di Stefania Maruelli
Arrivata mi sono seduta all’ombra dell’olmo. Non riuscivo più a stare a casa, Anna Clara piangeva dalle quattro, lei si accorge anche nel sonno quando sono nervosa e piange, piange, piange. Non so come fare quando inizia e non vuole smettere, Cesare lo sa e l’ha presa, ha iniziato a cullarla, lui è così: accudente, paziente, doveva nascere madre, io non sono mai stata capace. Me ne sono accorta subito, dal primissimo istante, appena ho sentito il suo pianto, appena me l’hanno messa in braccio e mi hanno detto ecco questa è Anna Clara, che bella bambina. Subito ho provato una fitta di gelosia nelle ossa e quando si è attaccata ho sentito che mi stava succhiando via la giovinezza, la bellezza e ogni possibile felicità insieme a quel latte annacquato. Non avevo mai avuto seno e ne avevo orrore, ero diventata volgare, dozzinale, come le altre. Adesso Anna Clara me lo avrebbe svuotato quel seno, mi avrebbe svuotata dopo avermi riempita e finalmente sarei potuta tornare quella di prima, quanto tempo ci vorrà , sarei potuta tornare me, Adele. Cesare mi ha fatto cenno col braccio libero, quello con cui non la teneva, era quel movimento che voleva dire di andare a prendere aria, di farmi un giro, il suo sguardo era fermo per contrapporsi alla mia agitazione, rassegnato, a volerlo guardare bene, ma io non volevo guardarlo, avrei voluto esserne capace, avrei voluto annuire che era passata, invece sono uscita dalla stanza, ho approfittato della sua indulgenza, e mentre lui camminava avanti e indietro per il corridoio mi sono infilata il cappotto sopra la camicia da notte, le scarpe, le prime che ho trovato, ma mentre uscivo mi sono fermata sulla soglia, la mano già alla maniglia, e sono tornata indietro, ho imboccato le scale che portano sopra e in camera sono andata alla toeletta, ho aperto la scatola e l’ho trovata, era come la ricordavo, l’ho messa in tasca, richiuso la scatola, la porta della camera e rifatto le scale di corsa. Cesare mi ha guardata appena, avrà pensato che avessi infilato un maglione o tentennato, cambiato idea e invece no, sono passata accanto a lui e Anna Clara che già aveva smesso di piangere e anziché fermarmi perché non piangeva più sono uscita, ho preso il vialetto di ghiaia e aperto il cancello. L’ho richiuso dietro di me con troppa irruenza, ma già stavo meglio, già riuscivo a respirare, ho aspettato di essere lungo il fiume e allora ho infilato la mano nella tasca del cappotto e l’ho toccata, era lì. Mi sono detta che sarebbe stato meglio comunque aspettare, era più prudente, e così ho fatto, ho camminato fino alla spiaggetta, qui mi sono tolta le scarpe, dovevo bagnarmi i piedi, è l’unica cosa, appena ho infilato i piedi in acqua sono stata meglio anche se ancora potevo sentire il pianto di Anna Clara e vedere la rassegnazione nello sguardo di Cesare. Allora ho tirato su un poco il cappotto, fino alle ginocchia, e ho camminato con l’acqua che mi arrivava ai polpacci e dopo molto camminare sia il pianto che lo sguardo erano del tutto spariti. Così mi sono fermata, ho frugato in tasca e ho preso la collana: alla luce dell’alba la giada aveva delle venature di ruggine che non avevo mai visto, l’ho messa. Uscita dall’acqua ho sfregato i piedi nella sabbia, ne ho presa una manciata e me la sono passata sulle gambe per farle asciugare, ho riso perché avevo gambe bianchissime adesso e chissà se i capelli erano ramati, non avevo niente con cui specchiarmi, ero uscita di casa così, senza borsetta, come una che esce un momento, solo che ho camminato prima fino al fiume e poi fino all’olmo. Qui ho aspettato, ma non avevo niente da aspettare perché lui non poteva sapere che ero lì, per saperlo avrebbe dovuto sentirmi, ma io avevo fatto piano, nessun rumore, o vedermi, ma l’olmo era almeno a venti metri, anzi di più, cinquanta, credo, dalla casa. Allora dovevo decidere se fare qualcosa per farmi sentire o vedere e alla fine mi sono detta di no, di non fare niente né per farmi sentire né per farmi vedere. Basta un pensiero che vola nell’aria. E così sono rimasta appoggiata all’olmo, la schiena contro la corteccia, aspettando immobile che lui capisse e arrivasse, chiedendomi come sarebbe stato rivedere quei suoi occhi grigi o trasparenti a seconda della luce e quella bocca di denti storti, sentire di nuovo quel suo odore di cane. Poi ho smesso di chiedermelo e anche di sperarlo per potermeli solo immaginare, quei suoi occhi e quella sua bocca di denti stortissimi, chissà da dove gli arrivano, da quale madre o padre o antenato, e sono rimasta lì a figurarmelo alla finestra, appena sveglio, a pochi metri da me, quanti non saprei dirlo alla fine, e la mia schiena era ormai corteccia e la mia mano sgranava la collana una pietra alla volta, e a ogni grano di quel mio rosario mi dicevo vieni, no non venire, corri subito qui, no, correre non sarebbe da te, capita, no, non capitare, arriva facendo qualcosa che già dovevi. Ma se fosse arrivato cosa mai avrei potuto dirgli, che stavo solo riposando, prendendo fiato, che ero stanca e così ho camminato prima fino al fiume e poi dentro l’acqua e poi fino a lui? No, c’era da sperare che non lo facesse, che non arrivasse, perché non c’era nessuna scusa plausibile, nessun pretesto valido, lo sapevo bene, e tuttavia continuavo a restare, ad aspettare di sentirlo arrivare, di sentire quel suo odore di cane. Mi sforzai di riprodurlo nella mia mente, ma non riuscivo, e allora infilai una mano nella terra, scavai con le unghie e le annusai, ma la terra non aveva il suo odore. Adele, come sei sciocca. Mi voltai e percorsi con lo sguardo il profilo della casa dei frati: una cascina senza poesia, costruita solo per stare in piedi, prima non me ne ero mai accorta. Sollevai una mano e mi accarezzai il collo, chissà se dalla finestra lui mi poteva vedere, il solo pensiero mi faceva sorridere. All’ombra dell’olmo era violenta e dolcissima la malinconia del suo non arrivare. Intanto il pianto di Anna Clara era sparito del tutto, lontanissimo ormai, restava un suono verde, di clorofilla, e io ero di nuovo Adele.