Luca. La camicia. Le ragazze.
di Stefano Bordoni
Luca scese dal letto badando bene a far toccare sul tappeto il piede destro ancor prima del sinistro. Lo toccò con la punta, poi con la pianta ben distesa, e solo allora infilò la pantofola; fece la stessa cosa con il sinistro. Si alzò e fece otto flessioni sulle gambe. Il numero otto era, infatti, il suo numero fortunato.
Fece la doccia con acqua molto calda. In un programma televisivo aveva sentito dire che l’acqua puliva a fondo solo se molto calda e non gli importava del fatto che si stesse parlando di tessuti, lui voleva essere pulito, sentirsi pulito.
Tirò fuori dall’armadio i vestiti, senza una piega. Ci teneva molto, e faticava non poco a lisciare i tessuti con il ferro da stiro. Li mise in ordine sul letto. L’ordine gli dava un senso di sicurezza e di controllo; la confusione lo faceva stare male. Aveva iniziato a odiare la confusione fin da bambino. Da quando, rientrato a casa con il padre, gli era apparso il caos: cassetti rovesciati, oggetti sparsi per terra. Ma ciò che lo aveva raggelato era stata la vista della madre coperta di sangue, che arrancava sul tappeto. Erano stati degli uomini cattivi, gli dissero. Dopo qualche settimana la madre si riprese, ma lui no. Gli uomini cattivi, oltre quello che avevano rubato in casa, avevano rubato anche la sua innocenza. Gli era rimasto l’ordine a tenere a bada le sue paure.
Mise la camicia che gli piaceva tanto, quella col colletto rigido e spesso,con i polsini che stringevano bene sui polsi, con i bottoni di madreperla, accostata bene lungo i fianchi, aderente al corpo. Quella camicia l’aveva comprata in una strada poco frequentata e abbastanza larga da non sentire la mancanza di ossigeno. Le ampie vetrine del negozio davano un’immagine di spazi aperti e accoglienti. La camicia gli piacque subito, di colore grigio e senza una piega, indossata da un manichino senza volto, di quelli con la testa ovale e perfettamente liscia. Si infilò i pantaloni, rigorosamente in tinta con la camicia, calzò scarpe lucidissime e andò a fare colazione.
Beveva il latte e, mentre sentiva il calore irradiarsi nello stomaco, gli piaceva pensare ad un caldo abbraccio. Schierò davanti a sé otto biscotti ben allineati. Li immerse nel latte, badando bene a non bagnarli troppo.
Una folata di vento fece tremare la finestra, Luca guardò nella sua direzione e, vedendo i rami degli alberi che si agitavano nell’aria, perse qualche secondo ad osservarli. Il biscotto, immerso troppo a lungo, si ruppe proprio nel momento in cui lo stava portando alla bocca, cadde pesantemente nel latte e delle grosse gocce gli sporcarono la camicia. Luca si irrigidì, si sentiva perso. Aveva già perso del tempo prezioso per decidere se metterla o no, e ora doveva addirittura cambiarla e ricominciare da capo. Corse subito in camera, doveva cambiare anche i pantaloni e le scarpe per abbinarle alla nuova camicia.
La scelta fu meticolosa e fece tardi, molto tardi.
Mentre usciva di corsa quasi si scontrò con Paola, un’inquilina del palazzo. Lei gli stava dicendo qualcosa, ma lui era già lontano.
Mentre camminava veloce, le continue folate d’aria gelida gli fecero serrare le mascelle e infilare in profondità le mani nelle tasche del cappotto di lana pesante. Luca fece il solito percorso e passò davanti al bar in cui abitualmente prendeva il caffè. Quella mattina non si fermò, era già in ritardo e il suo capo esigeva dai suoi dipendenti la massima puntualità.
Mentre passava davanti al bar, Marta, che si trovava dietro il bancone, lo vide. Anche lei voleva dirgli qualcosa, ma non ci riuscì. Lo vide sparire veloce al di là della porta a vetri.
Luca si fermò davanti a un bivio, doveva scegliere: continuare sulla stessa strada o prendere l’altra, la più veloce? Aveva cercato di percorrerla più volte, ma si era sempre fermato dopo pochi metri, tornando sempre indietro per riprendere il percorso di sempre. Così stretta e curvilinea gli sembrava l’intestino di una bestia in decomposizione, ma adesso era in ritardo.
Si strinse il bavero per il forte vento e si avviò per la strada più breve. Un’improvvisa e violenta raffica di aria gelida lo costrinse a fermarsi e a ripararsi contro un muro. Un colpo di vento ancora più forte lo fece tremare, un fracasso di vetri colpì le sue orecchie, non si rese nemmeno conto del vaso che cadeva dal terzo piano.
Il violentissimo colpo lo prese alla sprovvista, il dolore lo fece cadere con la guancia contro il marciapiede freddo, la faccia contratta in una smorfia, la testa pulsava forte, non riusciva a muoversi, i suoi occhi roteavano in ogni direzione per capire cosa lo avesse colpito. Vide un’ombra avanzare, tentò di alzare lo sguardo ma si sentì invadere da una sonnolenza, che, attimo dopo attimo, divenne sempre più pesante. L’ombra si fece strada e raggiunse il suo campo visivo, ora poteva vedere il suo sangue che si spandeva sul marciapiede.
Marta si ricordava bene quello che era successo la mattina: era uscita, richiamata dalle grida concitate dei passanti, e aveva visto tutto. Diverse ore dopo volle tornare nel vicolo, lo stesso vicolo da cui era passato Luca. Una volta raggiunto, si fermò vicino alle tracce di sangue, oramai sbiadite dal sapone.
Vide uscire il portiere della palazzina con un secchio in mano e lo scopettone nell’altra, che si dirigeva verso di lei, tutto rosso in faccia e con grosse gocce di sudore che gli colavano dai capelli unti, appiccicati sopra la testa, ansimando e imprecando.
Quando la vide così immobile da sembrargli una statua di marmo, le disse.
«Ha visto signorina, che brutta cosa? Per togliere il sangue ho dovuto strofinare lo spazzolone più volte… Non so quanto sapone ho dovuto sprecare. Prima, però, ci ho messo sopra tanta segatura… Mica sono stupido…Che fatica però! Mi sono pure sporcato le scarpe, vede gli schizzi di sangue? Ora mi tocca ripassare lo straccio… Qui ci abitano persone a modo… Il sangue dà fastidio».
Con un gesto frettoloso la fece scansare e, versato il contenuto del secchio sulla grande macchia di sangue rimasta, riprese a strofinare con forza
Lei seguiva i movimenti dello spazzolone, non riusciva a distaccare lo sguardo, ne percepiva il rumore, e di colpo le venne freddo.
Scappò da quel vicolo sotto lo sguardo perplesso dell’uomo. Camminando senza meta si ritrovò seduta su una panchina a fissare il nulla davanti a lei. Pensava a Luca, a ogni volta che lui prendeva il caffè e lei gli faceva trovare il suo cioccolatino preferito accanto.
Paola, rientrando a casa, si mise a guardare la porta di fronte, immaginandosi Luca dietro che camminava. Pensare a quanto fosse gentile, al fatto che le aveva prestato lo zucchero il giorno prima e a quanto andasse di fretta quella mattina.
Chiuse la porta, percorse il lungo corridoio e, entrata in cucina, si mise a sedere di fronte alla caraffa d’acqua e se ne versò un po’ in un bicchiere che aveva lasciato sul tavolo. Era calda, la luce del sole ci aveva battuto su per diverse ore e, per un attimo si chiese se sputarla o meno. Alla fine decise di ingoiarla e ne fu contenta, perché pensò ad un abbraccio caldo, ad un abbraccio molto caldo.
Marta continuava a fissare il vuoto, ricordando di quando Luca, guardandola, le aveva detto: «Hai dei capelli bellissimi!». Lei ne era rimasta colpita, era un complimento genuino, spontaneo.
Le persone che le passavano davanti la infastidivano, sentiva i rumori di tanti passi ed era come se calpestassero i suoi pensieri. Voleva solo gridare: «Luca è morto!», ma era sicura che la gente l’avrebbe ignorata; allora chiuse gli occhi e continuò a ricordare.
Paola si alzò dalla sedia sentendosi più sola che mai. Ricordava che il ragazzo le aveva prestato un libro. L’aveva poggiato sopra il tavolo all’ingresso per restituirglielo. Il libro si intitolava Il gabbiano, voleva dirgli che le era molto piaciuto, ma le sue parole, ora, doveva tenerle strozzate in gola. Dopo un po’, capì che non poteva farlo e, chiudendo gli occhi, disse:
«Il libro che mi hai dato, mi è molto piaciuto»
Marta, stando ad occhi chiusi, pensava che qualcosa in lei si era spento. Ora i suoi pensieri su di lui li doveva lasciare sepolti in profondità e sperare di non provare troppo dolore nel lasciarli immobili, murati per sempre.
Mentre si alzava dalla panchina decise di camminare verso casa di Luca e si sentiva bene nel farlo. Le sembrava di andarlo a trovare, come ogni tanto faceva. Arrivò al portone e si mise a fissare il citofono, lesse: Luca Barbato, e senza pensarci si mise a suonare. Suonò diverse volte ed ogni volta che lo faceva pensava: «Luca se ti avessi parlato… se ti avessi fermato… se ti avessi accarezzato…».
A Paola mancava l’aria, per questo aprì la finestra. Si mise a guardare l’orizzonte e il cielo sopra di sé e si accorse di stare meglio. Mentre si guardava attorno come una bambina che si stupisce di ogni cosa che vede, scorse in lontananza un gabbiano e sorrise. Si mise anche ad osservare la donna che stava suonando al citofono e il suo atteggiamento le parve strano: era immobile e sembrava suonare meccanicamente, senza aspettarsi una risposta. Vedendola insistere le disse:
«Cerca qualcuno?».
Marta si sentì presa dai capelli e trascinata a forza nella realtà, ci mise qualche attimo prima di rispondere.
«No… nessuno».
«Come nessuno? La sto osservando da un po’, cosa vuole?».
Le due donne si guardarono per qualche secondo.
Marta, sentendosi scoppiare disse:
«Luca non c’è più… abitava qui!».
Paola, a sentire quel nome, ebbe un moto di tenerezza e pensando a lei come a un’amica le rispose:
«Anch’io lo conoscevo, ti va di salire?».
Corse ad aprire il portone:
Marta pensò che, anche se Luca non le aveva aperto, qualcuno lo aveva fatto per lui, e non poteva rifiutare.