Sinatra canta in metro
di Alberto Lucchini
Il treno arrivò in ritardo. Mentre dall’altoparlante della stazione partivano le consuete scuse, io aspettai insieme a parecchie persone che altre parecchie persone scendessero da uno dei vagoni e finalmente salii. In quel caos di ritardi e fiume di gente ero sereno: stavo andando a chiudere un contratto. Un gran bel contratto. Era da mesi che stavo seguendo quel cliente: segretaria, responsabile tecnico, ufficio acquisti e poi finalmente il boss. Parlato con lui, avevo aspettato il consiglio di amministrazione e poi il verdetto: «Venga pure lunedì mattina alle dieci». Quando mi era arrivata la telefonata, ero entrato nel primo bar e avevo ordinato una bottiglia di spumante. «Per chi lo desidera, offro da bere a tutti» avevo detto. Non lo avevo mai fatto prima e il risultato fu deludente: nessuno dei presenti mi considerò, così bevvi un paio di calici col barista ed uscii.
Sul treno, la tizia di fronte a me stava parlando al cellulare di un neonato (probabilmente il figlio) che aveva da tre giorni febbre alta. Al di là dello smartphone intuii si diceva di seguire i consigli del pediatra che sosteneva non fosse nulla di grave. Per la tizia, invece, non era normale e bestemmiava di chiamare il pronto soccorso, il tutto mentre la pianura mi sfrecciava davanti diventando città, e i condomini decadenti della zona a ridosso della stazione diventavano patinati palazzi con banche e vetrate luminose a pochi chilometri di distanza. La campagna elettorale aveva riempito i muri con le solite facce che promettevano la qualunque con slogan ridicoli. Qualcuno aveva anche abolito la povertà.
Arrivato in stazione a Milano mi fermai prima al bar per una veloce colazione insieme a due operai con le giubbe arancioni, poi mi diressi alla metro. Passai vicino ad un tizio mentre cantava “night and day” nello stile swing di un crooner. Era incredibilmente bravo. Sembrava Sinatra, solo più sporco e brutto. Gli diedi qualche moneta. Era un fenomeno. Mi coinvolse talmente tanto che mi sembrava di camminare pure più sciolto mentre attaccava con “you are the sunshine of my life”.
Gli uffici della società dove stavo per concludere il contratto erano in un edificio che si estendeva in lunghezza per quasi un centinaio di metri. Era stato progettato da un famoso architetto che non ricordavo chi fosse, e poco mi importava. Alla receptionist, che ormai conoscevo e purtroppo per me non intimamente, dissi che avevo appuntamento col boss e mi sedetti ad aspettare. Passai l’attesa immaginando di farmela. Mi sentivo il re del mondo. Meglio di Sinatra.
«Prego, può salire» mi disse la ragazza con cui nella mia testa avevo appena fatto l’amore.
Attraversai il corridoio e dentro gli uffici scrutai i dipendenti, tutti cinquantenni dallo stipendio sicuro e col culo fermo davanti al PC per otto ore.
Bussai alla porta del boss.
«Avanti.»
Entrai col sorriso più splendente che avevo.
«Buongiorno» dissi.
«Prego si accomodi, signor Lucchini.»
«Alla reception non mi hanno ricordato il piano ma non ce n’era bisogno. Mi sento un po’ di casa ormai.»
«Ha ragione, non ne potrà più di venire qui» mi fece il boss. «Le chiamo Randazzi così procediamo. Nel frattempo, vuole fumare?»
«No grazie.»
Già a tutti i nostri incontri precedenti gli avevo detto che non fumavo.
«Buongiorno a tutti» disse Randazzi, chiudendosi la porta alle spalle.
«Le altre persone quando arrivano?» chiese il boss.
«Stanno arrivando» rispose Randazzi.
Il boss si accese un sigaro e poggiò i piedi sulla scrivania, mettendo in bella mostra le sue costose scarpe.
Bussarono alla porta. Entrarono tre persone, tutte vestite in nero. Sulla scrivania c’era la copia del contratto, io tirai fuori l’originale.
«Bene, come vi avevo anticipato, per i tempi di attivazione bastano una quindicina di giorni» dissi.
I tre vestiti da becchino si sedettero: due a capotavola e l’altro sulla sedia accanto a me. Mi presentai.
«Non serve» mi interruppe il boss e tolse finalmente le sue costose scarpe dal tavolo.
«Questi signori sanno già tutto. Piuttosto, non le ho chiesto se fuma. Mi scusi la maleducazione» disse.
«Non fumo.»
Avrei voluto sputargli in faccia.
«Mentre firmo il contratto, i miei colleghi le spiegano cosa ci fanno qui» spiegò il boss.
Quello a capotavola alla mi destra si alzò in piedi.
«Signor Lucchini, le farò ora alcune domande» disse.
Io guardai il boss, chino a firmare il contratto: l’immagine mi rilassò. Ritornai sul tizio che mi stava parlando.
«Mi dica tutto.»
«Il suo gruppo sanguigno?»
«Non lo so, dovrei informarmi.»
«D’accordo, ce lo comunicherà in seguito. Ha mai avuto malattie della pelle?»
«No.»
«Ha avuto il morbillo?»
«Sì», ormai gli davo corda. Il boss firmava di buona lena.
«Aids?»
«Direi proprio di no.»
«Ha mai fatto esami?»
«No, però…»
«Li dovrà fare» mi interruppe.
Ero sul punto di mandarlo al diavolo.
«Certamente li farò, le posso però chiedere il motivo di queste domande? È quasi più bravo del mio dottore, lo sa?»
Rimasero tutti in silenzio. Il boss ripose la penna sul tavolo. Avrei voluto strappargli il contratto dalle mani e uscire di corsa.
«Non si preoccupi, sono solo informazioni generiche. Abbiamo finito, vero?» chiese il boss al tizio che mi stava parlando.
«Un’ultima cosa: è mai stato accusato di violenza sessuale contro minori?» mi chiese ancora.
Non risposi, facendo capire a tutti che quelle domande mi stavano innervosendo.
«Va bene così» intervenne il boss.
Il tizio si risedette. L’altro a fianco a me si alzò e uscì dalla stanza. Quello a capotavola alla mia sinistra rimase seduto e si accese una sigaretta.
«Ne vuole una?» mi chiese.
«Non fumo.»
«Dunque» disse il boss alzandosi. Riprese il suo sigaro dal posacenere e si mise alla finestra.
«Signor Lucchini» cominciò. Mentre parlava, continuava a guardare fuori dandomi le spalle. «Le saranno sembrate bizzarre queste domande, però mi creda che sono essenziali. Dobbiamo essere certi.»
«Avete il mio numero di cellulare e la mia mail. E un numero verde a disposizione ventiquattro ore su ventiquattro» spiegai.
«Certo, quello è chiaro» disse girandosi finalmente verso di me.
«Se avete allora bisogno anche del mio gruppo sanguigno ve lo comunicherò senza problemi.»
Sorrisi nascondendo la voglia di ucciderli tutti.
«Perfetto, la ringrazio. Ora, vede, signor Lucchini, il motivo di queste informazioni, come le spiegavo, è basilare per quello che dovremo andare a fare ora.»
Il boss si spostò dalla finestra e si risedette.
Rientrò nell’ufficio il tizio che era uscito poco prima. Teneva in mano un plico di fogli e una penna. Li mise davanti a me.
«Che ne dite se ora facciamo una pausa? Parliamo sempre di lavoro» disse il boss.
«Preferirei terminare il tutto. Chiedo scusa ma ho un altro appuntamento tra un’ora da tutt’altra parte» dissi.
«Capisco. Allora il signor Randazzi le spiegherà tutto. Prego, Mario» disse il boss. «Se nel frattempo vuole fumare può farlo.»
«Non fumo.»
«Sarò molto breve, signor Lucchini» cominciò Randazzi. «Quello stipulato tra noi e la sua società è un contratto che abbiamo valutato di sicuro valore per noi.»
«E meno male devi essere breve! Mario, vai al sodo» lo interruppe il boss scoppiando in una risata esagerata. Tutti gli fecero il coro.
La situazione stava prendendo una piega strana. Dovevo rimanere calmo. Fissai velocemente il contratto appena firmato dal boss, poggiato sulla scrivania poco distante da me. Cercai di restare calmo.
«Certo, vengo al dunque. Quello che ora dovrà fare lei, signor Lucchini, è stipulare un accordo con noi» disse Randazzi.
«Si riferisce al contratto che ho qui davanti a me?»
«Esatto.»
Lo presi in mano.
«Non c’è bisogno di leggerlo ora. Le spiego io di che si tratta.»
Girai lo sguardo dai fogli verso Randazzi. Lo fissai in attesa che riprendesse a parlare.
«Quello che deve fare è uno scambio commerciale. Noi abbiamo acquistato i suoi servizi, ora lei dà qualcosa a noi.»
«È la polis aziendale, funziona così con tutti i commerciali che concludono affari con noi» precisò il boss spegnendo il sigaro nel posacenere.
«Di che si tratta?» chiesi
«La sua anima» mi ripose Randazzi.
Silenzio.
«Non credo di aver capito.»
«È molto semplice» spiegò Randazzi. «Firmando quei fogli, lei ci consegna la sua anima. È un patto fiduciario tra noi e lei, signor Lucchini.»
Silenzio. Lo fissai.
«Continuo a non capire, mi scusi» dissi.
«Vede,» proseguì «questo contratto prevede che lei non debba più pensare a nulla. Lo faremo noi al suo posto. Lavoro, casa, macchina e tagliare l’erba in giardino: lei deve pensare solo a quello. Ce l’ha un giardino?»
«No.»
«Beh, se lo farà. E naturalmente figli. Per il resto, non deve avere nulla a cui ambire, se non accumulare soldi, ed è quello che le permetteremo di fare, come le spiegherò in seguito. A fronte di questo, tutte le sue aspirazioni, i suoi pensieri, saranno in nostro possesso. Una sorta di copyright esclusivo per noi, per cui durante la settimana ci sarà solo il lavoro, mentre nel weekend figli e giardino».
«Se volessi viaggiare?»
«Sarebbe un problema. Diciamo che, nel caso, deve tassativamente farcelo sapere in anticipo. La destinazione, dove mangerà, chi vedrà, insomma tutto. In special modo per i viaggi all’estero. Questo infatti potrebbe causare l’attivazione di quelle che nel contratto vengono chiamate “curiosità attivabili”, e che sono dannose: rischiano di farla pensare, mentre questo dobbiamo farlo noi per lei.
«E col fatto che ogni tanto mi piace scrivere?»
«In che senso? È la prima volta che sento una cosa del genere.»
«Nel senso di storie. A volte poesie.»
Si fissarono tutti negli occhi come se improvvisamente nella stanza fosse entrato uno strano animale mai visto in natura.
«Nel senso di libri?» mi chiese Randazzi.
Ora ero io che fissavo tutti loro come fossero alieni.
«Certo. Non ho mai pubblicato nulla ma…»
«Assolutamente proibito» mi interruppe il boss.
Passai lentamente il dorso della mano sulla guancia destra. Mi ero fatto la barba quella mattina e la pelle era incredibilmente liscia.
«E le vacanze? Lei mi ha detto non potrò viaggiare» dissi.
«Potrà farle, ma sempre nella stessa località» spiegò il boss. «Quelli prima di lei hanno scelto tutti un villaggio vacanze, sempre nello stesso posto e sempre ad agosto. Stessa regione, stessa città, perfino stesso ristorante. Tutti gli anni. Tutto sempre uguale. Per sempre. Da contratto, così si può fare e siamo tranquilli. Possiamo al massimo decidere insieme un paio di posti da inserire, in modo che lei possa scegliere tra quelli. Massimo due o tre, non di più. Ma è un’eccezione, con tutti gli altri non è mai successo. Vero, Randazzi?
«Confermo» disse Randazzi.
«Temo di non poter accettare.»
«È imprescindibile per la chiusura del contratto. È una clausola obbligatoria» disse il boss. «Non gliene ho parlato nei nostri incontri precedenti perché lo ritenevo superfluo. E sa perché? Diglielo tu» fece a Randazzi.
«Siglando quel contratto riceverà mensilmente una percentuale sul fatturato della nostra azienda» mi spiegò lui.
«E sa a quanto abbiamo chiuso l’anno scorso?» intervenne il boss.
Lo sapevo ma volevo me lo dicesse lui.
«Abbiamo per la prima volta raggiunto i cinque miliardi» spiegò.
«Ma che cazzo se ne fa della sua anima?» aggiunse subito dopo e scoppiarono tutti a ridere.
«Se non accettassi?» chiesi.
«Come le ho detto, salta tutto. E sarei molto dispiaciuto, signor Lucchini» rispose il boss.
Li fissai. Li fissai uno ad uno. Erano precisi e spietati, col culo puzzolente e l’alito profumato, pronti a farti a pezzi per un centesimo in più da inserire nel loro fatturato a fine anno.
Non c’avevo mai pensato, ma io ero come loro.
Presi i fogli che dovevo firmare e li gettai sulla scrivania.
«Questi rimangono a voi» dissi.
Il boss mi guardò con un leggero sorriso, poi prese il contratto che aveva appena firmato e lo stracciò. Ne fece una palla di carta, prese l’accendino, mise la palla di carta nel posacenere e la bruciò.
Io non dissi nulla. Mi alzai per andarmene e prima di uscire mi girai l’ultima volta. Mostrai loro il dito medio e sbattei la porta.
Successe una cosa strana: mi sentivo stranamente più leggero mentre camminavo spedito verso l’ascensore. Forse era perché in quel preciso momento ero diverso da quelli là dentro. Da quelli col culo puzzolente e l’alito profumato. Da quelli pronti a tutto per quel centesimo in più nel fatturato. Io che ero come loro. Io che ero loro, in quel momento avevo deciso di non esserlo.
Passai di fronte alla reception e sorrisi alla ragazza.
Appena fuori, respirai a pieni polmoni. Mi misi a passeggiare per un po’ senza meta. Mi sentivo leggero e stranamente euforico. Poi mi diressi alla metro
Chissà se facevo in tempo a sentire Sinatra.