Numero 64 – Gennaio/Marzo 2021

Pellegrino nel deserto

Voce di uno che è  stato in viaggio per il mondo ed è tornato  a Mistrana dopo molti anni.

Di Stefano Zampieri

Che cosa c’è che sale dal deserto

Come una colonna di fumo,

esalando profumo di mirra e d’incenso

e d’ogni polvere aromatica?

[Cantico dei cantici, 3, 6]

 

Strada perigliosa lungo deserti inesplorati e sentieri insicuri, vie che pochi conoscono, tratturi, percorsi poco battuti. Andammo tre giorni, tre mesi e tre anni. E ancora…
Carovana scompagnata di pellegrini. Si va via in gruppo per farsi coraggio per dividere il tempo e lo spazio.
La strada per l’Oriente è un lungo deserto. Noi trovammo cammelli e cammellieri e riempimmo le nostre otri d’acqua e caricammo gli animali mettendoci per via. Camminammo tre giorni, tre mesi e tre anni senza trovare né acqua né un albero. I cammelli non bevvero, bevvero solo i tre asini ai quali demmo l’acqua degli otri. Soltanto allora giungemmo alla Fonte di Moises dove una misera pozza dissetò i nostri cammelli, che ne avevano gran bisogno, perché il paese è caldissimo e il sole pareva che ardesse quella sabbia. E non è meraviglia che vi sia gran caldo perché lì non piove mai. I cammelli si dissetarono bevendo forse più di un barile d’acqua ciascuno.
Al sorger del sole ci rimettemmo in cammino e desinammo senza fermarci perché quegli animali prendono di mira certe alture e vi si dirigono quasi a occhi chiusi come farebbe un buon pilota per mare, senza fermarsi mai.
Questi cammelli, che sono quasi selvatici, non vengono mai sollecitati con grida e punture perché camminino più forte, ma soltanto una certa nenia che cantano i cammellieri giova a far loro misurare il passo.

Questo deserto è una lunghissima, sterminata pianura circondata da una fila di montagne che lo chiudono al mondo e lo costringono dentro i confini di una carta geografica troppo grande per essere disegnata. Nessuno ha mai tracciato la strada per l’Oriente. Si va per intuito. Si segue qualcuno, di volta in volta, ci si fida di quelli che tornano, di quelli che ci sono stati, di quelli che dicono di esserci stati. Ci si accontenta dei racconti di quelli che hanno già fatto qualche tratto di strada e sanno muoversi almeno da qui a lì, poi si cercherà qualcun altro.
La strada per l’Oriente è una terra sterile, che non dà frutti, né alberi, né erbe. È una via di sassi per distese infinite. E spesso sono pietre focaie che solo a camminarci sopra fanno scintille. Talvolta si incontra anche un terreno più solido coperto da uno strato di polvere e sabbia. Altre volte si trova solo sabbia come di fronte al mare, ma il mare è infinitamente lontano. Ed è difficile anche camminare, a piedi o in groppa ad un animale, perché si sprofonda su quella superficie insicura. Il vento muove continuamente la sabbia e la sposta in un luogo o in un altro, così che anche la strada muta continuamente e non sai mai se di lì sei già passato o ci passi per la prima volta o ci ripasserai domani.
La via per l’Oriente è una terra sterile e disabitata. Priva d’acqua e d’ogni vestigia umana, solo vi si trovano pellegrini che vanno per il loro viaggio. E quando si incontrano si confortano l’uno con l’altro.

In questo deserto si trovano carovane di cammelli carichi di spezie che dall’India molte volte l’anno vanno al Cairo.

In questo deserto non piove mai e si hanno di continuo grandi caldi d’estate e d’inverno, arsura e calura che offendono il pellegrino e lo bruciano in volto e sulla cervice e sulle spalle e su tutte le superfici esposte.

La terra di questo deserto è sterile. Grandi sassi escono dalla superficie sabbiosa smisurati tanto da parere case ed ingannare talvolta il viaggiatore che da lontano crede di incontrare vestigia umane e invece è solo. Solo tra i sassi neri e cotti dal sole come se fossero stati in una fornace e talvolta spaccati per un verso o per l’altro, scoppiati per il caldo grandissimo e rovinati giù lungo i fianchi scoscesi delle montagne.

E noi s’andava per questo deserto a dorso di cammello o di asino, con basti capaci e staffe di funi. Ogni mattino che ancora non era sorto il sole ci alzavamo e legavamo i tappeti su cui dormivamo sotto le tende, ed ogni altro arnese e caricavamo ogni cosa sui cammelli o sugli asini e ci mettevamo in marcia e andavamo per tutto il giorno fino sera.

La mattina, sempre andando in questo modo, a piedi o a dorso di cammello, mangiavamo e la sera facevamo il campo e scaricavamo le nostre bestie e le nostre cose e alzavamo un riparo di tela alto tre braccia e lungo che almeno sei di noi ci potevano stare distesi. E tutta la notte, quando dormivamo, qualcuno faceva la guardia, per paura dei cammellieri che erano con noi, ma prima ancora erano dei predoni.

Il nostro alimento nel deserto era un biscotto assai cattivo che acquistammo ad Alessandria, ed avevamo uva secca e susine e formaggio. E avevamo con noi alcuni polli che ogni due o tre giorni ne cucinavamo e mangiavamo la sera il brodo e la mattina le carni fredde. Avevamo due barilotti di vino acetato che ogni tanto sorseggiavamo. E portavamo zucchero e un po’ di confetto e mandorle secche e riso.
Acqua ne avevamo poca e cattiva e per quanto la si mettesse buona negli otri, subito prendeva il sapore di quelli e dell’unto del cuoio e ne usciva piena dell’odore della bestia con la quale l’otre era stata fatta.

Eravamo da tre giorni, tre mesi, tre anni, nel deserto volgendo il viso a tramontana e tutto era vuoto e sterile. Lì trovammo piante di spine lunghe quanto il dito d’una mano, appuntite come una lesina, dure che sarebbero capaci di perforare ogni cosa. E proprio lì fummo fermati da saracini a cavallo e a piedi con cani feroci, quasi andassero a caccia e costoro, fingendo d’essere ufficiali dell’impero vollero vedere il nostro salvacondotto e subito portarono i nostri cammelli giù della strada e tolsero panni e mantelli e cappelli e cera e altre cose. Soltanto a prezzo d’un lungo riscatto potemmo riprendere parte delle cose nostre pagando una bella manciata di denari.
Capimmo chiaramente che quella ruberia era stata ben organizzata dal saracino che ci faceva da guida. Perché il giorno prima quel furfante era sparito e noi eravamo finiti fuori pista per più miglia salendo e scendendo terreni di sabbia morbida. Poi la mattina prestissimo avevamo trovato di nuovo la nostra guida che per farci tornare sulla strada giusta ci aveva portato per quel sentiero di spine ove eravamo stati derubati.

Forse quella ruberia era nata a seguito di un fatto accaduto poco tempo prima, quando un cammello era morto per strada e i cammellieri saracini dicevano che era morto a causa della fatica e delle giornate troppo lunghe di cammino che noi avevamo voluto comandare alla compagnia.
Ma forse si trattava invece di una pratica abituale che non avrebbe dovuto stupirci in alcun modo. Perché per sua natura il deserto è pieno di insidie.
Trovammo guardie reali ed esattori dell’imperatore, gabellieri e doganieri, pagammo le ammende ed accettammo ogni ricatto perché diversamente non avremmo potuto fare.
Trovammo gente balorda, gente che viveva di rapina. Gente in divisa o gente in miseria, alquanti si sfogarono sulla nostra modesta carovana. Nessuno si arricchì. Tutti si accanirono. Ma la strada per questo deserto è una strada pericolosa. Nessuno ti costringe a percorrerla e se la percorri lo fai a tuo rischio e pericolo.

Una mattina, camminando per il deserto trovammo un largo greto asciutto e ghiaioso, di diversi colori e molte pietre nere e lucide, altre rossicce come corniole. Ne raccogliemmo numerose.
L’indomani stesso sentimmo da certe alture che stavamo attraversando che venivano alte grida e vedemmo gente che veniva verso di noi correndo sulle sabbie ripide. Era gente quasi nuda e senza armatura, che sollevava una povera lancia sottile ed erano magri e smunti che parevano la morte stessa.
Dovemmo dar loro un poco del nostro biscotto ma si accontentarono e se ne andarono via.

Ancora oggi i monaci del deserto accolgono volentieri i pellegrini, in una saletta spoglia e disadorna e presentano loro del pesce salato del Mar Rosso e datteri ed una mezza misura di vino. Di più non hanno.
Ma d’altra parte la vita loro è aspra ed estrema: un pane al giorno, di grano mescolato a biada e mal cotto, poi dell’acqua chiara e buona e due volte la settimana una scodella di legumi con l’olio e pesce salato. Vino non ne bevono, né mangiano carne, né dormono sul letto, ma in terra sulle stuoie.
La più parte del tempo la passano a pregare e vivono di elemosine che fanno loro i pellegrini. Il vestire di questi monaci è un panno grossissimo e paiono alla vista devoti e santi uomini, di gran penitenza, di grande astinenza e bene mortificati in faccia.

Salimmo un monte e giungemmo così presso un bellissimo giardino riccamente affruttato d’olivi, datteri e fichi. Da una fontanella nella roccia scaturiva poca acqua, bastevole tuttavia a fare verde di vita e rigoglioso quel luogo, ove, scoprimmo, aveva esalato l’ultimo respiro un santo eremita.
Ci sedemmo all’ombra e ci togliemmo gli abiti per rinfrescarci un poco con foglie di palma riempite d’acqua. Lo spirito del sant’uomo aleggiava ovunque ed ovunque se ne sentiva l’influsso benefico.
Anche noi poveri viaggiatori senza virtù ne restammo piacevolmente impressionati.
Di lì pigliammo un altro sentiero che attraverso rocce gialle e rosse come pietra focaia portava ad una bassa sommità sulla quale si trovano pietre arse dal sole che a spaccarle lasciandole cadere si scopre che dentro vi è figurata una palma, o un pesce o una foglia e ci si chiede come sia possibile un simile artificio. Eppure è proprio intorno a quella sommità che si percepisce un profumo dapprima sottile sottile poi sempre più vivo, che il vento porta via subito, lasciandolo solo il tempo di essere percepito dalle nostre nari. Proprio qui vi è il sasso liscio e duro dove Maria visse tanti anni e che per quanto duro, miracolosamente si adattò al suo corpo scheletrico di santa solitaria e ne prese il calco come fosse stato di morbida cera.

Con martello e scalpello prendemmo alcune delle pietre che circondavano quel luogo, perché avevano fama di guarire dalla febbre, ma nessuno ebbe il coraggio di spiccare un solo frammento al sasso che servì da giaciglio alla santa.

E poi ancora via per tre giorni e tre mesi e tre anni in quel deserto. Incontrammo certi pellegrini come noi che non ci rivolsero la parola. Altri che avrebbero voluto far carovana insieme ma noi non ci fidammo perché avevamo sentito che di notte magari sgozzavano i loro ospiti per depredarli.
E poi tanti lì viaggiano mascherati. Alcuni si travestono da mercanti cristiani, quando non da preti. E certi si mettono in testa i turbanti bianchi dei turchi.
E le donne si vestono da maschi con lo spadino al fianco perché temono ad ogni incontro di mettere a repentaglio la propria natura.

Lungo la strada del deserto che porta ad Oriente vi è una città, che davvero è un unico grande mercato. Potrebbe apparire incredibile a chi non l’avesse visto coi propri occhi quale grande dovizia di venditori e d’artigiani vi sia in tutta la città. Nei quartieri non vi è più una sola spanna di terra che non sia una bottega e lì trovi ogni sorta di cosa che si possa domandare o desiderare, le cose più belle del mondo e i più ricchi lavori che se avessi i denari nell’osso della gamba te la romperesti per comprare almeno un poco di quelle cose straordinarie.

Vi si fanno grandi drappi di seta d’ogni tipo e d’ogni colore e una grandissima quantità di teli finissimi e luccicanti e setosi.
Vi si fa grande quantità di bacili e brocche d’ottone che sembrano d’oro e sono tutti battuti di figure e fogliami e altri sottili lavorii.
Vi si raccolgono file sterminate di vasi di coccio carichi di spezie, zafferano e peperoncino, e pepe e noci moscate, e cannella.
E vi si incontrano i venditori di profumi, e di certe erbe selvatiche da farmacia, ed altre coltivate da meditazione, e vi si offrono strane miscele che non si sa spiegare e polveri masticate che profumano d’incenso.

Di tutti i mestieri qui trovi grandi maestri e le loro botteghe sono bene ordinate, nette e pulite, accalcate di mercanzia e quanta più ne vendono più sono rifornite perché pieni sono i magazzini e le loro stesse case.
I mercanti di passaggio che qui giungono di lontano, restano senza fiato e senza parole e non saprebbero elencare i mestieri e le merci e la moltitudine e la ricchezza che vi si mette in mostra. Resterebbero muti, affascinati e carichi d’invidia.

Sulla piazza del mercato si fanno talvolta strani incontri. Noi quel giorno trovammo l’uomo fortissimo. Ed era davvero fortissimo. Poteva spezzare con un gesto secco delle mani il gambetto della pecora, ma se voleva rompere l’osso lungo della gamba del cammello allora se lo sbatteva sulla testa. E sollevava una pietra pesantissima gettandola fra la gente con gran scompiglio.
Volendo poteva mettersi un uomo piccolino in ginocchioni sul collo e due a cavalcioni sulle spalle e altri due ancora afferrare sotto le ascelle e così conciato volgersi intorno come una trottola impazzita.
Poteva raddrizzare con le mani un ferro di cavallo e battere con la testa una caldaia di rame fino a schiacciarla tutta. E se voleva alzare un cammello saliva su una pietra e afferrava l’animale con gancio e catene, sollevandolo così per diversi palmi da terra, mentre un suo assistente spostava il cammello dondolante di qui e di là.

Grandi meraviglie si potevano vedere sulla piazza di quel mercato. L’infinita varietà del mondo.
Ma lì noi siamo sempre e comunque di passaggio, pellegrini verso Oriente. Ci fermiamo un poco, ammiriamo quanto si può ammirare ma il nostro destino è quello di andare e dopo tre giorni riprendiamo il nostro cammino.

Uscimmo dalla città del mercato e andammo ancora tre giorni e tre mesi e tre anni. Il luogo ove ci trovavamo allora era una schiena di sassi riarsi dal sole e su quella arsura si levava il vento sollevando la sabbia del deserto e scoprendo talvolta certe alture di pietre inaridite che il sole spaccava e frantumava fino a cavarne sabbia ancora. Perché lì non piove mai.
Noi alzavamo il nostro riparo ogni sera e ci acquattavamo là sotto, tremanti di paura ad ascoltare il fischio di un animale, il tremolio di un passo vicino, il sussurro di una notte troppo buia.
Troppo buia la notte nel deserto per chi come noi è vissuto sempre alla luce della città. Non si può immaginare la notte senza luce, e il chiarore nero delle stelle che appare come un altro mondo mai visto sotto il quale non siamo mai stati, perché non è il percorribile spazio dell’occidente ma il luogo vuoto dell’anima.
Troppo buia la notte nel deserto.
Ogni mattina prima ancora che sorgesse il sole, ci sentivamo gli occhi e le orecchie pieni di sabbia e non avevamo quasi mai acqua da lavarci il viso.
Nei rari posti dove si trovava una sottile lama d’acqua scintillante al sole, crescevano certe erbe di colore bianchiccio e un fiore giallo e con queste si faceva il fuoco la sera quando si cuoceva, e di queste si nutrivano i cammelli.

Per questi luoghi vedemmo certi animali come caprioli e altri come lepri ma più piccoli, e istrici e una specie di lupo che si ciba di essi e dei pellegrini che muoiono nel deserto.

Perché nel deserto si muore anche. Certi nostri amici sono morti, nei posti più disparati. Lungo questa strada. Certi dopo tre giorni, altri dopo tre mesi, altri ancora dopo tre anni. Non sono mai arrivati. Si sono persi per strada e sono stati mangiati da quegli animali simili ai lupi.
Lì come qui la morte è sempre in agguato. E ce la meritiamo sicuramente perché ci prende e non fa sconti mai a nessuno.
Si vede ai bordi del sentiero. Ora un osso, ora una mandibola, ora un teschio intero. Per fortuna non sai distinguere immediatamente l’osso dell’uomo da quello dell’animale e ti convinci che si tratti soltanto di bestie che sono morte di sete perché se sapessi che anche quelli erano pellegrini come te forse lasceresti il viaggio e torneresti indietro.

Solo pochi arrivano in fondo. Non i migliori, non i peggiori. Quelli che non si sono perduti per strada. Gli altri non li ritroverà più nessuno perché dopo tre giorni, tre mesi, tre anni, delle ossa resta soltanto il bianco confuso nell’abbacinante soleggiare di quel deserto. E il resto è portato via dal tempo, dalle belve, dal sole, dal vento, dalla sabbia, dalla sabbia, dalla distanza, dal vento, dal vento…

Ho camminato tanto, ho sofferto la sete, ho i piedi massacrati, il volto bruciato dal sole, e non sono ancora arrivato…



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