Numero 63 – Novembre/Dicembre 2020

RĂŞverie normande

di Isabella Bignozzi

 

Nei cieli sopra le città deserte, nelle albe assorte e silenziose, ci sono angeli malinconici che scendono dai loro pinnacoli, si posano con la fronte alla nostra tempia, ci parlano all’orecchio.
Nei viali alberati che odorano d’autunno, nella luce dorata e obliqua della sera, le ombre si allungano nitide, soffici, e le foglie cadute fanno mulinelli al vento.
C’è una casa sontuosa e spenta tra gli alberi, a un passo da un ruscello scuro che scivola tra le rive, prende la forma delle sue rocce. Nel grande salone abbandonato, il lampadario è una cattedrale di cristallo, gli arazzi alle pareti sono fiabe sbiadite; la luce è un’ala di polvere sui tappeti consunti, il pavimento è ruvido come il ponte salato di un vecchio vascello.
Lei siede con la schiena diritta, ha i capelli raccolti, le mani sottili. Dal vecchio pianoforte estrae note come perle d’acqua, la melodia è un vapore che si scioglie nell’aria.
Quando si alza, ha negli occhi fondi di vulcani, e grotte sotto il mare; e scontri di pianeti, e bandiere di sangue, e millenni gelidi e bui; e salotti di raso e porpora, e scarpe di vernice, e fiori tra i capelli; ha negli occhi le divise a righe, i cumuli di morti; i capelli rasati, le baracche nella neve sporca.
Lungo il viale alberato la ragazza cammina e ascolta il respiro del ruscello; lo guarda a lungo, posa le mani sui cordoni della passerella; il ponticello cigola, le assicelle di legno ai suoi passi ondeggiano piano. Oltre la riva c’è una piccola chiesa di pietra rossa, le finestre appuntite al cielo, le guglie come spine.
Sul retro lapidi coperte d’erba, e sepolcri sfiniti; statue rotte, gli occhi di pietra vuota, l’edera sul viso.
L’aria sussurra piano, porta in grembo nomi e voci, è fatta di ombre e di sospiri; fresie di velluto viola carezzano i marmi bianchi, e i fiori selvatici accolgono arabeschi di farfalle, mentre i vasi languiscono vuoti, pieni di fango e marciume.
Da qualche parte – pensa lei – c’è ancora un villaggio di pescatori nordici, dove il cielo sembra un oceano; un villaggio arrampicato su pendii rocciosi e neri, che guarda il regno opaco delle nebbie del mare. Il pescatore senza tempo annoda le sue reti, mentre onde scure si schiantano sulle scogliere ripide, ai piedi di cattedrali normanne; e il bagliore del lampo entra dalle bifore con fragore di schiuma e sale, illuminando la navata come in un notturno medievale.
La ragazza con devozione lieve e dolorosa ascolta i sospiri nell’erba, raccoglie i dolori dei morti. Il cimitero è un villaggio mite e placido, respira una malinconia timida, dolce come una sonata che esiste solo in sogno.
Le foglie cadono lentissime, ondeggiando, dalle cime degli alberi, che come croci d’oro bevono l’ultimo sole.
Lei si allontana lungo il sentiero, s’inoltra nel bosco fitto di cerri, dai rami come candelabri; sente il fluire di un ruscello, le foglie fremere.
In fondo al cerreto c’è una casa alta, antica; ha fregi di pietra, stemmi superbi, le tende di velluto si intravedono dai balconi. C’è un grande salone abbandonato: il lampadario è una cattedrale di cristallo, gli arazzi alle pareti sono fiabe sbiadite; la luce è un’ala di polvere sui tappeti consunti, il pavimento è fatto d’assi scabre, come il ponte di un antico vascello.
C’è una ragazza – è identica a lei – che siede con la schiena diritta, ha i capelli raccolti, le mani sottili. Dal vecchio pianoforte estrae note come perle d’acqua, la melodia è un vapore che si scioglie nell’aria. Aspetta chi le posi la fronte alla tempia, chi le sussurri all’orecchio.
Nei cieli sopra le città deserte, tra i sepolcri abbandonati, sugli scogli neri che bevono le nebbie dell’oceano ci sono angeli malinconici, seduti con le ali raccolte. Nel fondo degli occhi hanno tempeste di sabbia, scintille di fuoco; e il reattore nucleare scoperchiato, e i bambini negli ospedali; e finestre cieche di quartieri crollati, e fango nero di trincea; e vertebre come rosari nei corpi smagriti, e sangue che bagna denti rotti. Hanno negli occhi, a volte, lunghi prati verdi di pace, e un’alba pulita e nuova sul mare, per ogni uomo, ogni giorno.
Seduti al pianoforte in saloni abbandonati, teniamo la schiena diritta, abbiamo i polsi sottili, sciogliamo melodie come vapore nell’aria.
Il nostro dolore abita il fondo degli occhi degli angeli, la punta delle loro dita. Loro ci guardano da lontano, sui loro pinnacoli, hanno le ali raccolte. Scendono piano, nelle albe assorte e silenziose; ci si siedono accanto, e sono identici a noi. Posano la fronte alla nostra tempia, ci parlano all’orecchio; quando aprono le ali, sentiamo una musica che esiste solo in sogno.



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