetto feroce, le facce che parevano incazzate anche se sorridevano. Assunti dal Bosso per controllare che gli Ospiti, una volta entrati, non cambiassero idea e se la dessero a gambe come coglioni per tutto il palazzo.

«Muovetevi, merde» disse l’uomo di prima.

Tutti passarono sotto gli intarsi della volta, tra le statue che parevano d’oro, il marmo bianco, le colonne talmente alte che ancora un po’ sfondavano il soffitto e andavano direttamente nello spazio.
Entrarono in una grande stanza e Kaios si fece avanti a braccia spalancate. La sua giacca dorata brillava sotto i lampadari di cristallo in modo persino fastidioso. Benvenuti, Ospiti, disse.
Lui era il fedelissimo. Il diletto. Capelli neri, cicatrice sulla faccia, cravatta di seta e una spilla, Cielo, una spilla che a guardarla bene era tutta un unico diamante. Kaios: si diceva che il Bosso l’avesse raccattato dalla merda più totale, portato via da stracci, miseria, elemosina e ne avesse fatto il suo uomo migliore. Si dicevano tante cose e lui non smentiva né confermava nulla.

«Siete pronti per la Bestia?» esclamò.

Andarono giù per le scale. Kaios faceva strada e la discesa agli inferi era totale: buio e gradini giù, più in basso del basso, luci deboli e corridoi sempre più stretti. Mister Miriam andava avanti col borsone in mano, le labbra tirate sul volto e il sudore che gli colava lungo il collo.
Arrivarono in un piazzale sotto il palazzo: cemento per terra, poche luci alle pareti. Era quella la Tana? Mister Miriam strinse le palpebre, perché i faretti là erano bassi, bassissimi, difficile vedere qualcosa. Il ring rettangolare era immerso nel buio, circondato da luci che non rischiaravano un bel niente. Le maglie della rete brillavano debolmente, colpite a tratti dal chiarore.

«Com’è che ti chiami?» chiese Kaios.

Mister Miriam si voltò di scatto: non si era accorto di avercelo accanto, l’uomo migliore del Bosso, in tutta la sua altezza e con tutta la sua brutta faccia.

«Miriam.»
«È un nome da donna.»
«È il cognome. Il mio nome è Gi…»

La sala s’illuminò di colpo. Mister Miriam si portò una mano sugli occhi per riparare lo sguardo. Una voce potente salì da un microfono e si sparse tutto intorno. Volete vedere la Bestia? gridò.
Non si capiva chi stesse parlando: un presentatore, uno degli uomini con le scarpe a punta, oppure… Volete la Bestia? E la gente tutta a urlare, un unico boato che copriva ogni altro pensiero. Bestia, Bestia, Bestia, si sentiva dappertutto. Miriam si passò una mano tra i capelli biondi.
La gente tirò fuori il denaro e Kaios intascò come un registratore di cassa. E non solo soldi: catene d’oro, fedi matrimoniali, maiali salvadanaio con dentro i risparmi, dentiere coi denti ancora attaccati… Mister Miriam tirò fuori i suoi contanti e li sventolò in aria. Se li sentì strappare via dalle mani in un attimo, non riuscì nemmeno a capire se a prenderli fosse stato Kaios o qualcun altro.
Gli venne dato un biglietto con la scommessa. Su chi aveva puntato? Sulla Bestia, ovvio. Si puntava sulla Bestia a prescindere, se si aveva voglia di intascare qualcosa.

«E adesso» gridò la voce «un applauso per i nostri Eroi!»

Il ring si illuminò ancora di più: un bagliore forte, un’esplosione di luce. E là, in mezzo al chiaro, apparve lui. Immenso: una testa a palla, un corpo gigantesco che ondeggiava avanti e indietro, muscoli anche nelle orecchie, piedi che battevano a ogni passo e facevano saltare gli spettatori delle prime file. Mister Miriam si portò una mano sulle labbra per nascondere lo stupore.

«Guarda che quello è lo sfidante» disse Kaios.

Miriam spalancò gli occhi chiari, perché quella notizia gli era arrivata addosso come un pugno.

«Non te lo aspettavi, eh?» ridacchiò Kaios. «Ecco. Quello è la Bestia.»

E là, sopra il ring, tra le urla e le luci e tutto, c’era un uomo. Normale. Altezza media. Braccia come se ne vedevano tante. Gambe magre. Un nano, in confronto alla mostruosità di prima. Miriam aveva le labbra aperte sul serio, ora. Perché aveva scommesso su di lui, merda, e invece la Bestia, come lo chiamavano, era un mingherlino del cazzo.

«Maracus lo Sterminatore!» gridò la voce dal ring, «Eroe della Vera Guerra. Figlio delle Ultime Metropoli. Centottantanove chili di muscoli, due metri e dieci di altezza. Un urlo per lui!»

Grida, braccia alzate tutte insieme, occhi fuori dalle orbite. Solo Miriam se ne stava fermo in mezzo alla folla, gelido come una statua nella gloria.

«Alla vostra destra, la Bestia! Un metro e settantasette centimetri, settanta chili. Nostro Eroe. Signore della lotta. Guerriero delle Terre Perdute. Urlate per lui!»

E le grida e la follia e l’estasi. E c’era di tutto, là in mezzo: professionisti dell’azzardo con gli occhiali da sole anche di notte, principianti arrivati lì per lasciarsi alle spalle la vita, la famiglia, il cane, i ricordi, tutto, tutto, anche l’anima. E uomini finiti lì per curiosità, per caso, per denaro, perché il mondo mangiato dalla Vera Guerra si era lasciato dietro macerie e strascichi senza confini.
Maracus lo Sterminatore alzò le braccia e poi le lasciò ricadere. Fece partire un urlo potente che attraversò l’aria e passò sopra alle grida della folla. Miriam era bianco in volto: aveva paura che i suoi soldi non sarebbero più tornati indietro. Si passò una mano sulle labbra.
Lo Sterminatore si lanciò contro la Bestia con il pugno sollevato, come se fosse una bestia pure lui. Morte al nemico! gridò. Ma la Bestia era agile: piccolino sì, ma se decideva di scappare era una scheggia. Saltava intorno all’avversario, le mani senza guanti, i pugni nudi coperti da nastri di stoffa legati stretti. La sua faccia da pazzo pareva più cattiva ogni minuto che passava.
Tirò un destro che beccò lo Sterminatore nello stomaco. Tutti sussultarono, perché il colosso sputò sangue. E Mister Miriam là, più bianco del bianco, col pugno stretto che imitava inconsapevolmente i colpi dati dalla Bestia.

«E non hai ancora visto niente» disse Kaios.

Lo Sterminatore alzò la faccia al cielo: le luci lo illuminarono come una visione mistica. Lanciò un grido in aria, da animale ferito. Mondo matto. Mondo perduto. Figli della Vera Guerra. E Mister Miriam cominciava a sentire nelle vene il sentimento pazzo che accomunava tutti. Scorreva là, nel sangue, sotto la pelle, prendeva le budella, strappava via il cuore, un senso di estasi, un ritorno all’animale che faceva a pezzi la civiltà e dava forza agli istinti più brutali.
Lo Sterminatore tirò un pugno. Beccò la Bestia in faccia. E gli spaccò naso, labbra, tutto. Sangue ovunque: sul ring, sui muscoli che non c’erano, sulla gente in prima fila… La Bestia volò a terra e finì la sua corsa sul pavimento, due, tre, quattro giri a rotolare come una sfera sul ring. Là, rotto, accanto alla rete di protezione, davanti agli occhi esaltati della folla.

«Sai perché lo chiamano Bestia, uomo col nome da donna?» chiese Kaios.

Miriam non rispose. Guardava quel ragazzo a terra, quella Bestia che non doveva avere più di venti-venticinque anni, frutto perfetto delle Terre Perdute, e pensava una cosa soltanto: merda.

«Perché è pazzo» concluse Kaios.

La Bestia si aggrappò alle maglie della rete. Le sue dita persero la presa più volte, scivolando come se tutto fosse coperto di burro. Alzati, gridò qualcuno. La Bestia si rimise in piedi a fatica, tra urla e voci che gli intimavano di tirarsi su o di rimanere a terra a seconda della scommessa fatta. Barcollò per qualche istante nel tentativo di recuperare l’equilibrio. E rimase lì, con una mano appoggiata alla rete, a respirare con la bocca aperta, il sangue che gli correva dal naso e arrivava sul mento, sul collo, sul petto. Vai, Bestia! urlò Mister Miriam.

«Quello lì ci fa fare un sacco di soldi» disse Kaios, «perché non si arrende. Guardalo: lo massacrano e lui è sempre in piedi. Ha una forza di volontà che rasenta la follia».

La Bestia gridò. Anche l’avversario urlò. Si scagliarono l’uno contro l’altro, tutta la potenza protesa in avanti, nei pugni, nella foga, nella guerra. Miriam aveva i capelli appiccicati alla fronte e non riusciva a distogliere lo sguardo dal ring. La Bestia non sentiva i colpi. Li prendeva, gli facevano male, ma non li sentiva. Lui era altrove. Nella follia, nel passato che non c’era più, nel deserto.

«Tutti gli uomini delle Terre Perdute agiscono per niente» disse Kaios. «Né ideali, né lotta, niente. E noi abbiamo trovato il modo di sfruttare quel niente. Finché dura.»

Sfruttare il mondo. Spremerlo finché darà succo. Avevano un bel modo di vivacchiare alle spalle degli altri, il Bosso e i suoi seguaci. Uno dei tanti metodi saltati fuori dopo la fine del mondo, per sopravvivere tra le rovine. La Vera Guerra era stata la peggiore di tutte. Mai l’umanità si era trovata davanti a un abisso simile. Niente bombe dal cielo, né feriti sulle strade, né cippi per commemorare i morti. La Vera Guerra era arrivata in silenzio, uno spegnersi naturale senza spiegazioni. Si era posata sulle sorti del mondo senza lasciare cicatrici, in modo talmente discreto che molti l’avevano scambiata per semplice assestamento del progresso. Ci si accorse della Guerra tardi, quando il terrore che qualcosa fosse andato storto era ormai troppo grande per poter essere ignorato. Qualcuno osò chiedersi cosa succede? Qualcun altro rimase perplesso. Molti pensarono di essersi sbagliati, perché il mondo all’apice della propria civiltà non poteva andare a rotoli così.
Eppure il futuro fosco, la ricerca ossessiva della libertà, della gioia, del piacere senza senso erano lì. Bastava aprire gli occhi e guardarli. La perdita della memoria, il divertimento infinito che si faceva regola, lo spirito sempre più lontano… La Vera Guerra mostrò da subito la sua faccia più nera.
E il mondo andò avanti come se nulla stesse accadendo. Spaventato sì, ma pieno dell’illusione che prima o poi tutto sarebbe ritornato indietro, andando a posto da solo in un incastro perfetto.
Il resto era stato ferocia pura.
La distruzione si portò via tutto, tutto. I monumenti vennero giù, ridotti in polvere sulle strade. I grattacieli si spaccarono sotto il peso dell’incuria. Andarono perse le città, le periferie. Le Ultime Metropoli caddero, dimenticate da gente senza memoria. La polvere si posò sulle croci, sulle strade. Ricoprì le case, l’asfalto secco, rese arido ogni cammino. Senza più limiti né confini, gli uomini viaggiarono da soli tra palazzi distrutti, rovine vuote, antenne spezzate ai lati di strade deserte. Persi in un mondo che non riconoscevano più. Figli di una libertà senza scopo.

«Non sappiamo chi abbia fatto tutto questo» disse Kaios. «Non sappiamo nemmeno perché sia successo. Sappiamo che c’è, però. E che ci è utile. Li vedi, tutti quanti? Non sanno niente, non ricordano niente. Si lasciano manovrare perché sono vuoti. E più sono vuoti, più diventano utili.»
Mister Miriam non ascoltava più: fissava con insistenza il ring e la Bestia su cui aveva scommesso tutti i suoi risparmi. Maracus lo Sterminatore vacillava: la Bestia gli girava intorno e colpiva prima che l’altro riuscisse a capire da dove arrivassero i colpi. Uno nella schiena. Uno nello stomaco.
La Bestia spiccò un salto e arrivò addosso all’avversario, lo afferrò per la testa tonda, gli tirò un pugno dritto nel cervello. E finalmente lo Sterminatore andò giù. Un enorme pioppo abbattuto contro ogni previsione. Per un attimo calò il silenzio. La gente rimase là, in attesa che accadesse qualcosa: un colpo di reni, la vittoria non ancora scritta. Ma Maracus lo Sterminatore non si rialzò.

«Il vincitore!» gridò la voce sul ring. «Lui, Nostro Eroe delle Terre Perdute!»

L’urlo della folla si levò potente. E la Bestia sul palco, il pugno alzato in segno di vittoria, il sangue che gli imbrattava il petto. Per un momento sembrò davvero un eroe, un guerriero e un esempio per tutti. Poi partì la corsa all’oro. Quelli che avevano scommesso su di lui andarono a incassare. E Kaios diceva uno alla volta e la gente non lo sentiva nemmeno e tutti con il foglio della scommessa in mano, sventolante in aria, voci che tentavano di prevalere su altre voci. Nessun mito a salvarli. Nessun Cielo a proteggerli. Mister Miriam era in mezzo, schiacciato nel tentativo di prendere il suo premio. Kaios lo vide mentre sgomitava a destra e a sinistra e si avvicinò a lui. Gli prese il biglietto dalle mani, lo passò all’uomo con le scarpe a punta che avrebbe pagato la vincita.

«Non mi hai ancora detto come ti chiami, uomo col nome da donna» disse.
«Io sono Gio…»

Giorgio? Giovanni? Gionatan?
Mister Miriam venne travolto dalla folla e per qualche istante scomparve: mani su di lui, piedi in faccia, corpi e soldi che volavano un po’ ovunque. Miriam riemerse a stento, annaspando come se fosse in acqua. I soldi gli erano finalmente entrati nelle tasche: fece in tempo a contarli, metterli nella borsa e andarsene. E tornarsene là, sul bus, verso il paese morto dal quale proveniva.
Non era più tempo di eroi. Per sacrificarsi bisogna conoscere. Rispettare. Guardare in alto, verso un altrove che nessuno vede più. Non era tempo di eroi. Era il tempo di conservare. E chiunque, là, in quel casino infernale, poteva permettersi di salvare qualcosa: buoni, cattivi, perduti, bestie, nemici, sfidanti, Miriam, chiunque avesse ancora un briciolo di anima da portare con sé.
La distruzione colpisce ciò che l’uomo crea. Il corpo, la materia, ogni elemento terreno. Tutto si sfalda ai lati delle strade, ridotto in polvere in uno spavento senza fine. La distruzione fa cadere palazzi, sgretola muri, uccide ogni pietra. Ma conserva l’essenziale. Il dentro, la memoria, il vissuto, il bene, il tempo. L’anima che consente di non impazzire. E lascia che il superfluo vada giù, si frantumi, diventi nulla, come forse è giusto che sia.



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