Numero 63 – Novembre/Dicembre 2020

Tarantasio 1256

di Luca Bonisoli

“Akuaduulza akuaduulza ma de un duulz che nissoen el voe beev

Acqua stràca e acqua sgunfia sciùscia i remuj e i gaamb di fiulìtt…”

(Davide Bernasconi – Van De Sfroos)

I bambini, dico quelli che non erano ancora in età da lavoro e tutto quello che potevano fare era di andare a cercare pesci e selvaggina sulle rive del lago, come sapete sparivano. Così, semplicemente. Partivano in un giorno freddo d’autunno a cercare carpe lungo le rive basse delle gere, o a gracchiare richiami per le anatre da intrappolare con delle reti lungo le centinaia di piccoli rivi che alimentavano quell’enorme lago ghiaioso, basso e calmo, il Gerundo, e non tornavano più.
Dicevano che le rive sono infide, e le acque piene di gorghi che trascinano per i piedi fino a farti annegare. Ma io non ci ho mai creduto. Frequento quel lago da decenni, e non ho mai visto un gorgo. E ogni volta che sono scivolato sulla riva pietrosa al massimo ho battuto il culo, e mi sono fatto una risata. Mi sono testimoni corvi e cavedani, e peccato che non sappiano parlare.
Quando arrivai alla locanda di Azulìn, a Cassano, e ritrovai la so muiera e i so fiulìtt che servivano a tavola la süpa de càul, rimasi incuriosito dai discorsi che sentivo fare dagli altri viandanti. Vün ch’el diseva che l’era culpa de l’acqua sgunfia e l’alter che l’era d’i sass. Come se acqua e pietre fossero vive, animate di volontà assassina. Vero è che l’opera del demonio è sempre in agguato e mai prevedibile, che il Signore ci protegga sempre, ma inscì l’era mia pusebil. Poteva accadere, e lo capisco, una disgrazia. Ma ogni anno che Iddio manda in terra, e sempre in autunno, no. E poi, dove finiscono questi bambini? I morti galleggiano, e i pesci non se li possono mangiare tutti. Qualche lupo, forse le volpi. Ma da queste parti non si è mai sentito, e nessuno li ha visti: niente tracce, niente merda, niente ossa.
Allora mi sono messo a parlare con Azulìn, badando bene di tenere la voce alta, in modo che tutti sentissero. Gli chiesi se era stato informato l’arcidiacono di queste scomparse, e mi disse di sì. Che anche il decano di Santa Maria Immacolata e di San Zeno erano al corrente, e che avevano riferito al Vescovo di Milano. E fu in quel momento che quell’uomo si fece sentire.

–  So me chi fa chi robi lì.

Lo guardai, era seduto vicino al camino, e stava mangiando una coscia di gallina lessa. Ancora forte di spalle, sembrava un uomo d’arme, o almeno lo era stato. Aveva una bruciatura, o una cicatrice, a forma di goccia sulla guancia sinistra.

– Chi? Sai chi fa queste cose? Chi porta via i bambini?
– Sì. L’u vist cui mé ö
– E chi è?

Si voltò verso di noi con un ghigno.

– L’è il draag, l’è il Tarantasio. L’è lü che’l ciapa sü i fiulitt e s’i magna!
– E tu l’hai visto?

Si limitò a sorridere, per dedicarsi alla sò gaiina vecia. Poi bevve un sorso di vino rosso, si asciugò la bocca e piantò i suoi occhi nei miei.

– Föra faseva frecc e la scighera pareva cuercià la morta campagna cunt un veel de spusa, e’l camìn scaldava i facc d’i pütei ch’i eren bianc e rus cumpagn d’i pomm. La lüs pareva bianca cume n’ostia, e föra se sentiva gnanca möves i bestii, che staven tacaa ‘nsema per sentì püsé caald.

– Dov’eri?
–  Giò, dai part del mülin de la Becca.
– E cos’è successo?
– El lucandèer al piangeva, e me diseva ch’el so fiulitt, el prim, l’era andàa a cercà de ciapà dìi carpanòtt per la gént che la rivava per andàa al santuarii. I faseven in carpiùn e i vendiva ai pelegrìn in sü la pista. E l’era pü turnàat.
– E tu cos’hai fatto?
– Sun andàa a cercàl.

Lo guardai, cercando in lui qualcosa che mi raccontasse la verità. La favola del drago Tarantasio, quella che si racconta ai bambini quando si fa filòss inturn’ al fooc e se scavèsa i scigui e ‘i si metén a sügà, era francamente inverosimile. Quando cent’anni fa, più o meno, Ottone era tornato dalla Terra santa con le spoglie di un moro con il simbolo del biscione, la sua casata aveva alimentato la leggenda, fino quasi a farla diventare reale. Il Visconte di Milano, quindi, l’aveva messo sullo scudo ed era diventato il suo simbolo di casata. Il drago Tarantasio da quel momento aveva riempito racconti e canzoni da fiera e giostra. Il simbolo era un serpente enorme, un drago, con in bocca un bambino.

– Non dirmi che l’hai visto sul serio, – lo incalzai.
– Pödet anca credeg mia, ma l’ù vist.
– E aveva in bocca il bambino?
– E’l durmiva.

Lo guardai. Sembrava sincero. Come Barabba a fianco di Ponzio Pilato.

– E tu cos’hai fatto?
– Sun scapàa.

Annuii. L’interno della locanda era silenzioso, si sentiva solo il fuoco crepitare nel camino. Gli altri viandanti erano attenti e incuriositi. Dalle espressioni sul loro viso anche un po’ spaventati. Per chi percorre spesso le piste a ridosso del lago questi racconti di sicuro non infondono coraggio.

– Quant’era grosso? – Gli chiesi

Ma lui sorrise ironicamente. Scosse un po’ la testa, e non rispose.

– Come una casa? Un campanile?
– Te me credèet mia.
– Voglio solo cercare di capire.
– Perché?

Quella domanda mi spiazzò. Non potevo dirgli la verità, ovviamente, ma nemmeno una bugia. Cercai di evitare la risposta, senza rivelare troppo di me. Quell’uomo che non sapeva parlare altro che la sua lingua imbastardita da troppi dialetti, dai modi un po’ grossolani, dal fisico robusto e mani forti, con gli occhi forse un po’ troppo sporgenti nascondeva la verità, com’è ovvio. Ma non sapevo ancora da quale parte stesse.

– Perché anch’io faccio spesso quelle piste, e vorrei evitare di trovarmi un drago sul cammino.

Scosse la testa.

– A mi me piasen no chi’i besti lì.
– Io non ho mai creduto all’esistenza dei draghi.
– Gnanca mì…
– Di solito i più cattivi sono gli uomini.
– Te pödet dì giuro!

Capii che aveva compreso il gioco. Guardai istintivamente gli altri avventori, ma nessuno sembrava aver notato nulla. Erano curiosi, ascoltavano e basta, non giudicavano.

– A ti che te sé grand e gross, al ta fàa gnent. E cupa numa i fiulitt…

Lo guardai fisso negli occhi. Feci un cenno, come per dirgli che non doveva aggiungere altro. Lui li abbassò sulle ossa della gallina, ormai fredde, e prese a succhiarne le cartilagini. Gli altri cominciarono a parlottare tra loro, a bassa voce, e io potei finalmente finì de bèev el mé vin.

Il giorno dopo, al primo chiarore dell’alba, mi preparai le bisacce e ci misi dentro mele e pane e qualche pezzo di formaggio, oltre a un’orcia di vino. Caricai il mio mulo e m’incamminai, dopo aver salutato Azulìn. Attraversai il ponte sul fiume e presi la pista che conduceva a sud, verso i mulini e la Becca. Ci volle mezz’ora di cammino prima di ritrovarmi nel bosco che confinava con il lago Gerundo. Una striscia di alberi non troppo fitti che si attraversava facilmente in un paio d’ore a piedi.

Immaginavo che l’avrei trovato lì ad aspettarmi.

– Hai dormito nel bosco?
– Sota el platen. Stanòt l’ha mia fàa frecc.

Aprii la bisaccia e gli diedi un po’ di pane e un paio di mele.

– Bune

Aspettai che finisse di mangiare, e si sciacquasse la bocca con un sorso del suo vino.

– Come ti chiami?
– Giuànn.
– Hai capito chi sono?
– Sì.

Annuii. Si poteva finalmente giocare a carte scoperte.

– Sei scappato davvero?

Mi sorrise amaramente.

– No
– Era solo?
– Sì, l’era in de per lü. El durmiva in tera.
– E il bambino dov’era?
– In pàart a lü.
– Morto?
– Vöri mia parlàa de quel che ghera lì in tera. Perché numa el demonio pö fa chi robi lì.

Avevo già visto scempi così. Uomini che per qualche ragione trovavano necessario usare i bambini per il loro sporco divertimento. Ho sempre rintracciato nei loro occhi il segno di Satana, del male assoluto. Non ho mai avuto pietà dei loro lamenti, e ho sempre fatto il mio dovere, lo sapete. Come lo sto facendo adesso che vi racconto queste cose.

– Come hai fatto?

Aprì la cappa, e mi fece vedere la roncola che aveva appesa alla cinta.

– Mentre dormiva?

Annuì.

– L’hai seppellito?
– Ghe pü nient in gìr.
– Anche il bambino?
– Quel l’u purtàa a so pader. Me sun racumandàa de dì nient. L’han mis in tera cumpagn de i so surei, sota la Madòna in part a la lucanda.

Gli diedi il resto delle mele e del formaggio e gli battei una mano sulla spalla.

– E lo scudo? – Gli chiesi improvvisamente. – Quello con lo stemma del drago, dove l’hai nascosto?
– In fund al làac.

Presi un po’ di tempo, e mi sedetti in terra.

– Lo sai che questa storia non deve uscire, vero?
– Sì.
– Che è sempre colpa del drago.
– Sempre
– Che esiste davvero.
– Sicür

Lo guardai dal basso all’alto. Era un uomo solido, intelligente.

– Va bene. Dirò tutto questo al Vescovo. Spero che questa storia delle sparizioni sia finita qui. Tu non dire niente, e andrà tutto a posto.
– Sì.

Mi alzai, e preparai il mulo. Chiusi le bisacce, ormai vuote, e mi misi in groppa.

– A proposito, tu sai chi hai ammazzato?
– Un demonio.
– Ma sai chi era?
– No.
– Meglio così. Non ci vedremo più, Giuànn. Me racumandi, lingua in cü.
– Sì.

Fu così che lo lasciai andare, convinto di aver agito per il bene, e che Voi mi avreste ben compreso in questo mio comportamento. So che la vendetta non appartiene agli uomini ma è patrimonio dell’Onnipotente, e che probabilmente avevo peccato di superbia. Ma ero certo che sarei stato compreso.
Ora sono pronto ad accettare il mio castigo. Per l’idiota che sono e per essermi sostituito a più saggi giudici dell’uomo e del mondo. Perché da quando ho appreso che altri due bambini sono scomparsi e mai più ritrovati, il sonno del giusto mi ha abbandonato e sento in me la vergogna di vivere al vostro cospetto. Spero solo che lo possiate ritrovare, quel demonio travestito da viandante, e che possiate vendicare anche l’omicidio dell’emissario del Visconte, che avevate mandato a indagare, e che per causa mia è stato considerato un mostro, mentre era innocente.
Fate di me ciò che riterrete giusto.

“Dio esiste o no? Una volta per tutte!” / “Una volta per tutte, no!” / “E chi si prende gioco degli uomini, Ivàn?” / “Dev’essere il diavolo” ridacchiò Ivàn. (Fëdor Dostoevskij)



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