Numero 63 – Novembre/Dicembre 2020

Eva non ha peccato

di Ambra Meli

Illustrazione di Giacomo Messina.

Mia figlia Eva si trova nel corridoio di un ospedale, a passi lunghi e nervosi lo percorre per intero per poi voltarsi e compiere lo stesso tragitto.
Mia figlia Eva non voleva che la accompagnassi, perciò sto distante da lei, la guardo da lontano e mi sembra che il bianco di queste pareti d’ospedale da un momento all’altro possa inghiottirla.
Mia figlia Eva ha venticinque anni. Un sabato di Ottobre è uscita, è andata a ballare in un’affollata e rumorosa discoteca milanese. La musica risuonava forte nelle casse, si ballava con foga. Eva aveva bevuto un cocktail per porre rimedio all’arsura che quell’ambiente asfittico provocava, poco dopo era sparita. L’avevano trovata alla fine della serata, fuori, poco lontano dalla discoteca: il vestito strappato, il trucco sbavato, senza denaro né cellulare. L’avevano drogata. Eva ricordava la discoteca, il rumore, il cocktail ghiacciato che le avevano servito, poi il buio. Le amiche in lacrime, i suoi collant rotti e infine il lampeggiare delle sirene di un’ambulanza.
Mia figlia Eva oggi si trova in ospedale per esercitare il suo diritto di scegliere, scegliere di mettere fine a una gravidanza non voluta, frutto di un concepimento violento, avvenuto al seguito di un atto meschino.
Ieri sera quando sono rincasata ho visto Eva seduta sul divano, mi aspettava:

«Vuoi scrivere pure di questo?» mi ha chiesto arcigna; la voce carica di dolore, ma anche di disprezzo
«Non lo farei mai, Eva!»

Ha riso, ha riso sonoramente, ma era una risata amara.

«Hai scritto di tutto e di tutti, persino di come hai lasciato papà, di come è finito il vostro matrimonio!»
«È narrativa, Eva. È narrativa e basta!»
«No! È vita: la mia, la tua, quella di papà! Hai scritto di tutti noi.»
«Non siamo noi. Sono personaggi. Alcuni hanno tratti autobiografici. Sì, alcuni ci somigliano, alcuni fatti sono veri. Niente è falso, ma tutto è finto. È finzione.»
«Smettila di dire stronzate, mamma! È vita vera e basta.»

Si ammutolì, esitò a parlare, poi riprese:

«Devi scriverla questa storia!»
«No, Eva!»
«Si!»
«Perché?»
«L’hai ripetuto un milione di volte: la felicità si vive, non si scrive. Il dolore si patisce e poi lo si mette per iscritto per esorcizzarlo e si spera che resti lì, tra le pagine di un libro. Dici che provi dolore per questo fatto, scrivi allora!»

Ho esitato, ho esitato a lungo. Alla fine, ho scritto.

Nella Primavera del 1992, a Palermo, in un’assolata mattinata di metà Maggio, conobbi Diego. Il mio relatore mi aveva spedito alla Biblioteca regionale per fare delle ricerche per la mia tesi di laurea. Diego studiava filosofia, quella mattina si trovava in biblioteca, una sua collega gli aveva chiesto un aiuto con le Meditazioni metafisiche di Cartesio, lui non si era fatto sfuggire l’occasione, aveva subito accettato di offrire il suo aiuto a quella ragazza dalla chioma fluente. I capelli biondi, le labbra carnose, una silhouette da fare invidia a tutte le ragazze presenti in quella biblioteca: arcigne, con gli occhiali spessi, i capelli appena in ordine, il naso aquilino tra i libri.

«Quante storie! Se solo Cartesio non si fosse fatto tutti questi problemi non saremmo chiusi qui dentro».

Aveva esclamato la bionda, spostando all’indietro i capelli. Diego era visibilmente preso da lei, lo vedevo, lo vedevano tutti. Io facevo parte del club di quelle con la testa china e il naso fra i libri, mi si raggelava il sangue sentendola fare le solite battute. Anni dopo seppi che anche lui si era indispettito di fronte a quel comportamento: «Ero giovane, Iride! Lei ci stava, che avrei dovuto fare? Annuivo e sorridevo».
Tornai spesso in biblioteca in quel periodo. A tutti dicevo che volevo approfondire il lavoro di ricerca per la tesi, ma in realtà avevo scoperto che Diego svolgeva lì il suo tirocinio, così molto spesso staccavo gli occhi dai libri e li puntavo su di lui. Non ci volle tanto prima che lui si accorgesse dell’aria sognante con cui lo guardavo.
Di Diego mi erano piaciute le battute sagaci. Mi aveva conquistato con la sua dialettica, con le sue risposte sempre pronte, con le sue battute originali. Alternava il suo parlare forbito a forti frasi in dialetto che pronunciava con il suo accento palermitano. Parlavamo per ore in quella biblioteca, iniziammo lì e continuammo fuori. Seppi solo più tardi che Diego era il figlio di un regista palermitano. Passarono i giorni, le settimane, me ne innamorai. Pur essendo cosciente del fatto di doverci andare piano, con i piedi di piombo, il mio cuore non volle saperne, spiccò il volo. La ragione non poté far niente di fronte a quella ribellione del cuore, gettò le armi e, purtroppo o per fortuna, si arrese.
Purtroppo.
Quando il nostro matrimonio è andato sgretolandosi, ho ritenuto questo avverbio il più appropriato. Il matrimonio è come un castello di carta, lo costruisci passo dopo passo, con parsimonia, dedizione, attenzione, ma sei consapevole della sua fragilità, sai che un semplice soffio basterebbe per farlo crollare.
Per fortuna.
Il purtroppo mi è parso appropriato per molto tempo, però, oggi, penso che “per fortuna” sia l’espressione più adatta. La vita senza Diego non sarebbe stata la stessa. Magari con un altro sarebbe stato diverso, ma chi dice che diverso voglia dire meglio? E poi i miei figli, magari li avrei avuti lo stesso, ma non sarebbero stati gli stessi. Diego, nonostante tutto, era stato la scelta giusta.
Una vecchia amica di mia madre diceva sempre: meglio una gravidanza indesiderata che una malattia. Quando si nasce nella miseria, però, non è così; le due cose sono considerate allo stesso modo. Quando dissi a mia madre che ero incinta, pianse, pianse tanto, come se le avessi detto di essere affetta da una malattia incurabile. Io e Diego non eravamo ancora sposati, quel figlio se ne andò così com’era venuto, in silenzio. Un giorno ero in attesa, un giorno non lo ero più. Ho sempre avuto l’impressione che avesse sentito quel pianto, che non si fosse sentito desiderato e che per questo se ne fosse andato. Anche Diego se ne andò, mi lasciò, andò a Roma a studiare Cinema.  Io andai a Milano, raggiunsi Gerardo, per tutti Gero. Da anni conviveva con il suo ragazzo, aveva tagliato i ponti con la sua famiglia, con i pregiudizi, e in Sicilia aveva rimesso piede poche volte. Gero e Claudio litigavano continuamente: per un paio di calzini, una maglietta, la pasta troppo scotta, il film da vedere la sera. I battibecchi però erano un semplice contorno, la portata principale della loro relazione era costituita dalle sfuriate di gelosia. E allora le porte sbattevano, Gero piangeva; Claudio, sornione, lo guardava, e alle sue urla rispondeva con una calma e una pacatezza disarmante. Questo comportamento faceva ribollire ancor più il sangue a Gero che strillava più forte. Furono mesi strani, Gero mi aveva trovato un impiego part time come commessa, guadagnavo poco, riuscivo a far fronte solo alle spese di casa, perciò dovetti mettere da parte l’idea di continuare gli studi. Proprio mentre mi crogiolavo in quel senso di impotenza, Diego venne a cercarmi a Milano.

«Sposiamoci», mi disse
«Sei pazzo», gli risposi.

Alla fine accettai.

I primi quattro anni di matrimonio li trascorremmo a Roma, stavamo proprio vicino a Cinecittà, per Diego quel posto era più sacro di San Pietro. Io nel frattempo scrivevo, scrivevo molto, mi ero accostata a una casa editrice alla quale il mio lavoro parse molto buono e fu così che il mio primo libro vide la luce. Tempo dopo proposi a Diego di trasferirci. «Roma o Milano», mi disse. Messa di fronte a quella scelta, decisi Milano. Fu così che ci trasferimmo a Milano e ci restammo.
Poco dopo la nascita di Nino, il nostro primogenito, restai di nuovo incinta. Diego, dopo i mesi di astinenza ai quali lo avevo costretto, volle tornare ad avermi come una volta. Pretese tanto e spesso. Questo è il motivo per cui Nino ed Eva si differiscono di appena quindici mesi. Quando dissi a mia suocera che volevo chiamare mia figlia Eva, lei, da fervente cattolica, ebbe subito da ridire:

«Eva, la tentatrice, il peccato originale!»

Sbottai, le dissi che Eva aveva colto la mela, aveva mangiato il frutto proibito, ma non aveva obbligato Adamo, lui si era fatto tentare, era stato debole, era anch’egli colpevole, tanto quanto Eva. Il nome Eva mi piaceva, non avrei mai accettato di cambiare idea. Eva era breve, conciso, non si poteva piegare a diminutivi o vezzeggiativi. Eva scivolava dalle labbra in un attimo, durava il tempo di un respiro. Il nome era semplice e lineare, quando poi mia figlia è cresciuta ho potuto appurare che, invece, lei non lo era per niente.
Quando Diego mi disse che voleva fare del mio primo libro un film, inizialmente, ne fui felicissima. Nella realtà i miei personaggi erano lettere accostate, parole su carta, ma nella mia mente erano di carne e ossa, ognuno con una propria fisionomia, un proprio modo di fare e di pensare. Fu la volta del primo libro, poi del secondo, del terzo, del quarto. Alcuni ci definivano una coppia d’arte, altri una macchina per fare soldi: «uno sforna libri affinché l’altro sforni film. Fanno un sacco di soldi, ma resta tutto in famiglia». Vivevamo tra pensieri divergenti, idee discordanti. Nei primi sei anni di matrimonio avevamo lavorato senza sosta a quattro pellicole. Del mio quinto libro non volle farne un film.

«Non ti piace?»
«Mi piace! Sono solo stanco, voglio prendermi una pausa».

Passarono due anni, poi un altro ancora. Non girò alcun film.
Anni dopo, quando ormai i rancori li avevamo lasciati alle spalle, gli chiesi perché non avesse voluto girare il film di quel mio libro.

«Volevo fare qualcosa che fosse solo mio, che non dipendesse da te. Volevo affrancarmi dal tuo nome, dalla tua posizione, ma non ci sono riuscivo. Mi piaceva, ma ancor più mi piacque quello che scrivesti dopo, quello che parlava della fine di un matrimonio, il nostro.»

Risi di gusto, un po’ sguaiatamente.

«Dici veramente?»
«Quando uscì ero furibondo! L’uomo, il marito era ferito. Ma il regista… il regista era estasiato».

Ero ormai una scrittrice, ma ero anche una moglie e soprattutto una madre. Quando Eva era una bambina, le tagliavo sempre i capelli, mi giustificavo dicendo che il taglio corto caratterizzava le donne forti, decise ed io volevo che Eva lo fosse tanto, più di me. Poi ci rimuginavo su, me ne pentivo. La vanità delle femmine. «Se la privo di essa crescerà con un complesso di inferiorità, tutte le sembreranno più belle di lei e in questo mondo di apparenza, di facciata, si sentirà costretta a vivere ai margini, un’eterna seconda e due saranno le possibilità o crederà al primo che le dice che è bella o non crederà mai a nessuno, anche a colui che lo dice per davvero».  Lo ripetevo a me stessa e queste due possibilità mi spaventavano entrambe allo stesso modo. E allora la guardavo mentre curava i suoi capelli, li accarezzava con la spazzola, li rendeva lisci con l’asciugacapelli e la piastra. Vedevo i suoi capelli sui pavimenti di casa, vedevo i conti salati delle bollette. Crogiolarsi in tali pensieri fu inutile. Eva fu sempre consapevole della sua bellezza, non si sentiva seconda a nessuno. Aveva preso tutto dal padre. Nei rapporti con l’altro sesso io ero stata sempre reticente, pudica; mi ritraevo, ero schiva. Lei no, era spavalda, andava a prendersi ciò che voleva quando lo voleva. In fin dei conti, ne ero orgogliosa, ero orgogliosa che Eva fosse diversa da me.
Quello di mia madre era un anticapitalismo un po’ arcaico, era contro lo strapotere delle banche, preferiva la sicurezza che le dava il nascondere il denaro sotto il materasso. Se ci dormiva sopra, faceva sogni tranquilli, se sapeva il suo denaro alle Poste o in banca si agitava, ma non perdeva il sonno. No, quello mai! «Lavoro troppo per permettermi il lusso di non dormire. L’insonnia è una prerogativa dei ricchi, delle donne che non lavorano». Diego, d’altra parte, di soldi ne aveva avuti sempre fin troppi, sotto il materasso non ci stavano. Conti correnti di qua, buoni fruttiferi di là. Mia madre li nascondeva sotto il materasso, io, da giovane, mi ero affidata al classico salvadanaio. Con Diego no. Non c’erano soldi sotto il materasso, né salvadanai in giro per casa. Mi venne difficile insegnare ai miei figli l’economia della formica. Io l’ho imparata vedendo mia madre nascondere il denaro e contare quello che già aveva per capire a quanto ammontava il frutto della sua fatica. Ai miei figli spiegavo che il denaro che io e papà guadagnavamo era in banca, stava lì, lo conservavamo, non lo sperperavamo, ma non era lo stesso. Eva era convinta che i Bancomat fossero macchine generose, un click e potevi prendere tutto il denaro che volevi. No, non era lo stesso, non era la sensazione che provavo vedendo mia madre contare quelle banconote piano, mettendole in ordine per taglio. Si inumidiva un dito e poi continuava: venti, quaranta, sessanta, centodieci. Li attorcigliava, li legava con un elastico e poi li riponeva.
Io, a differenza di mia madre, soffrivo di insonnia. Ricordavo le sue parole: «Solo le donne che non lavorano possono permettersi l’insonnia». Io mi crucciavo, anch’io lavoravo, eppure non dormivo. «Tu fai un lavoro diverso, Iride! Tu per lavorare devi pensare, sempre, anche la notte. Io per lavorare dovevo faticare, tirarmi su le maniche, stare a lungo in piedi. Il sonno per me era necessario, per te no! Per te è superfluo». Così mi mettevo alla scrivania, lavoravo tanto, fumavo troppo e dormivo poco.
Da sempre, per Eva, il padre era un modello da seguire, un Dio da venerare. Sin da bambina lo accerchiava, cercava i suoi abbracci, le sue carezze. Io la vedevo dal mio studio cercare con ogni mezzo le sue attenzioni. «Vieni da mamma», le dicevo. Spegnevo la sigaretta, staccavo un po’ la sedia dalla scrivania e aprivo le braccia. «No», mi rispondeva. «Il complesso di Elettra», dicevo sempre a Diego e lui rideva. «Pensa a Nino, dopo la sua nascita mi hai messo in panchina, è il vero uomo della tua vita», mi rispondeva. Adoravo Nino, era vero, ma verso di lui provavo dei profondi sensi di colpa. La mia attenzione, negli anni, era stata tutta rivolta a Eva. Eva che sbatteva le porte, che tirava i capelli alle compagne, che litigava con i professori, che tornava sempre troppo tardi la sera, che cambiava fidanzato con la stessa frequenza con cui cambiava acconciatura. Eva, Eva, sempre e solo Eva. E assillavo Nino: «Tua sorella è entrata a scuola? Con chi era? Controllala, stai attento». Sì, adoravo Nino, ma il centro della mia vita era Eva, Eva che era tale e quale a suo padre, nel corpo e nell’anima. Io l’avevo portata in grembo, l’avevo partorita, ma era tutta suo padre. Che mi avrebbe dato filo da torcere lo seppi sin dal giorno del parto, non riuscivo a sgravami, i dolori mi avevano scosso per ore, le ore di travaglio furono un’agonia, sicuramente non una dolce attesa. Quando è venuta al mondo, quando è divenuta altro da me scivolando via, ho capito che non avrei mai più avuto alcun controllo su di lei, la sicurezza di saperla sempre con me, protetta, al caldo nel mio grembo, svaniva, sapevo che da allora in poi la preoccupazione non mi avrebbe mai abbandonato.  Puntualmente ne ebbi conferma e, crescendo, la vedevo allontanarsi da me, la vedevo venirmi sempre contro, quasi come a marcare le differenze e le distanze tra noi.

«Quando saremo vecchi torneremo in Sicilia, invecchieremo lì», diceva Diego. Io annuivo, era un bel programma, ma con alcune lacune.
«Siete pazzi, io non mi trasferirei mai in Sicilia!»

Eva non digeriva la terra in cui erano nati e cresciuti i suoi genitori, del resto era figlia della città, era cresciuta tra Roma e Milano, tra la Capitale e la megalopoli padana, tra milioni di abitanti e vie pullulanti di gente, tutt’altra cosa rispetto a me che Roma l’avevo vista per la prima volta solo appena sposata e che ero cresciuta in un paese grande quanto il quartiere della Milano bene in cui abitavamo. Per lei la Sicilia era un’isola sperduta, una terra arcaica e selvaggia, calda e troppo a Sud rispetto al suo baricentro. Eva puntava a Nord o oltreoceano. «Andrò in Erasmus a Londra, in vacanza ad Amsterdam, a studiare a Boston». Insomma, Eva voleva tante cose, forse troppe, ma io, in fondo, ne gioivo. Eva tollerava la Sicilia solo durante il periodo delle vacanze, quando facevamo le valigie e andavamo a trascorrere l’estate a Mondello. Le vacanze in ogni caso duravano sempre poco, Diego non riusciva a stare a lungo lontano dal set. Non capivo se il Cinema fosse il suo interesse più grande o cercasse solo di dimostrare a se stesso e agli altri che lui valeva tanto quanto suo padre come regista.
Quando Nino annunciò che voleva fare l’attore, inizialmente mi opposi. Diego accolse quella notizia con gioia e gli propose di partecipare a un suo film. Sudai freddo, non tanto perché saremmo andati in pasto alla Stampa, ancora una volta, ma perché temevo che a quel punto anche Eva sarebbe venuta a reclamare il suo posto, la sua “eredità artistica”, come la chiamava Diego. Cosa poteva volere? Cimentarsi anche lei nella recitazione? Fare l’aiuto regista? Il Direttore della fotografia? Fortunatamente le mie preoccupazioni furono vane. A Eva, come era normale che fosse data l’età, lo “showbiz” non dispiaceva per niente, ma lavorare con me, suo padre e suo fratello era troppo per lei, non lo tollerava. La lodai molto per la sua scelta, per aver deciso di intraprendere una sua strada, quando avrebbe potuto imboccare la scorciatoia che potevamo offrirle io e suo padre. Di Nino, d’altro canto, potevo tessere le lodi per vari motivi, ma sicuramente non era un lettore appassionato. I miei libri li lesse per il semplice fatto che ero sua madre, non era un divoratore di libri, aveva preso da mio padre che viveva circondato, accerchiato dai miei libri senza mai sfiorarli. Accadde in realtà solo una volta, avevo dimenticato in cucina “Paesi tuoi” di Pavese. Il giorno dopo mi si avvicinò:

«Cos’è questa roba? Avrei saputo scriverlo anch’io».

Mi disse ghignando.

«Ma non l’hai fatto, papà! Questa è la differenza».

Lo pensai, non glielo dissi. Mi limitai ad accennare un sorriso.
Diego ed io eravamo sposati da diciassette anni. Finita la collaborazione lavorativa, era finito anche il nostro matrimonio. Eravamo abbastanza maturi per capirlo, ma non abbastanza coraggiosi per ammetterlo. A tavola, il silenzio che negli ultimi periodi era rotto solo dal rumore dei piatti, delle posate, durante gli anni della nostra collaborazione era colmato dalle nostre discussioni. Fu un periodo felice. Facevamo le ore piccole, poi ci spostavamo a letto e lì non giocavamo a non sfiorarci, come sarebbe accaduto più tardi, tutt’altro; ci stringevamo in modo tale da stare a contatto con ogni lembo di pelle, in modo tale da aderire l’uno all’altro completamente.
Io avevo avuto un solo amante, Diego nel suo percorso di infedeltà ne aveva incrociate diverse. La distanza che io e Diego tenevamo tra di noi, persino nel nostro letto, non ci permetteva di sentire l’odore di adulterio che entrambi portavamo addosso. Non riuscivamo a sentirlo o forse non volevamo sentirlo. Le lenzuola sempre sgualcite durante i primi anni di matrimonio, ora invece avvolgevano i nostri corpi senza fare una piega perché evitavamo persino di sfiorarci, riducevamo i movimenti in modo da evitare il contatto. Uno a destra, l’altro a sinistra, a centro il vuoto. Forse però al centro non era vuoto, forse lì dormicchiavano i nostri sbagli, i nostri amanti, i nostri dissapori, il nostro essere così diversi. Eppure in quello stesso posto ci avevano dormito i nostri figli diversi anni prima, quando piagnucolando venivano a cercare conforto e allora li tenevamo stretti, scacciando le tenebre, i brutti sogni, i mostri sotto il letto. Quegli anni erano passati e il mostro era ormai sopra quel letto, il mostro era quel silenzio e quel vuoto.
Mesi dopo la nostra separazione fu pubblicato il libro in cui raccontavo della fine di un matrimonio, a tradire era stata la protagonista, la moglie, solo lei portava il marchio dell’adulterio. Ciò non mi mise in buona luce agli occhi di Eva che pensava che i miei libri fossero la trascrizione cavillosa e precisa della mia vita. Iniziò a instillarsi in lei la convinzione che la causa della fine del mio matrimonio fossi io. Che la mia ispirazione derivasse da fatti di vita vissuta era chiaro. Gli scrittori assorbono sensazioni, emozioni, parole, dibattiti, discussioni, accadimenti e poi imbastiscono storie che sanno di vita vera. Io avevo fatto così, avevo conosciuto l’adulterio, l’avevo sentito sulla mia pelle e l’avevo trasmesso alla mia protagonista. Le sensazioni, i pensieri, il piacere di un uomo adultero, li immaginavo, ma non li conoscevo veramente perciò avevo deciso di affidare alla mia penna qualcosa di autentico, all’uomo e solo a lui, per una volta, avrei dato la fedeltà.
All’indomani della fine del mio matrimonio, sola, in quella casa in cui avevo convissuto per quasi due decenni con Diego, dopo l’iniziale confusione in cui ero piombata in seguito alla separazione, decisi di ridefinire i miei ruoli. Aprii una scuola di scrittura, mi fiondai con tutta me stessa in quel progetto, il ruolo di donna in carriera era salvo. Per quanto riguarda il mio ruolo di madre, solo tempo dopo capì che mia figlia era proprio come l’avevo desiderata, con ogni suo difetto e ogni suo pregio, in ogni sua sfumatura. Me ne resi conto quando, a distanza di anni, rilessi uno dei primi racconti che avevo scritto. Retorico, a tratti patetico, ma vero, sincero, fresco. La protagonista era una ragazza complicata, evasiva ma viva, con un fuoco che le bruciava dentro. Capace di amare, ma incapace di esprimerlo; caparbia, coraggiosa, solare, incosciente, ma splendida. Era Eva, era mia figlia. La scoperta più illuminante fu però un’altra, quel mio amare pur essendo respinta, quel mio continuo preoccuparmi per lei, quel compiacimento nel vederla volitiva e irremovibile mi spinsero sempre più a pensare che quell’amore incondizionato che provavo per lei, era lo specchio dell’amore che avevo provato e provavo ancora per suo padre, quell’amore pur essendo cambiato, non era mai svanito. Pur amando Eva nella sua complessità, le cose che più mi piacevano di lei altro non erano che quelle che aveva ereditato dal padre. Pur avendo smesso di credere nel nostro matrimonio, non avevo mai smesso di amare Diego.
La mia storia finisce qui, finisce dove inizia il dolore di mia figlia.
Ho scritto tutta la notte questa storia, senza reticenze né censure. Eva non voleva che la accompagnassi, ma l’ho fatto, l’ho fatto per starle vicino e per darle questo scritto affinché rifletta sulla sua vita, sulla mia, sulla nostra e capisca che è come una roulette: rouge ou noir, rien ne va plus, les jeux sont faits. Rosso o nero, vita o morte, sì o no. Il destino è un bislacco croupier, lui lancia la biglia, tua è la scelta. «Ma non sono io che volevo restare incinta, non sono stata io a decidere di avere quel rapporto», mi diresti. Sì, è vero, ma tua è ora la scelta, e tuo è il figlio che porti in grembo, anche se ancora è appena una stilla di vita.

«Portami a casa».

Eva ha percorso il lungo corridoio e mi ha raggiunto.

«Ho un forte mal di testa, sono molto stanca. L’ho già detto all’infermiera, tornerò domani».

Non proferisco parola, raggiungiamo l’auto e metto in moto.

«Attenta! Vuoi uccidere me e il bambino?»

Strilla Eva dopo che ho frenato bruscamente per via di un motorino che mi ha tagliato la strada. “Bam­bino”, è la prima volta che le sento pronunciare questa parola. Mi volto e la vedo accarezzarsi la pancia. Deve essere stato un gesto involontario, sconosciuto persino a lei, tanto che quando capi­sce che me ne sono accorta allunga la mano verso l’auto-radio.

«Bambino», dico tra me e me.

Il nome Eva deriva da un nome ebraico il cui significato è “essere vivente”, “colei che dà la vita”. Mia figlia Eva, oggi, ha scelto di tenere il suo bambino. Mia figlia Eva, oggi, ha scelto la vita.

 



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