Numero 63 – Novembre/Dicembre 2020

At home

di Matteo Parmigiani

Mi chiamo Ife, ma pochi lo sanno. Solo la mia famiglia e qualche amico usa il mio nome. Per la stragrande maggioranza sono solo il “Rider”. Alcune volte mi son sentito chiamare “Glovo”. Altre, dai più attempati, il ragazzo dei panini. Oramai non ci faccio più caso. Siamo tanti e per chi ordina siamo tutti uguali.
Al mio paese ho preso anche un diploma ma qui mi hanno detto che non vale niente. Così, coi risparmi di mia mamma, ho comprato una mountain bike MTB 26. È nera con la scritta “Rockrider” bianca sul lato destro della canna. Per questo tipo di lavoro è perfetta, posso scalare con facilità da una marcia dura a una molle mentre vado.
Di solito mi trovo con altri tre ragazzi, due dall’Africa come me e uno dal Sud America. Ci stravacchiamo sulle panchine della piazzetta dietro le case popolari. Riposiamo o ci diciamo come è andata. Spariamo cazzate e riprendiamo fiato prima della corsa successiva.
Questa mattina però non c’è nessuno. È primavera inoltrata e comincia a fare caldo. Attraverso la pizza spingendo a braccio la bicicletta e mi siedo sulla panca. L’acqua della fontanella zampilla mentre un piccione tuba studiando il bordo della vasca.
Consulto il mio Iphone ma non vedo chiamate. Sono stato assente per quasi due settimane e l’algoritmo che assegna gli ordini, non vedendomi, mi avrà scaraventato in fondo alla lista nella piattaforma. Ogni giorno di assenza è come un peso legato alla caviglia mentre mi buttano a mare.
Riguardo l’iphone, ancora niente. Chissà dove saranno i ragazzi?
Prendo la borraccia e bevo un sorso d’acqua. Poi la vibrazione si fa sentire. Guardo l’ordine: Tre cheesburger, patatine fritte medie, Sprite e acqua. Alzo gli occhi e vedo al di là della strada, oltre la piazza, la doppia M dorata. Gli archi del Mcdonalds. Non ci credo, sarebbe troppo bello. Una consegna così vicina e veloce non mi capitava neanche quando l’algoritmo era dalla mia ed ero in cima alla lista.
La seconda vibrazione conferma le mie paure. L’ordinazione è da MamaBurger, in centro. La consegna è in via Fosse Ardeatine, addirittura oltre. Mi tocca attraversare la città. Accetto solo per poter elemosinare pietà all’algoritmo, per le chiamate future. Ma devo muovermi, lui sa essere spietato.
Mi metto il cubo in spalla e salto in sella alla bici. Prendo una stradina secondaria, parallela alla circonvallazione. La percorro tutta in senso contrario a quello consentito. Quando sono quasi alla fine un’auto sbuca e inchioda. Vedo il conducente dall’interno agitare parole e gesti nella mia direzione. Mi dispiace, vorrei fermarmi e dirglielo ma il tempo non ha pietà e l’algoritmo è suo fratello. Schivo la macchina e mentre la supero sento la portiera che si apre. Mi lascio alle spalle il guidatore incazzato che lancia ingiurie ed esco dalla stradina secondaria saltando nella circonvallazione. La percorro stando rasente al bordo. Passo sotto un cavalcavia e vedo Gerard comparire dalla sua casa di cartone nello spazio che divide le corsie. Mi saluta con il braccio e mi invita a fermarmi.
Lui è un barbone e vive lì da anni. Una delle prime persone che ho conosciuto facendo questo lavoro. Ogni tanto, la sera tardi lo vado a trovare con delle birre. Gli sorrido e scuoto la testa. Spiacente Gerrard, oggi non posso proprio. Magari più tardi.
Proseguo fino a rivedere il cielo oltre il ponte. Il traffico mi sfila di fianco muovendo aria e polvere. Sono chilometri facili da percorrere ma sento i polmoni che cominciano a elemosinare ossigeno. Sono bastate due settimane di stop per farmi diventare così fiacco. Seguo il flusso della circonvallazione e vedo sbucarmi davanti lo stadio di calcio. Giro intorno alla struttura e sbuco sulla via principale che porta al centro. Il semaforo rosso mi costringe a fermarmi. Come appoggio i piedi a terra sento le gambe diventare pietre. Sono inchiodato a quell’incrocio. L’acido lattico risale lungo il mio corpo appesantendolo. Non è il momento di abbandonarsi. Stringo i denti e prendo un lungo respiro. Scatta il verde e riparto. La prima spinta è dura ma poi sento che le mie gambe riprendono il giro.
D’un tratto compare un ingorgo davanti a me. Proseguo avvicinandomi alle auto ferme e a pochi metri salto sul marciapiede. Schivo un passante col cane al guinzaglio, supero l’edicola e il chiosco dei fiori e mi trovo davanti a un vigile che vedendomi comincia a fischiare. È lui la causa dell’ingorgo. Nonostante questo lascia perdere le auto e viene verso di me. Mi fermo. Mi sento dire con tono autoritario che il marciapiede è per i pedoni, che non ho il gilet giallo e che se non rallento mi dà un multone. Lo assecondo e mi scuso più volte. Gli faccio capire che so che è lui a comandare. Mi lascia andare convinto d’aver fatto il suo dovere.
Riparto. Spingo i pedali verso il basso con tutta la forza e riprendo velocità. I muscoli cominciano a tremare e sento la ruota davanti sfuggire al controllo. La strada diventa pavé. Stringo il manubrio e proseguo senza rallentare. La mountain bike inizia a fare fatica e il mio corpo è attraversato da scosse continue. Ritorno sul marciapiede e mi lancio in uno slalom in mezzo a tizi ben vestiti. Evito il primo, poi il secondo e il terzo. Ma più vado avanti più aumentano. Sono tutti vestiti uguali, giacche e pantaloni scuri e aria arrogante. Scivolando in questo esercito di bambocci capisco d’essere appena dietro al tribunale. Infatti come svolto me lo trovo davanti. Lo supero e arrivo in centro.
Mamaburger è lì.
Appena lo raggiungo guardo l’orologio che mi dice che i clienti aspettano già da diciassette minuti. L’algoritmo non ne sarà felice.
Lascio la bici appena fuori, in bilico sul cavalletto. Entro e mostro l’ordine, poi poso il cubo a terra. Ho la maglietta appicciata alla schiena sudata. Dietro al banco una peruviana bassa e coi capelli unti mi guarda senza sorriso, poi i suoi occhi cadono sulla comanda. Mi mette in attesa e dopo otto minuti mi chiama allungando un sacchetto. Lo afferro e lo infilo nel cubo che mi metto in spalla e in un attimo sono di nuovo in sella. Da qui non è lontano il punto della consegna.
Lo raggiungo in poco tempo e senza imprevisti. Mi fermo senza scendere dalla bici, ricontrollo il numero civico e citofono
«Entra» mi sento dire. «La porta verde in fondo al cortile, a destra.»
Lascio la bici e seguo le indicazioni. Cammino attento, non vorrei proprio sbagliare. Raggiungo la porta e citofono. Qualche secondo e mi apre una bambina bionda. Le sorrido e lei ricambia timida, poi sparisce. Vedo comparire al suo posto una donna di mezza età. Dev’essere la madre.
«Era ora» mi dice seccata. «Sono venticinque minuti che aspettiamo.»
Le porgo il sacchetto e la guardo sperando in una mancia. Certe volte me l’hanno data.
Lei mi guarda e capisco che ha capito. Apre il sacchetto e ci mette dentro la mano. «È pure freddo» dice. Chiude la porta.
Che devo fare? Torno alla bici e aspetto un’altra chiamata. Magari la prossima è quella buona.



freccia sinistra freccia