Smuntaluna
di Lorenzo Nord
Lunedì. Sono seduto sulla verde panchina, la solita. Il ragazzo che accompagna la nonna mi ha regalato un foglio e ci ha scritto una «Bella storia», gli dico.
«Ne ho scritta anche un’altra, ispirata al nostro primo incontro», dice lui. «Ė molto breve».
Mi porge un altro foglio: leggo. Sono io il protagonista.
Nel momento in cui il vecchio ricapitola i fatti della propria vita, una lacrima gli crolla sulla pelle rovinata. Se qualcuno domandasse le motivazioni della sua tristezza, egli replicherebbe come i bambini che lui fu mai, cioè i capricciosi: perché di sì. Ma il vecchio tace, tossicchia, mugugna alla gente. Il traffico di chi parcheggia anziani in quella struttura è costante e lui li mal sopporta.
Riemerge dal suo malumore quando esce il nipote d’una nonna. Discorre con l’amata al cellulare, ma d’un tratto s’interrompe: il cielo s’è popolato di puntini nerastri. «C’è uno stormo di rondini», dice il ragazzo all’amata.
Dal canto suo, il vecchio sa che quelle non son rondini. Vorrebbe chiarirlo al giovane, ma il verbo già s’è mutato in un avrebbe voluto e il ragazzo s’allontana.
La giornata è rischiarata. La luna è piena, già scorgibile alle due del pomeriggio.
Di nuovo lo stormo attira l’attenzione: s’alzano dai rami, descrivono ovali volando, poi tornano sugl’alberi, ridisegnano forme, ritornano sugl’alberi e così via.
Il giovane rientra.
Il vecchio ammira il prato perfettamente falciato. Frontale a lui, un alberello dal tronco finissimo, protetto da pini e cespugli. I rami di questi s’intrecciano, disegnando una forma che raramente si scorge in natura. Il vecchio la fissa intensamente, quand’ecco: dal triangolo, sul trenino d’una giostra, fuoriesce una moltitudine di visi, che lo salutano ridendo. Salgono e risalgono, fin sulla punta degl’alberi, sul cielo grigio e brillante, sulla fotografia di una memoria.
Che stupida giornata, pensa il vecchio e poi divaga ancóra, arpionando ricordi.
«Che vuol dire il titolo?», gli chiedo. «Smuntaluna».
«Beh, non è una parola, ma l’unione di due», dice, come se fosse normale unire la Luna a quella roba.
«Cosa vuol dire smunta?».
Il giovane si gratta la testa. «Ė un aggettivo. Significa scarna».
«Tanto magra?».
«Più o meno».
«Ma qui» e punto il dito sul foglio, «hai scritto che la luna è piena, quindi bella grassa». Lo guardo e tamburello l’indice sulla tempia. «Tu sei matto, ragazzo».
*
«In effetti, ha ragione lui», disse l’amata al narratore, qualche giorno dopo, quando lui le raccontò il dialogo avuto col vecchio. «Hai dato al tuo racconto un titolo che contrasta con quanto scritto».
«Ma», si difese lui, «il mio titolo è poetico, è un omaggio a – ».
«Che palle, Antonio. Omaggio o no, ha ragione il vecchio».
«Nessuno mi capisce», si lamentò il narratore.
L’amata, paziente, suggerì: «Perché non scrivi un racconto su come vi siete conosciuti davvero, tu e il matto?».
«Ma sarebbe realtà», protestò lui. «La realtà è noiosa».
Lei allora spalancò le braccia. «Ci rinuncio».
Mezzora dopo, tornò sulla questione. «Cosa ci sarebbe di noioso? Sentiamo», ordinò.
«Beh, che la realtà – ».
«Per carità! Intendevo: sentiamo la storia. Raccontami come vi siete incontrati».
«Preferiresti il banale racconto anziché una dissertazione su come il concetto di fantasia s’inserisce nella realtà?», chiese lui, ironicamente.
La risposta non verbale fu eloquente.
«Ma te l’ho già detto», si lagnò il narratore, comodamente disteso sul divano.
«Beh, non posso ricordare tutto», mentì l’amata.
Lui sbuffò. «Era uno dei soliti giorni da disoccupato. Accompagnavo mia nonna a fare fisioterapia. Mentre lei si faceva manipolare, io mi andai a sedere s’una panchina verde, all’entrata della casa di riposo. All’improvviso, un uomo che parlava da solo si sedette all’altro lato della panchina, borbottando discorsi. Dopo un po’, decise di rivolgersi anche a me:
“Che lavoro fai?”.
“Il disoccupato”, risposi.
“Vai a fare il promotore”, mi consigliò
“Ottimo, grazie per l’idea”.
Mi fece un cenno: “Siediti qui”, cioè accanto a lui. Si accorse che stavo leggendo un libro. Così mi chiese: “Cos’è? Mi basta solo il titolo”. Glielo mostrai. “Roba di chiesa?”.
“No, un romanzo di uno scrittore svizzero”.
“Io leggo solo poesie. Però preferisco i quadri ai libri”.
“Tu disegni?”.
“Sì, prima sì. Adesso no, non ho più la roba. Prima sì. Fumi?”, chiese, offrendomi una sigaretta.
“No, no”.
“Provane una”.
“Ho già provato anni fa”.
“Quanti anni hai?”.
“Ventisei”.
“Io, secondo te, quanti ne ho?”.
Lo squadrai intensamente, più che altro per dimostrargli di non aver timore. “Sessantadue”.
“Sessantatre”, precisò.
Mi scappò da ridere: “Beh, c’ero quasi!” e pure lui ridacchiò.
Poi, serioso, disse: “Ho fatto trent’anni di galera, io”.
“Ah, sì?”.
“Sono uscito oggi e son tornato qui, a casa mia. Vuoi un caffè?”.
“No, grazie”.
“Te lo pago io”.
“No, ti ringrazio, l’ho bevuto prima”.
Restammo a fissare il prato. “Trent’anni. Sono tanti”.
“Cosa avevi fatto?”, gli domandai.
“Io? Avevo minacciato una donna”.
“Minacciato una donna?”.
“Sì”.
“Ti hanno dato trent’anni per questo?”.
“Sì”.
“Ma il tuo avvocato?”.
“Un incapace. Prendi una sigaretta”.
“No, sul serio”.
“Trent’anni… Vuoi venire a casa mia?”.
“Non posso, sono qui ad accompagnare mia nonna”.
“A far cosa?”.
“Riabilitazione: massaggi”.
“Servono a niente”.
“Alleviano i dolori”.
“Fanno niente”.
“Va ben”.
S’avvicinò un altro uomo in bicicletta.
I due si riconobbero e si salutarono. La cosa curiosa, era che il matto parlava all’altro, ma quello rispondeva con frasi senza senso.
Per esempio, ricordo che il matto gli disse che il caffè delle macchinette di quella struttura era migliore rispetto al bar e l’altro rispose: “Mi hanno detto che è stata una bella sagra, ma non sono stato”.
Il dialogo surreale proseguiva tranquillamente e io cercavo di non ridere. A un certo punto, il matto domandò: “Cosa fai qui?” e l’altro non gli rispose. Allora il matto richiese inutilmente per due volte; alla terza alzò la voce. Al che l’altro urlò: “Che cosa?”.
“Ho detto: Cosa fai qui in giro?” e l’altro gli ricordò: “Devi urlare, con me: sono sordo!”».
L’amata, che ricordava perfettamente come si concludeva la storia, ridacchiò di gusto e il narratore con lei.
«Quanto hanno parlato senza capirsi?».
«Cinque minuti, almeno».
«Da quella volta, il matto ti ha preso in simpatia».
«Esatto, per questo ho deciso di regalargli alcuni racconti brevissimi. Non gli sono piaciuti».
«Sei buono», disse lei, cambiando voce, accarezzandogli i capelli. «Sei stato buono a fermarti, a parlare con lui, a tenergli compagnia».
Il narratore – il quale non colse che quelle parole erano fusa di tigre, preludio d’affetto – di scatto s’alzò dal divano. «Mi è venuta in mente una cosa», disse. «Aspetta un attimo, stai ferma lì».
«E chi si muove», sbuffò la ragazza.
Antonio andò in cucina e tornò col cellulare. «Non ti ho mai fatto vedere la foto».
«Quale foto?».
«Quella che ho fatto al matto e al sordo» e gliela mostrò. Di spalle, s’intravvedevano due uomini bassi di statura, che camminavano l’uno a fianco dell’altro.
«Sembrano due amici che vanno a bere qualcosa», disse l’amata.
«Mi fa ridere un sacco ’sta foto. Non so perché».
«Perché sei strano», lo prese in giro lei.
«Grazie».
«Comunque, tu continui a chiamarlo matto, ma quel signore non ti ha più detto frasi insensate, giusto? Quindi forse non è fuori di testa, a parte la storia degl’anni in prigione».
«Forse», convenne il narratore. «Però, con me erano trenta; col sordo, divennero venti». Scosse le spalle. «Deve aver sofferto molto, penso».
«Perché non gli hai chiesto se ci fosse o meno qualcosa di vero?»
«Nella storia della galera? Perché penso che ci sia nulla di vero, Sara. Ė un matto. Ricordi?».
Lei sospirò. «Magari ti avrebbe potuto raccontare una storia interessantissima e tu te la sei persa».
«Che vuoi farci», le sorrise il narratore. «Con questa testa, faticherei comunque a ricordarla. Dopo tutto, ho fatto quarant’anni di galera, io».
«Ma che stupido!», sbuffò Sara.