Carmencita (questione di punti di vista)
di Diego Cabras
Ore 06:00
È ancora buio fuori, fa anche freddo visto che ieri sera nessuno ha chiuso la finestra della cucina; io non ho dormito bene, mi sono sentita pesante tutta la notte perché nel casino che c’è stato dopo cena nessuno mi ha svuotata né lavata. Tutto intorno a me c’è solo silenzio, ogni cosa è addormentata.
All’improvviso arriva Fabrizio, lo sento camminare a piedi nudi in corridoio; è strano perché di solito non si alza così presto. Forse deve andare fuori città per lavoro, oppure anche lui ha dormito male. D’altronde ieri sera se ne sono dette di tutti i colori, chissà di che umore sarà stamani… Speriamo bene, perché mi piace tanto quando fischietta di primo mattino!
Lo sento che va in bagno, ora tira l’acqua e poi viene da me; eccolo!
Non sorride ma forse è solo ancora mezzo addormentato; ora mi apre e mi fa girare la testa come una trottola, mi diverto sempre un sacco, è come se iniziassimo la giornata danzando, forse il momento preferito in tutto il giorno. Adesso mi lava bene e l’acqua fresca mi sveglia definitivamente, che bellezza!
Finalmente mi sento a posto, Fabrizio ha finito di prepararmi e l’aroma del caffè fresco mi pervade tutta… Esiste un modo migliore al mondo per…Continue reading
In altre parole di Eva Luna Mascolino
Istantanee (Marcel Schwob)
Ci sono, in rue de la Roquette, due siepi di luci e, sotto, due strisce di luce perse nella nebbia, doppia illuminazione per una salita sanguinosa. La nebbia rossa si aggrappa ai lampioni e si diffonde in un alone. Un piazzale si apre in mezzo agli uomini, delimitato dalle figure nere dei sergenti della città; più lontano dagli alberi magri, una porta illuminata in modo sinistro, dove si scorge un arco; sullo sfondo, finestre velate di vapore, con candele accese – e ancora gente, che si precipita in avanti sotto il calpestio dei cavalli. Davanti alla porta un lampione a gas, in fondo al piazzale, vicino a cavalieri smontati, alla testa dei loro cavalli, avvolti nei cappotti; e la fiamma illumina vagamente quelli che sembrano essere due pilastri rotondi di rame rosso, sormontati da una sfera luminosa, con sotto una pallida macchia.
Quest’ultima si trova in un rettangolo di barriere su cui si appoggiano delle file di uomini; e, vicino al macchinario, si agitano delle ombre. Due strani furgoni, trafitti da spioncini e finestre quadrate, l’uno di fronte all’altro di traverso; l’uno ha portato la lama, l’altro porterà l’uomo. Poi le braccia alzate, i punti rossi dei sigari, colletti di pelliccia sparsi qua e là. Il tutto immerso in una notte umida.
Gradualmente si diffonde una luce grigia che cade dal cielo, disegna una linea di creste sui tetti, delle figure pallide sulle persone, taglia le barriere, toglie i gendarmi incollati ai loro cavalli come ombre, mescola il rilievo dei furgoni, scava le rientranze porte, fa con i pilastri di rame ampie scanalature, con la macchia pallida uno strumento triangolare lucido…Continue reading
Lorsignori
Antonio Francesco Perozzi
Quando scesero dalla limousine, uno dietro l’altro, sembrava davvero che fossero stati invitati. Quello con il bastone fece quattro passi in avanti sul red carpet, mentre con le braccia smanacciava a destra e sinistra, completamente a suo agio. In una mano scintillava il pomello d’oro. Un paio di dame, là attorno, e sette maggiordomi sussurrarono degli “oh” prolungati che Bastone interpretò come gridolini di assenso ed eccitazione.
«Te l’avevo detto che il bastone era un tocco di classe», si voltò verso quello col panciotto, bisbigliando dietro il rovescio della mano libera. Panciotto gli regalò una smorfia per farlo stare zitto. Quello col cilindro gli stava dietro a passi più lunghi del necessario, piegato in avanti quasi a novanta gradi mentre esaminava le gonne delle signore, tenendosi il monocolo con due dita…Continue reading
La giusta misura
di Elisa Pastore
Quando ero piccola mia madre ogni mese mi chiamava per misurarmi l’altezza. Arrotolato in un rocchetto teneva il suo metro da sarta, che con gesto rapido del polso, tenendo l’estremità tra il pollice e l’indice, srotolava per intero. La lunghezza totale era di 150 centimetri ed era il limite che io dovevo superare.
«Unisci i piedi e guarda avanti a te», mi diceva ogni volta mentre stavo spalle al muro con le braccia lungo i fianchi come davanti a un plotone di esecuzione. Avrei potuto chiederle tante cose in quei minuti di preparazione. Mia madre e io non avevamo un rapporto frontale, piuttosto laterale o anteroposteriore, e in quelle posizioni era più difficile interrogarla. Ma durante tutte le misurazioni non le chiesi mai nulla. Facevo le linguacce o le facce buffe per farla ridere, e già all’epoca mi sembrava una cosa importante.
Poi mi poggiava sulla testa un romanzo, uno di quelli russi, con la copertina rigida e il peso di molte centinaia di pagine. Li usava come una livella a bolla.
«Adesso spostati», mi diceva spingendo con forza il libro verso la parete. Poi con la matita tracciava una linea leggera sotto la quarta di copertina…Continue reading
La ragazza dell’ultimo piano
di David Valentini
Fu il suo zerbino a confermarmi che Alice fosse diversa da tutto ciò che avevo conosciuto: lo teneva al contrario, rivolto verso l’appartamento. Quando ebbi l’occasione di domandarle perché, mi osservò in silenzio per un minuto, poi disse che era un modo per non dimenticare che il mondo era la sua casa.
La incontrai per la prima volta mentre aspettavo l’ascensore. Era estate. All’epoca vivevo ancora con i miei in uno dei casermoni edificati negli anni Cinquanta lungo la Casilina. La mia era una cameretta da tardo adolescente piena di roba che aspettava solo di finire negli scatoloni. Ogni giorno io e Marzia contavamo i secondi che ci separavano dalla nostra vita comune. Eravamo giovani e tutto ci andava stretto, anche gli spazi fino a poco prima considerati immensi. Per quanto mi riguarda, poi, rientrare dal lavoro e trovarmi davanti quell’ammasso di cemento in cui ero cresciuto mi nauseava: l’ultimo dei miei coetanei, venuto su anche lui con le visioni del rock psichedelico e le promesse del boom economico, se n’era andato qualche mese prima. Ora quel posto somigliava a un castello infestato; persino il giardino in cui avevamo giocato era ridotto a una boscaglia da quando Angelo il fioraio aveva perso la moglie. Solo i tulipani si salvavano.
Quel giorno, nel sentire qualcuno cantare Another day in paradise per la tromba delle scale pensai che l’afa mi avesse dato alla testa. In quel condominio andavano Claudio Villa e Iva Zanicchi. Eppure quella voce non voleva saperne di dissolversi. Lei comparve con un walkman in mano e nel vedermi si bloccò, forse sorpresa quanto me d’incontrare qualcuno sotto i cinquant’anni. Ebbe un istante di esitazione prima di sfilarsi la cuffietta e sorridermi.
Ciao, disse, mentre un odore di mandorla mi raggiungeva.
Buona sera, risposi, vergognandomi della camicia pezzata sotto le ascelle.
Restammo a guardarci così, come due estranei che s’incontrano nell’androne di un condominio dai muri ingialliti.
Be’, allora ciao, ripeté, poi salutò la vedova Martini, che rientrava in quel momento. Le tenne il portone aperto e sventolò la mano prima di uscire… Continue reading