Numero 64 – Gennaio/Marzo 2021

La pizza fatta in casa

 di Luigi Antioco Tuveri 

Le tue cugine andavano al Kiss, dice zia.
Dopo giorni di pioggia è un sabato pomeriggio di sole che acceca, è marzo, è già primavera e zia fa la pizza. Zio è al campo con mio cugino, la gatta cammina sul davanzale e guarda giù e guarda me e si fa i fatti suoi. Zia impasta. Il tavolo è un lago d’acqua e farina. C’è profumo di lievito. Zia chiede della scuola, degli amici, è dispiaciuta che siano tutti fuori. I miei genitori avevano delle commissioni da sbrigare. Passeranno domani a prendermi. Dormirò qua, non è la prima volta.
Esco, dico dopo aver girato un po’ per casa.
Stai attento, dice zia.
Viale Ungheria è un fiume di cemento solcato dai binari del tram, arginato da sponde di case popolari e giardinetti, abitato da ragazzi di tutte le età. La chiesa ha il campanile appuntito che buca il cielo. Le montagnette sono dietro i palazzi: cassette di frutta bruciate, scalpi di gatti, tappi di birra. Sento ancora, anche oggi, la brezza tiepida che cuce ovatta nelle orecchie. Il Kiss è quasi in Via Salomone. È un negozio di vestiti alla moda, le cugine ci comprano jeans e maglioni. Siamo liberi. Madri e padri non s’appiccicano a noi, ce la caviamo, e percorrere il viale imbattendosi in qualche banda è un tributo minimo. Libertà significa anche essere prudenti. Ho l’età in cui fare a botte è un attimo. La tecnologia, quella che ha portato gli americani sulla luna, è un telefono appeso alla parete, il cinescopio Rai, le auto filo comandate: non ci controlla. Penso che qualsiasi cosa mi riserverà il pomeriggio, per cena ci sarà la pizza fatta in casa. Poi con i cugini faremo casino e ci addormenteremo sudati, col cuore in gola. Loro, in tre, stanno bene, non sono mai soli: litigano, si disturbano, giocano. Essere figli unici è una seccatura, non conosco altri figli unici oltre me. Le famiglie, in questo tempo denso di futuro, si lasciano accarezzare dal vento.
Passo davanti al Kiss e spio nella vetrina: niente cugine. Proseguo verso il campo. Sento le urla e le scarpe da pallone, l’odore del the caldo. M’attacco alla recinzione e vedo zio. È in panchina, si sbraccia, fuma. È il presidente dello Sporting Calcio. Zio è un sacco di cose, è la nostra stella cometa. Guardo la partita e mio cugino corre verso la porta, poi zio tira un calcio al secchio e si alza una fontana d’acqua subito catturata dalla gravità. Distinguo le gocce una a una, rallentano, luccicano contro lo sfondo erboso e una forza superiore s’impegna a farne mia memoria. Sono tornato là dall’oggi. I giocatori sgambettano, scivolano, hanno i calzettoni fradici. Poi l’arbitro fischia la fine. Mi agito per salutare zio che discute con l’altro allenatore, si stringono la mano e arrivano verso di noi confondendosi col pubblico. Mio cugino, maculato di fango, con uno scatto esce dal campo, mi vede e mi saluta stringendo il pugno.
Arriva zio e mi porta al bar. Parla con gli amici del derby, beve l’aperitivo e di colpo compaiono le cugine e altre ragazzine: insieme becchettiamo arachidi, olive, patatine.
Mio cugino arriva dagli spogliatoi con la borsa in spalla. Ha i capelli bagnati, ci sorride. Lo sappiamo tutti: zia sta preparando la pizza. Lo sento anche oggi il suo sapore.



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