Numero 63 – Novembre/Dicembre 2020

Il casinaccio

di Edoardo Sanzovo

 

Roby doveva aspettare sempre almeno un minuto dopo aver suonato il campanello. Seppur non lo potesse vedere, s’immaginava suo nonno, il signor Dino, alzarsi con molta calma dalla sua amata poltrona, appoggiare sul tavolo il libro che stava leggendo e spantofolare con lentezza in direzione della porta. L’ingresso di Roby, insieme alla spesa, portava sempre una ventata di frenesia all’interno del triste appartamentino abitato dal solo signor Dino. Quell’entusiasmo al signor Dino dava un po’ fastidio, lo accoglieva in casa con un grugnito, cui Roby rispondeva sempre con un sorriso, nascosto dalla mascherina, ma ben visibile per le pieghe che assumeva il contorno dei suoi occhi. Poi però, quando Roby, coi suoi modi educati, usciva richiudendosi il portone di casa alle spalle, quella frenesia al signor Dino mancava. Tirava un bel sospiro che voleva essere di sollievo, ma che in realtà era di dispiacere.
La spesa se la sistemava da solo nelle varie dispense, almeno si teneva un po’ impegnato. Era ormai da più di un mese che non andava al supermercato e già da una settimana si era convinto anche a non uscire più nemmeno per la sua rituale passeggiata al fiume. Non era poi così vecchio. Aveva ancora gambe forti e una certa vitalità, soprattutto mentale, ma pian piano sentiva che l’ozio da quarantena andava spegnendolo. Si era riproposto però di riappropriarsi pienamente dell’esterno non appena tutto questo casinaccio, come lo chiamava lui, si fosse risolto: uscire con mascherina e ansia non gli andava a genio.
Non distingueva una giornata dall’altra, era un lento scivolare verso la fine. Si svegliava presto, accendeva la radio per farsi compagnia e si preparava ogni mattino il medesimo infuso alle erbe. Leggeva tanto e con gusto e soprattutto rileggeva: era in quell’età nella quale, per rituffarsi nella giovinezza, ci si sospinge col trampolino delle prime letture memorabili del proprio passato. Sorrideva nel ricordare il come, il dove e il quando aveva letto un determinato libro, cercava di afferrare le sensazioni della gioventù e di avvinghiarcisi saldamente.
Un mattino, senza accorgersene, al risveglio non alzò le tapparelle. Strisciando i piedi sul pavimento raggiunse dalla sua camera la cucina e sconfisse il buio accendendo la luce. Il signor Dino non poteva saperlo, o forse non voleva, ma fuori un sole primaverile primeggiava in cima al cielo. L’avrebbe riaccolto dentro la sua casa solo per le settimanali comparsate di Roby, non voleva che si preoccupasse a vederlo nel buio più totale, la luce, col passare del tempo, accesa solo quando immerso nelle letture. Come Roby se ne tornava nel mondo esterno però, con una certa rapidità il signor Dino si avventava verso le tapparelle e si crogiolava nel vedere l’oscurità rientrare in possesso dell’appartamento. Fuori regnava il casinaccio, dentro casa sua invece il signor Dino aveva accolto le tenebre e una certa calma, una tranquilla noia dalla quale si lasciava cullare seduto sulla sua amata poltrona.
Di non radersi più lo decise un pomeriggio, d’altronde l’utilizzo della lama al buio avrebbe comportato rischi che il signor Dino non si sentiva di correre. E poi chi l’avrebbe visto? Giusto Roby una volta a settimana, quel nipote un po’ tonto che era l’unica traccia del suo sangue rimasta sul pianeta, nulla di cui preoccuparsi: bastava dirgli che la barba era uno sfizio, giusto per movimentare un po’ le giornate, darsi un tono diverso, più da filosofo, da pensatore. E poi che non rompesse troppo i coglioni, mica aveva smesso di mangiare; anzi, i pasti preparati con l’aiuto del microonde erano insieme ai libri l’unica fonte di vera eccitazione della sua permanenza in casa. Patate e piselli surgelati, gettati in un piatto e infilati qualche minuto dentro quel forno, verso il quale tendeva le mani per carezzarsele col tepore elettrico.
Chi lo sa quando smise di farsi la doccia, poteva essere mattino, pomeriggio o sera, era impossibile accorgersene. Sicuramente era notte pesta all’interno della casa, ormai neppure la radio veniva accesa, gli ricordava del casinaccio là fuori. Ma per chi si sarebbe dovuto lavare poi? Non vedeva nessuno, a lui il suo odore non era mai dispiaciuto, capelli in testa ne aveva pochi, che fastidio poteva dare? Giusto quando passava Roby si dava una spruzzata di profumo e via. La prima volta forse aveva esagerato e quel tonto, nonostante indossasse la mascherina, si era insospettito: “Appuntamento galante con qualche signora giù al fiume?”
Pensava ancora che facesse le sue passeggiate sull’acciottolato della riva del fiume, tonto e ingenuo. Gli rispose con un occhiolino tanto per farlo stare buono.
Un giorno, alzandosi dal letto, il signor Dino si accorse che fare il tragitto dalla poltrona alla sua stanza aveva più svantaggi che vantaggi. Così decise di promuovere la poltrona a letto: bastava avvicinare una sedia per stendere le gambe e la differenza neanche si sentiva. Apprezzò il cambiamento e si congratulò con sé stesso per l’idea. Ma sotto sotto sentiva di potersi spingere ancora oltre. Non senza fatica avvicinò la poltrona alla presa elettrica, cui aveva attaccato una ciabatta, sistemò un tavolino a lato della poltrona e pose sopra di esso il forno microonde. Osservò il palchetto dall’alto della sua statura e si diede un’immaginaria pacca sulla spalla: non si sarebbe più dovuto alzare per cucinare e mangiare. Poi si rese conto che il frigorifero coi surgelati era un po’ distante, quindi si mise a dormire e il giorno seguente traslocò il tutto accanto alla porticina del freezer.
Presto sopraggiunse il problema degli escrementi. Anch’essi lo costringevano ad alzarsi e a muovere verso il bagno. Una vera scocciatura. Così il signor Dino decise di incidere un buco nel tessuto sotto il cuscino della poltrona, alla base di questa posizionò una bacinella che avrebbe contenuto i suoi bisogni. Quando lo stimolo chiamava bastava semplicemente calarsi i pantaloni, spostare il cuscino e il gioco era fatto.
Trascorse poco tempo perché il signor Dino si accorgesse che la bacinella andava di tanto in tanto svuotata. Per non doversi alzare dalla poltrona decise di gettarne il contenuto dalla finestra, abbastanza vicina da permettergli l’operazione senza quell’impiccio dello stare in piedi. Con precauzione tirava su le tapparelle, al primo spiraglio di luce le riabbassava rapidamente – ormai la luce gli feriva gli occhi, non leggeva nemmeno più e accoglieva Roby con degli occhiali da sole, che spacciava come occhiali da vista -, aspettava quindi la notte per svuotare la bacinella, erano gli unici momenti in cui respirava l’aria del mondo esterno, pareva attirarlo, richiamarlo a sé, quasi donargli linfa vitale, ma, come la finestra si richiudeva, il signor Dino tornava a godersi il clima stagno della camera, il silenzio assoluto, la solitudine.
Col passare del tempo il signor Dino si accorse di stare perdendo la parola. Il primo campanello d’allarme gli suonò quando Roby, salito come suo solito a portargli la spesa, disse: “Chissà chi saranno questi che lasciano cacche in giro per il giardinetto…”
Alla reazione confusa del signor Dino, Roby chiese: “Non hai letto l’avviso sulla porta?”
Il signor Dino provò a rispondere, ma non gli uscì alcuna parola. Nemmeno gli veniva in mente una giusta combinazione di suoni che avesse senso compiuto.
Roby lo prese come un invito a continuare: “A quanto pare con una certa frequenza la famiglia Bertini del piano terra trova delle feci in giardino” alzò gli occhi, come pensieroso “mah saranno i cani di quel punkabbestia del terzo”.
Come Roby uscì di casa, il signor Dino provò ad articolare un suono, ma gli uscì solo un urlo scimmiesco, che in prima battuta lo spaventò, ma che più avanti vide come l’ennesima evoluzione di convenienza; d’altronde con chi doveva parlare se non con sé stesso? Tanto valeva utilizzare una lingua pratica e poco impegnativa. Già con Roby non parlava troppo prima del casinaccio, figurarsi adesso. Anzi negli ultimi tempi pareva che il nipote avesse notato qualcosa di strano in lui, un cambiamento – effettivamente era tonto, ma non un completo imbecille -, tuttavia, più che preoccuparsi, sembrava voler evitare il problema. Aveva deciso di portare la spesa al signor Dino due volte al mese, una spesa più grande e magari più faticosa da trasportare certo, ma almeno non doveva affrontare ogni settimana quella tetra tristezza che i quattro muri dell’appartamento custodivano. Il signor Dino non se ne lamentò, anzi il suo cuore ebbe un palpito emozionato, di gioia. Si rese conto che la presenza di Roby negli ultimi tempi era diventata più un disturbo che altro: lo costringeva ad alzare le tapparelle, indossare gli occhiali e soprattutto ad issarsi sulle due gambe per aprire la porta. Il lato peggiore però era il doverci avere a che fare, ascoltare quello strano idioma, sentirlo parlare della cassiera del supermercato, degli altri esseri umani, quella strana specie che un tempo gli somigliava e con la quale sentiva di aver avuto un legame. Com’era successo che si erano allontanati così l’uno dall’altra? Non se lo ricordava quasi più. Qual era il motivo per il quale non usciva più, non vedeva più la luce del sole? Cosa c’era là fuori che lo spaventava?
Chissà quando successe, ma il signor Dino a un certo punto perse completamente la cognizione del tempo. Da quanto era chiuso in quell’appartamento? Cercando di ripensare agli ultimi suoi giorni, mesi, anni – chi poteva dirlo – ebbe una sensazione come di vertigini; si tastò le piante dei piedi sporche, forse esse contenevano la risposta alle sue domande, forse quelle pieghe nascondevano la verità circa il trascorrere del tempo. D’altronde altro compito non avevano, era certo che le mani gli servissero per spostare oggetti e avvicinare il cibo alla bocca, ma quei piedi lì invece? Qual era la loro funzione? A furia di toccarseli e cercare invano un responso, li reputò inutili. Afferrò dunque uno dei coltelli che teneva accanto al microonde, il più largo e lungo di tutti. Aveva piccoli dentini acuminati che nel buio non riusciva a distinguere bene, sebbene ormai la sua vista si fosse abituata all’oscurità più impenetrabile, li appoggiò dunque sul pollice della mano destra: gli parvero abbastanza pungenti. Fu non appena cominciò a raschiare all’altezza della caviglia che un curioso avvertimento interno al suo corpo lo invitò a desistere, sembrava essersi ribellato alle sue intenzioni. Vecchio disobbediente. Decise di riporre il coltello sul tavolino, evidentemente quei piedi nascondevano davvero delle verità. Magari proprio sul tempo.
Provò una sensazione simile più avanti, quando, seduto sulla sua poltrona, nel buio più totale, con le braccia stanche e quei misteriosi piedi attaccati al corpo, il signor Dino perse la cognizione dello spazio. Dove si trovava? Dov’era? Perché era tutto buio attorno a lui? È questa la morte? si chiese, mentre una prima lacrima gli solcava la guancia pelosa. Tese un braccio in avanti e non trovò nulla, nessun ostacolo: che fosse questo l’infinito? Pianse per molto, senza comprendere se fosse un pianto di gioia o di commiserazione.

Roby doveva aspettare sempre almeno un minuto dopo aver suonato il campanello. Quel giorno, forse per l’impazienza di condividere col nonno la gioia della fine della quarantena, il minuto gli sembrava più lungo del solito. Magari non mi avrà aspettato e sarà già andato al fiume, pensò quando si rese conto che era passato molto tempo e ancora il portone non si era aperto. Decise quindi di aspettarlo sotto casa, ma le ore passavano e il signor Dino non si faceva vedere. Non rispondeva nemmeno ai ripetuti trilli del campanello. Roby, a malincuore, si convinse a chiamare la polizia.
Il signor Dino, quando venne sfondata la porta del suo appartamento, si trovava seduto sulla sua amata poltrona, le tapparelle erano tutte abbassate, un pessimo odore sfidava la resistenza delle mascherine. Cosa ci facevano quegli uomini in divisa in casa sua? Come mai lo stavano coprendo e portando fuori? Proprio lui che tanto bene si era comportato durante il casinaccio. Lui che aveva seguito le direttive, non si ricordava neanche più per cosa. E perché Roby stava piangendo? Non era felice di vederlo uscire, tornare ad abbracciare l’aria aperta, tornare a godere dell’azzurro del cielo, dell’inconfondibile calore del sole? Ora lo sapeva: quei piedi brutti e rugosi servivano a trarre beneficio dal solletico della rinfrescante erba dei prati; servivano a calpestare il suolo, a farlo sentire libero su quella buffa prigione che è la terra.

 



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