Il figlio sbagliato

di Daniele Israelachvili

Sono da poco passate le otto quando la porta di casa si apre. Non fa in tempo a riprendere fiato che il figlio si sta già arrampicando sulla sua gamba. Dopo avergli messo il ginocchio in faccia si dà una spinta e oplà, eccolo sulle sue spalle.

Hanno appena iniziato ad andare al galoppo, in giro per la casa, quando lei esce dal bagno. È completamente nuda, a parte un asciugamano che le avvolge i capelli. Prima di entrare in camera li guarda di sfuggita, giusto il tempo di dirgli di metterlo giù perché è in castigo. Anche dopo essersi abbassato per farlo scendere, dalla camera continua ad arrivare la voce di sua moglie, come un mugugno continuo, incomprensibile, ma lui sta già pensando ad altro. Ancora una volta lei ha in testa il suo asciugamano, anche se sa benissimo che lui non sopporta quando, dopo essersi asciugato le mani, quei lunghi capelli gli rimangono attorcigliati tra le dita. Forse un giorno si lasceranno per un motivo banale come questo, pensa. E sorride, come se si trattasse della vita di qualcun altro.

Il figlio grida: Veni papà, veni giochi nani. Papà arriva, risponde lui dal salotto, mentre si toglie le scarpe. Alza la testa e se lo ritrova accanto con sette nani di plastica, alti come un bicchiere, stretti tra le braccia. Lo sai che papà prima di venire a giocare deve togliersi i vestiti. Papà ciuff–ciuff! gli ribatte mentre corre avanti e indietro perdendosi per strada Gongolo. È convinto che il padre trascorra le giornate guidando il treno perché ogni mattina, prima di lasciare il figlio all’asilo, la moglie gli dà un passaggio in stazione e un po’ per gioco, un po’ perché lui odia fare il pendolare, gli ha lasciato credere che quello sia il suo lavoro. Così forse, quando non sono insieme, ogni volta che sente passare un treno, penserà a lui.

È pronto! ordina la mamma dalla cucina. Smettono di giocare e il padre lo porta a lavarsi le mani. Una volta davanti al bidet vuole fare da solo, ma riesce soltanto a schizzarsi del sapone liquido sui pantaloni e a bagnarsi le maniche della maglia. Il papà allora lo sveste, passa i vestiti a terra per asciugare e lo accompagna in camera a cambiarsi.
Mentre sono a tavola lo guarda, seduto nel seggiolone con il cucchiaio in mano, tutto concentrato sulla sua pastina e solo in quel momento gli torna in mente la bambina.

Se dopo alcune fermate non si fosse andato a sedere, vedendo che si era liberato un posto, probabilmente non avrebbe neanche incrociato il suo sguardo. Occhi parcheggiati in doppia fila, in attesa che qualcuno torni a spostarli. Una specie di collare di metallo le teneva su la testa mentre le mani sembravano abbandonate, come naufraghi, su un vassoio trasparente fissato alla carrozzina. Mani che non avrebbero mai potuto sollevare un cucchiaio.

Non riuscendo a sopportare quei due occhi fissi su di lui, si era girato per guardare fuori. Poi, pensando che fosse come ammettere che gli facesse pena, si era voltato nuovamente e le aveva sorriso. Nessuna reazione, solo un viso muto e la spiacevole sensazione di sentirsi un idiota, come chi si accorge dallo sguardo di un passante di parlare da solo. Così si era messo a osservare i genitori. Vestita di nero e con i capelli nascosti da un velo, la madre non la finiva di parlare, mentre il marito le sedeva accanto in silenzio, enorme e immobile come una grande pietra. Dopo un po’, come se un incantesimo l’avesse riportato in vita, si era animato e aveva allungato una mano per pulire la bocca della figlia. 

D’un tratto aveva sentito il bisogno di prendere aria. Così, mentre i genitori si preparavano a scendere, non aveva potuto a fare a meno di alzarsi e, nonostante mancassero ancora due fermate alla sua, si era ritrovato sulla banchina insieme a loro. Dopo avere incrociato lo sguardo del padre si era acceso una sigaretta, giusto per sembrare occupato. Poi tutti e quattro si erano avviati. 

Arrivati davanti a un portone, dopo aver messo una mano nella borsa, la madre aveva tirato fuori un mazzo di chiavi. Poi il padre aveva girato la carrozzina ed era entrato di spalle, lentamente, come se fosse sul ciglio di un burrone. L’ultima cosa che era riuscito a vedere, prima che il portone si richiudesse, era la donna che saliva le scale.

Sarebbe voluto entrare ma non poteva, e poi a fare cosa, si era chiesto, e allora era rimasto lì, immobile, a domandarsi come avrebbe fatto il padre a portare su la figlia, se nel palazzo c’era un ascensore o se era costretto ogni volta a prenderla in braccio. Sapeva che doveva rientrare a casa, dove l’aspettavano per cena, ma non riusciva a separarsi da lei. Era come se avesse paura di dimenticarla, sotto il peso della quotidianità, come uno qualsiasi di quegli articoli di cronaca nera che gli toccava scrivere per vivere. Si era seduto a terra, appoggiandosi al fianco di una macchina, trascinato via da una catena di pensieri, fino a quando, alzando lo sguardo oltre le case nel punto da cui sembravano giungere quei rintocchi, si era chiesto se Dio non avesse sbagliato a mandarci il figlio, con le sue parabole e i miracoli, al posto di quella bambina. La figlia di Dio che non parla e ci osserva in silenzio. Lei sì, così simile al padre. Un mondo dove al posto delle croci e delle scritte in latino avremmo avuto milioni di bambine, sedute su una carrozzina, che ci fissano, con il loro viso muto e le mani senza vita, dai tetti delle chiese, dai muri delle scuole, mentre dondolano dagli specchietti delle macchine; bambine con un collare di metallo in attesa di una preghiera, al buio nelle tasche dei portafogli, o al freddo lungo i sentieri di montagna…

Un rumore lo aveva fatto trasalire. Poco dopo era uscita dal portone del palazzo una signora, con un cagnolino in mano, che aveva fatto solo pochi passi per poi tornare indietro a domandargli se stesse bene. Lui si era alzato, aveva sollevato la borsa e, una volta sfilato il cellulare dalla tasca per vedere l’ora, aveva abbracciato con lo sguardo, per l’ultima volta, le finestre del palazzo, le case attorno e poi di nuovo su, fino al campanile della chiesa, prima di incamminarsi e, solo dopo aver girato l’angolo, si era messo a correre.



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