Vite

di Grazia Palmisano

Illustrazione di Chiara Romagnoli

Pioveva. Piove sempre quando incontro qualcuno che mi rovinerà le giornate. Ma si rovinano in ogni caso, anche col sole. Tu sole non eri. Vite su vite e giri infiniti. Parlavamo, l’aldilà, l’al di qua, il presente, il futuro, spin rotazione atomo ione, sentivo l’ascensore poco lontano da noi, parlavamo, gli altri salivano e scendevano, noi fermi, io giravo.
Uno pneumatico gira e ci annoda, ci fa scivolare sul lastricato tempio del bere in compagnia. Oggi ho solo il battistrada che mi sfinisce con l’impronta di un te che nemmeno so cosa sia, o dove sia, fra gocce di uva fermentata. Abbiamo provato a incontrarci, eri arrivato di corsa, quattro ruote, una carrozzeria, l’auto nuova di zecca. Io scendevo da un pullman.
Un inizio di fiamma, una fine da freezer. Aria terra sole pietra, gira intorno il mio bel mondo.
Mi frana la testa, mi si squamano i pensieri, si frantuma il decimo incanto del tramonto. Dieci giorni è durata. Anche tanto, non ci si crede. Di solito due ore mi bastano per dire fine, stop, grazie tante, arrivederci a mai più. Ma come si dice, tu eri tu, un velo di splendore. Che cazzo di romanticismo. Sai che cercavo in te? Niente, proprio niente, ma in me cerco e non trovo e penso ogni volta che un altro, chissà, vedrà sentieri di me e me li indicherà. Finisce invariabilmente in passeggiate con la mia ombra, su catrame scrostato, fra buche e marciapiedi affollati. Così tanti mi sfilano accanto, affogo nel niente, non mi vedono, la mia pozione ha un’efficacia precisa, acuta, puntigliosa. Svanisco nei bus, nelle corsie dei supermercati, nelle code agli sportelli, mentre supero un cane più solo di me, bloccando un tornello con l’abbonamento che ha il microchip smagnetizzato.
Non c’è niente di sbagliato in loro, in te, in quel battistrada, è solo che la mia vite gira senza fine, è difettosa all’origine. Non tiene insieme né il compensato né il ferro, è una vite di acciaio pressofuso ma lo stampo non serviva per quello. Scappai da lì e dove sia finita lo volevo sapere da te, dalle tue quattro ruote a velocità folle in autostrada, dalle tue mani sul volante e dalla musica paralizzante che ascoltavi. Io la subivo, mi scaraventava contro  il sedile, mi sezionava sciogliendo i miei ghetti di sughero. Diventavo di latte, scappavo dal sedile, finivo sul tappetino. Tu frenavi, e vedevo l’autogrill. Prima di uscire ti spettinavi, spazzolavi i capelli per scompigliarli, non ti piacevano le cose ordinate, dicevi. Bevevo il caffè e diventavo un cappuccino, morbido e goloso, come piaceva a te. Alfredo, ti chiamavi così, e io quando ti conobbi subito pensai alla canzone di Vasco, colpa di Alfredo. Aveva ragione lui, è colpa tua, correvi troppo, non si guida in quel modo, troppo veloce per poterci davvero schiantare ed è finita che siamo arrivati al casello. Sani e salvi.
E’ colpa tua se adesso la vite gira troppo, si è spanata, niente è più correttamente sbagliato come prima, adesso non capisco più gli errori, non riconosco più le falle, mi sono persa in un noi fessurato di ruggine liscia.
Io e la vite, conosco, capisco. Ma noi non lo so, rumori, dolori, crepacci, bordi sfilacciati, suole deformate, gambe accavallate, denti otturati, noi, due cose diverse.
Il problema è la guida, quel filetto un po’ storto, in obliquo, un’unica cosa da fare.
Ora giro e ti vedo, non sei tu, ma ti vedo. Ritornello infinito di negata presenza, giocoso terrore seghettato sui bordi.
Una rosa di pece sta girando da ieri, tra un cestino ed un vaso, non sa dove posarsi. Ora ha scelto il mio marmo e riposa con me. Oggi splende un sole gagliardo. Quell’uomo è tornato, anche oggi sta cercando di sistemare quella lettera che continua a cadere. Anche oggi posa il giravite senza essere riuscito ad aggiustarla. Si legge Ana, ma ero Anna.



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