Numero 63 – NOVEMBRE/DICEMBRE 2020

Rêverie normande

di Isabella Bignozzi

Nei cieli sopra le città deserte, nelle albe assorte e silenziose, ci sono angeli malinconici che scendono dai loro pinnacoli, si posano con la fronte alla nostra tempia, ci parlano all’orecchio.
Nei viali alberati che odorano d’autunno, nella luce dorata e obliqua della sera, le ombre si allungano nitide, soffici, e le foglie cadute fanno mulinelli al vento.
C’è una casa sontuosa e spenta tra gli alberi, a un passo da un ruscello scuro che scivola tra le rive, prende la forma delle sue rocce. Nel grande salone abbandonato, il lampadario è una cattedrale di cristallo, gli arazzi alle pareti sono fiabe sbiadite; la luce è un’ala di polvere sui tappeti consunti, il pavimento è ruvido come il ponte salato di un vecchio vascello.
Lei siede con la schiena diritta, ha i capelli raccolti, le mani sottili. Dal vecchio pianoforte estrae note come perle d’acqua, la melodia è un vapore che si scioglie nell’aria.
Quando si alza, ha negli occhi fondi di vulcani, e grotte sotto il mare; e scontri di pianeti, e bandiere di sangue, e millenni gelidi e bui; e salotti di raso e porpora, e scarpe di vernice, e fiori tra i capelli; ha negli occhi le divise a righe, i cumuli di morti; i capelli rasati, le baracche nella neve sporca.
Lungo il viale alberato la ragazza cammina e ascolta il respiro del ruscello; lo guarda a lungo, posa le mani sui cordoni della passerella…Continue reading


Il casinaccio

di Edoardo Sanzovo

Roby doveva aspettare sempre almeno un minuto dopo aver suonato il campanello. Seppur non lo potesse vedere, s’immaginava suo nonno, il signor Dino, alzarsi con molta calma dalla sua amata poltrona, appoggiare sul tavolo il libro che stava leggendo e spantofolare con lentezza in direzione della porta. L’ingresso di Roby, insieme alla spesa, portava sempre una ventata di frenesia all’interno del triste appartamentino abitato dal solo signor Dino. Quell’entusiasmo al signor Dino dava un po’ fastidio, lo accoglieva in casa con un grugnito, cui Roby rispondeva sempre con un sorriso, nascosto dalla mascherina, ma ben visibile per le pieghe che assumeva il contorno dei suoi occhi. Poi però, quando Roby, coi suoi modi educati, usciva richiudendosi il portone di casa alle spalle, quella frenesia al signor Dino mancava. Tirava un bel sospiro che voleva essere di sollievo, ma che in realtà era di dispiacere.
La spesa se la sistemava da solo nelle varie dispense, almeno si teneva un po’ impegnato. Era ormai da più di un mese che non andava al supermercato e già da una settimana si era convinto anche a non uscire più nemmeno per la sua rituale passeggiata al fiume. Non era poi così vecchio. Aveva ancora gambe forti e una certa vitalità, soprattutto mentale, ma pian piano sentiva che l’ozio da quarantena andava spegnendolo. Si era riproposto però di riappropriarsi pienamente dell’esterno non appena tutto questo casinaccio, come lo chiamava lui, si fosse risolto: uscire con mascherina e ansia…Continue reading


Tarantasio 1256

di Luca Bonisoli

I bambini, dico quelli che non erano ancora in età da lavoro e tutto quello che potevano fare era di andare a cercare pesci e selvaggina sulle rive del lago, come sapete sparivano. Così, semplicemente. Partivano in un giorno freddo d’autunno a cercare carpe lungo le rive basse delle gere, o a gracchiare richiami per le anatre da intrappolare con delle reti lungo le centinaia di piccoli rivi che alimentavano quell’enorme lago ghiaioso, basso e calmo, il Gerundo, e non tornavano più.
Dicevano che le rive sono infide, e le acque piene di gorghi che trascinano per i piedi fino a farti annegare. Ma io non ci ho mai creduto. Frequento quel lago da decenni, e non ho mai visto un gorgo. E ogni volta che sono scivolato sulla riva pietrosa al massimo ho battuto il culo, e mi sono fatto una risata. Mi sono testimoni corvi e cavedani, e peccato che non sappiano parlare.
Quando arrivai alla locanda di Azulìn, a Cassano, e ritrovai la so muiera e i so fiulìtt che servivano a tavola la süpa de càul, rimasi incuriosito dai discorsi che sentivo fare dagli altri viandanti. Vün ch’el diseva che l’era culpa de l’acqua sgunfia e l’alter che l’era d’i sass. Come se acqua e pietre fossero vive, animate di volontà assassina. Vero è che l’opera del demonio è sempre in agguato e mai prevedibile, che il Signore ci protegga sempre, ma inscì l’era mia pusebil. Poteva accadere, e lo capisco, una disgrazia…Continue reading


Saudino

di Massimo Dilevrano

Saudino teneva sul palmo delle mani i capelli di sua sorella Giulia: una lamiera d’acciaio, pesante, profumavano di chincaglieria e di pompelmo fresco. Li respirava a pieni polmoni, quasi fossero una foresta di pini secolari entro i quali bearsi nel gioco delle ombre sommesse, del velluto che si scioglieva tra le mani. Li stringeva forte, quei capelli, come cavi di acciaio, assaporandone il gusto sensibile e l’idea che dietro quel ammasso di paglia ci fosse una donna bellissima e non sua sorella.  — Te la ricordi la mamma? — gli chiese, frugando con le punta delle dita, tutta la lunghezza dei capelli, in un movimento ostinato. — Ahi! Mi fai male Saudì, stai fermo con quelle mani — ma lui continuava, su e giù, su e giù a rastrellare quelle corde da fienile — Era solo un nodo, non ti preoccupare, te lo sciolgo subito. Allora te la ricordi? —. Giulia lo guardò nello specchio, il corpo leggero e striminzito, la testa ben fatta che si muoveva ad agio verso la sua, sovrapponendosi.  — L’avessi conosciuta, Saudì. Eri troppo piccolo, appena nato. Quanto mi manca. — Saudino taceva il suo vero desiderio e Giulia lo capì, quando non sentì più le sue mani muoversi in un gioco innocente, sui suoi capelli. A Giulia e Saudino, la superfice dello specchio sembrava sterminata, un valle indomabile di vernice bianca, svuotata dalle ruvide pareti della stanza…Continue reading


At home

di Matteo Parmigiani

Mi chiamo Ife, ma pochi lo sanno. Solo la mia famiglia e qualche amico usa il mio nome. Per la stragrande maggioranza sono solo il “Rider”. Alcune volte mi son sentito chiamare “Glovo”. Altre, dai più attempati, il ragazzo dei panini. Oramai non ci faccio più caso. Siamo tanti e per chi ordina siamo tutti uguali.
Al mio paese ho preso anche un diploma ma qui mi hanno detto che non vale niente. Così, coi risparmi di mia mamma, ho comprato una mountain bike MTB 26. È nera con la scritta “Rockrider” bianca sul lato destro della canna. Per questo tipo di lavoro è perfetta, posso scalare con facilità da una marcia dura a una molle mentre vado.
Di solito mi trovo con altri tre ragazzi, due dall’Africa come me e uno dal Sud America. Ci stravacchiamo sulle panchine della piazzetta dietro le case popolari. Riposiamo o ci diciamo come è andata. Spariamo cazzate e riprendiamo fiato prima della corsa successiva.
Questa mattina però non c’è nessuno. È primavera inoltrata e comincia a fare caldo. Attraverso la pizza spingendo a braccio la bicicletta e mi siedo sulla panca. L’acqua della fontanella zampilla mentre un piccione tuba studiando il bordo della vasca.
Consulto il mio Iphone ma non vedo chiamate. Sono stato assente per quasi due settimane e l’algoritmo che assegna gli ordini, non vedendomi, mi avrà scaraventato in fondo alla lista nella piattaforma. Ogni giorno di assenza è come un peso legato alla caviglia mentre mi buttano a mare…Continue reading


Eva non ha peccato

di Ambra Meli

Illustrazione di Giacomo Messina.

Mia figlia Eva si trova nel corridoio di un ospedale, a passi lunghi e nervosi lo percorre per intero per poi voltarsi e compiere lo stesso tragitto.
Mia figlia Eva non voleva che la accompagnassi, perciò sto distante da lei, la guardo da lontano e mi sembra che il bianco di queste pareti d’ospedale da un momento all’altro possa inghiottirla.
Mia figlia Eva ha venticinque anni. Un sabato di Ottobre è uscita, è andata a ballare in un’affollata e rumorosa discoteca milanese. La musica risuonava forte nelle casse, si ballava con foga. Eva aveva bevuto un cocktail per porre rimedio all’arsura che quell’ambiente asfittico provocava, poco dopo era sparita. L’avevano trovata alla fine della serata, fuori, poco lontano dalla discoteca: il vestito strappato, il trucco sbavato, senza denaro né cellulare. L’avevano drogata. Eva ricordava la discoteca, il rumore, il cocktail ghiacciato che le avevano servito, poi il buio. Le amiche in lacrime, i suoi collant rotti e infine il lampeggiare delle sirene di un’ambulanza.
Mia figlia Eva oggi si trova in ospedale per esercitare il suo diritto di scegliere, scegliere di mettere fine a una gravidanza non voluta, frutto di un concepimento violento, avvenuto al seguito di un atto meschino.
Ieri sera quando sono rincasata ho visto Eva seduta sul divano, mi aspettava:

«Vuoi scrivere pure di questo?» mi ha chiesto arcigna; la voce carica di dolore, ma anche di disprezzo
«Non lo farei mai, Eva!»…Continue reading


Ho abitato lacrime offese

di Federica Sanguigni

Ho abitato lacrime offese
nascoste tra gocce di pioggia
che nettava l’aria ma non i cuori.
Ho sedato pensieri spauriti
che respiravano il pianto
e alle mute richieste
obiettavano fiacchi sospiri.
Ho intonato un canto
un canto d’uccello
che il silenzio ha smorzato.
Le ali bagnate
pesanti e costrette
anelavano il volo
imploravano danza e riparo
alla mia solitudine
ma io danza e riparo ho offerto
alla solitudine accanto.
Ho attraversato il vuoto
il vuoto distratto e colpevole…Continue reading


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