Numero 61 – Maggio/Giugno 2020

La ragazza dell’ultimo piano

di David Valentini

Fu il suo zerbino a confermarmi che Alice fosse diversa da tutto ciò che avevo conosciuto: lo teneva al contrario, rivolto verso l’appartamento. Quando ebbi l’occasione di domandarle perché, mi osservò in silenzio per un minuto, poi disse che era un modo per non dimenticare che il mondo era la sua casa.
La incontrai per la prima volta mentre aspettavo l’ascensore. Era estate. All’epoca vivevo ancora con i miei in uno dei casermoni edificati negli anni Cinquanta lungo la Casilina. La mia era una cameretta da tardo adolescente piena di roba che aspettava solo di finire negli scatoloni. Ogni giorno io e Marzia contavamo i secondi che ci separavano dalla nostra vita comune. Eravamo giovani e tutto ci andava stretto, anche gli spazi fino a poco prima considerati immensi. Per quanto mi riguarda, poi, rientrare dal lavoro e trovarmi davanti quell’ammasso di cemento in cui ero cresciuto mi nauseava: l’ultimo dei miei coetanei, venuto su anche lui con le visioni del rock psichedelico e le promesse del boom economico, se n’era andato qualche mese prima. Ora quel posto somigliava a un castello infestato; persino il giardino in cui avevamo giocato era ridotto a una boscaglia da quando Angelo il fioraio aveva perso la moglie. Solo i tulipani si salvavano.
Quel giorno, nel sentire qualcuno cantare Another day in paradise per la tromba delle scale pensai che l’afa mi avesse dato alla testa. In quel condominio andavano Claudio Villa e Iva Zanicchi. Eppure quella voce non voleva saperne di dissolversi. Lei comparve con un walkman in mano e nel vedermi si bloccò, forse sorpresa quanto me d’incontrare qualcuno sotto i cinquant’anni. Ebbe un istante di esitazione prima di sfilarsi la cuffietta e sorridermi.
Ciao, disse, mentre un odore di mandorla mi raggiungeva.
Buona sera, risposi, vergognandomi della camicia pezzata sotto le ascelle.
Restammo a guardarci così, come due estranei che s’incontrano nell’androne di un condominio dai muri ingialliti.
Be’, allora ciao, ripeté, poi salutò la vedova Martini, che rientrava in quel momento. Le tenne il portone aperto e sventolò la mano prima di uscire.
In ascensore la signora Martini impiegò ogni secondo a disposizione per raccontarmi quello che era venuta a sapere sulla nuova inquilina. Quel tirchio di Pozzoni dovrebbe smetterla d’affittare a cani e porci, diceva. Le chiesi perché e lei abbassò la voce, come se qualcuno potesse sentirci, chiusi lì dentro. Disse che le scale puzzavano di ristorante cinese da quando era arrivata. Dissi che non ci avevo fatto caso e lei rispose che era perché io stavo al terzo piano. Al sesto si sentivano cose strane. Molto strane.
Ma poi hai visto che capelli? Quella è figlia del demonio.
Era impossibile non notarli. Sulla metà destra della testa la chioma nerissima scendeva fino ai fianchi, mentre sulla sinistra la rasatura a zero metteva in risalto l’orecchio a sventola. Era la cosa più assurda che avessi visto, e non dubitavo che per quella donna avvizzita fosse un segno del male.
Poi c’è sempre un viavai di uomini, continuò. Io li ho visti. Brutti ceffi. Angelo dice che sono albanesi, o rumeni: gentaglia dell’est, comunque. Dammi retta, quella porta guai.
Nel palazzo si diceva che la Martini condividesse lo stesso cibo con cui nutriva i gatti del quartiere. A giudicare dal suo alito, doveva essere ben più di una voce. Le augurai più volte buona serata, ma le sue chiacchiere mi seguirono finché non mi chiusi la porta alle spalle.
Al telefono Marzia era nera per non ricordo più quale discussione con la madre, ma si addolcì quando le proposi di andare a vedere le nuove case in zona Talenti il giorno dopo.
Ci pensi? disse. Casa nostra.
Tutta nostra, risposi. Sei felice?
Amore mio, sono al settimo cielo.
Al tg si parlava della guerra del Kosovo e dei soliti sbarchi di clandestini. Papà e mamma guardavano quelle scene di morte e disperazione chiedendosi che fine avesse fatto il mondo che avevano provato a costruire. Dentro di me pensavo che in realtà fosse proprio quello il mondo che avevano costruito e che ci stavano lasciando. Il muro era crollato da pochi anni ma niente era cambiato. Continuavamo a ucciderci a vicenda.
Cenai guardando un film e alle dieci ero già nel letto.
Quella era la mia giornata tipo in quel periodo. Ero convinto fosse la normalità non avere tempo che per il lavoro e la famiglia. Qualsiasi turbamento veniva dissolto dalla stanchezza e dall’estremo silenzio del condominio. Mi addormentai con le parole di Phil Collins nella testa.

Il giorno seguente stavo leggendo Dylan Dog quando Marzia entrò in macchina sbattendo lo sportello.
Che è successo stavolta?
Niente.
Con quella faccia?
Nico, lascia stare, ok? Portami via, prima che la pazza cominci a urlare.
Quella che era stata una donna dolce ed elegante ci osservava dal balcone, sul volto la solita espressione disgustata, come se la realtà l’avesse tradita dopo averle offerto il più puro dei sogni. Mi chiedevo sempre cosa potesse averla ridotta in quello stato miserevole.
L’umore di Marzia migliorò non appena vide le gru e i cartelli con scritto vendesi. I prezzi erano ancora accessibili a una giovane coppia, non come oggi. Con i nostri lavori sarebbe bastato un mutuo decennale.
Passammo il pomeriggio a visitare gli appartamenti e a immaginarli ammobiliati. Odoravano di nuovo ma in modo diverso dalle macchine appena comprate: non plastica e gomma ma legno e intonaco. Presto comunque sarebbe scomparso, non appena avessimo portato dentro le nostre cose. A quel punto l’appartamento sarebbe diventata una casa. La nostra.
Avevamo escluso i piani alti a causa delle mie vertigini, per cui Marzia indicò il secondo piano che affacciava sul giardino in cui avremmo portato a spasso i cani.
Quali cani? chiesi.
Come quali cani? rispose con la faccia buffa di cui mi ero innamorato in terzo superiore. Un pastore tedesco e un bassotto! Te li immagini a scorrazzare qua sotto?
L’appartamento non era perfetto, almeno non per me. Chiesi all’agente se ci fosse un trilocale. Lui sfogliò la sua cartella e tirò fuori la planimetria di un terzo piano nel complesso prospiciente. Ci elencò le metrature e tutto il resto, il sorriso d’ordinanza incollato sulle labbra.
Anche qui l’odore di nuovo pervadeva ogni muro, anche qui il parquet aveva patito troppi pochi passi per scricchiolare. Mentre l’uomo ci mostrava i videocitofoni e la vista sul parco, io mi distraevo appresso lo sguardo assente di Marzia. Quando passavamo davanti alle finestre tornava a fissare quel secondo piano.
Che ne dici, amore? chiesi. Guarda quanto spazio, quanta luce.
Vedo, disse alzando le spalle. Ma dovremmo chiedere un mutuo più alto, e non di poco.
Avremmo una stanza in più.
Mi fissò. Una stanza che non ci serve.
Rimasi in silenzio ad accarezzare il muro dove l’immagine che avevo in mente andava svanendo. Dopo un po’ l’agente ci disse che magari ci serviva del tempo per parlarne, e di tornare quando volevamo.
Mentre mi dirigevo verso casa in silenzio, Marzia continuava a esaltarsi. Mi parlava di tavoli e sedie, diceva che voleva riempire il balcone di quei cactus dalle forme strane. Quando passavamo davanti a un appartamento in vendita me lo indicava e mi baciava. Alla fine mi lasciai contagiare di nuovo. Buttammo giù date per il matrimonio e destinazioni per la luna di miele. Dissi che nella lista di nozze dovevamo metterci un forno a microonde e una tv al plasma, lei scherzò che il millennium bug ce li avrebbe rivoltati contro. Alzai il volume quando alla radio passarono Sei la più bella del mondo. Parlammo dei cani e dei loro nomi. Su un argomento soltanto tacemmo. Come fosse solo un ulteriore piccolo dettaglio, fingemmo che non fosse importante.
Tornato a casa, raccontai tutto ai miei. Mamma mi avvolse nel suo abbraccio, persino quel cuore di pietra di papà si fece scappare una lacrima.
Andrò a vivere con Marzia, ci sposeremo. Vi rendete conto?
Sì, dicevano loro. E presto saremo nonni.

L’attesa dell’ascensore era un momento mio. In quei pochi secondi avevo modo di raccogliere i pensieri dopo il lavoro e prima che la giornata volgesse al termine. Il sabato lasciavo le quattro mura di casa dei miei per entrare in quelle della madre di Marzia, a meno che l’aria da lei non fosse irrespirabile; in quel caso andavamo al cinema e poi a cena, dove ricominciavamo a progettare, a sognare. Ci sorreggevamo a vicenda come i militari straziati dalla guerra che si vedevano al telegiornale.

Quel giorno dovevo essere assorto in un pensiero ingombrante, perché la serratura del portone mi fece prendere un colpo. Era qualche tempo dopo la visita agli appartamenti. Mi voltai e riconobbi subito l’acconciatura e l’orecchio a sventola. Lei non mi aveva ancora visto ma prima di riuscire a salutarla comparve un tizio grosso e dal muso schiacciato. Doveva avere sui quarant’anni, portati malissimo.
Solo quando l’uomo entrò lei si accorse di me. Si aprì nello stesso sorriso della volta precedente.
L’altra volta non ci siamo presentati, disse tendendomi la mano piena di anelli. Mi chiamo Alice, abito all’ultimo piano.
Mi asciugai il palmo e ricambiai la stretta. Nicola Berardi, piacere. Sto al terzo.
Colui che vince per il suo popolo, disse con solennità, poi leggendo la mia confusione aggiunse: dal greco, colui che vince per il suo popolo. È un bel nome.
Ah, risposi, oppresso dallo sguardo immobile dell’uomo. Be’, grazie.
E lui è Florin, aggiunse.
Quello mi mostrò un grugno che sembrava un campo di battaglia e una mano enorme. Strinsi quella cosa callosa, mentre Alice mi spiegava che Florin era arrivato da poco in Italia. Li invitai nell’ascensore ma tirai un sospiro di sollievo quando lei rifiutò. Si scambiarono due battute in una lingua dai toni aspri, l’uomo fece una faccia scocciata e si avviò per le scale.
Arrivato al mio piano me li ritrovai davanti. Ci salutammo di nuovo, poi loro proseguirono, lei davanti e lui dietro, intento a fissarle il culo. Rimasi sul pianerottolo cercando di decifrare la loro conversazione, coperta dal passo e dalla voce pesanti dell’uomo che rimbombavano sui muri, finché non sentii la sua porta chiudersi cinque piani più su.
Florin non fu l’unico brutto ceffo che mi ritrovai davanti quell’estate, anche se degli altri ho scordato i nomi. Quando ci incrociavamo lei, sempre luminosa, si accompagnava a volte con questi uomini dall’età indecifrabile che si portavano appresso l’ombra della sconfitta.
Un pomeriggio di inizio luglio rientravo da un pranzo insolitamente pacifico a casa di Marzia. I quarti di finale fra Italia e Francia avvolgevano il quartiere in un silenzio sacro. Avevo accelerato il passo per godermi il fischio d’inizio ma fui colto dalle note rarefatte di No son of mine. Venivano da una macchina parcheggiata là vicino, dentro la quale due ragazzi si tenevano abbracciati. Sembravano addormentati.
Forse feci qualche rumore, o magari Alice aveva un sesto senso, sta di fatto che si voltò. Durò un istante appena, ma nei suoi occhi incontrai qualcosa di tetro, il residuo stiepidito di un dolore antico. Ancora oggi non trovo le parole per descrivere quella sensazione, che negli anni ho ritrovato in persone dal passato complesso. In ogni caso era già scomparso. Ora Alice sorrideva di nuovo mentre scendeva dalla macchina, mi chiedeva se preferissi Peter Gabriel o Phil Collins e mi presentava Giorgio. Strinsi la mano al ragazzo e intanto pensavo che Kurt Cobain doveva aver finto il suicidio quattro anni prima, perché in quel momento era proprio lì davanti a me. Aveva anche la stessa espressione di chi è costretto a portare avanti quella fastidiosa attività che porta il nome di vita.
Mentre lui fissava il palazzone alle mie spalle senza neanche provare a mascherare il fastidio per l’interruzione, Alice mi raccontava che suo fratello era partito da Torino diretto in Puglia, dove avrebbe caricato l’auto su un traghetto per la Croazia. Poi avrebbe proseguito verso est.
Verso est dove? chiesi.
Non lo so ancora, fece lui parandosi gli occhi con la mano. Finché il macinino regge io vado.
Ma perché da Torino?
Noi siamo di lì, disse Alice.
Davvero?
Eh già.
Non l’avrei proprio detto.
Fece una linguaccia al fratello. E tu dicevi che il teatro era tempo sprecato.
Lui gesticolò in aria, poi mi chiese a che piano abitassi. Glielo dissi, e a quel punto rivolse la stessa domanda alla sorella.
Lei sorrise. Vedi quella finestra col sarong blu?
Ultimo piano, disse lui.
Sempre ultimo piano, rispose afferrandogli il braccio.
Rimasi fra quei due fratelli che si scambiavano gesti e sguardi da amanti. Mi sentii a disagio, così tesi la mano a Giorgio e gli augurai buon viaggio, qualunque fosse la sua meta. Disse che mi avrebbe spedito una lettera dal luogo più distante che avesse raggiunto.
Si strinsero in un abbraccio che aveva il sapore dell’addio, poi tornò in macchina. Le note di Driving the last spike accompagnarono la sua partenza.
Io e Alice raggiungemmo Angelo intento a godersi il sole sulla sdraia, birra in una mano e telecomando nell’altra. Dalla radio, la voce di Bruno Pizzul passava in rassegna le formazioni. Lui si voltò, salutò alzando la bottiglia e mi chiese se volessi unirmi a lui. Gli dissi che papà ci teneva a vederla con me, anzi gli avrebbe fatto piacere un tifoso in più dentro casa. Rispose che, senza offesa, ma preferiva di gran lunga la compagnia del sole. E poi, dopo doveva annaffiare i tulipani.
Anche Alice rifiutò l’invito perché aspettava un ospite. Angelo si limitò ad alzare le spalle.
Dopo tutto l’invito era stato rivolto solo a me.

Di quell’estate non ricordo granché. Pochissimi sono stati gli attimi che ho saputo rendere essenziali, mentre un’infinità mi è scivolata fra le dita.
Ricordo la delusione per la traversa di Di Biagio e l’esclusione dai mondiali. Se ne parlava ovunque.
Ricordo la festa per i venticinque anni di Marzia, l’amore che sin da subito riversò sul cagnolino che le regalai. Era un bastardello che mio cugino aveva trovato ad Anzio. Volle chiamarlo JD, diminutivo per Jack Dawson. Le feci presente che quel nome non era proprio di buon auspicio, visto che il personaggio di DiCaprio moriva per salvare Rose; lei rispose che era proprio quel tipo di amore quello in cui sperava. Un amore per la vita.
Ricordo Gimme love e Solo una volta trasmesse a manetta in ogni stabilimento. Marzia si abbrustoliva al sole, io leggevo Dylan Dog sotto l’ombrellone, poi ci ritrovavamo a lanciare il bastone a JD, che si tuffava in acqua per poi uscirne tutto arruffato.
Ma soprattutto ricordo la prima volta che misi piede in casa di Alice.
Era settembre. I miei erano ancora in vacanza, così citofonai al portiere per farmi dare la posta arretrata e scambiare due chiacchiere su quell’estate ormai agli sgoccioli. Non se l’era goduta per niente perché la madre stava morendo e lui non poteva farci niente. Mi mollò quell’ammasso di carta e se ne scappò in ospedale.
Non chiesi mai a Giovanni se fu per distrazione o se evitò di proposito di dare ad Alice una rivista arrivata mentre lei non c’era. Me la ritrovai fra le mani, e così mi sembrò giusto portargliela.
Non conoscendo nessuno dell’ultimo piano, non ci avevo mai messo piede. Il pianerottolo era identico agli altri, tranne per il cancelletto che conduceva al terrazzo, un vaso pieno di terra grigiastra e l’odore di polvere stagnante. I nomi sui campanelli non mi dicevano niente. Non sapevo nulla delle persone che abitavano a pochi metri da me.
Quando Alice aprì, sembrò sorpresa. Le tesi la rivista e lei ringraziò. Mi invitò a entrare.
Mi assalì la certezza di star facendo qualcosa di sbagliato. Realizzai solo in quel momento quante volte avevo sperato di incontrarla; quante volte avevo desiderato varcare quella soglia per essere solo con lei, senza gente a fare domande.
Eppure avevo la mia vita, la mia relazione, i miei progetti, cose in cui lei non c’entrava niente.
Entrai. Su una parete era appoggiato un enorme specchio ovale. Mi dava l’impressione che un regista l’avesse messo di proposito per girare una scena e poi lo avesse lasciato lì. In generale, la roba disposta senza ordine apparente donava all’appartamento un’aura di surrealtà: somigliava a uno di quei luoghi di transizione in cui non ci si dà la briga di disfare la valigia, come la sala d’attesa di una stazione di provincia. I soli segni di vita erano la busta della farmacia sul tavolo e un odore dolciastro nell’aria.
Si scusò per il disordine: l’unica finestra funzionante era in camera da letto e per togliere la puzza di chiuso si arrangiava con l’incenso.
Ma tanto nessuno passa a trovarmi, a parte i clienti, disse, poi si allontanò in cucina. La seguii, cogliendo con lo sguardo il pacco di preservativi nella busta sul tavolo. E vedendola ancheggiare in pantaloncini e canottiera mentre prendeva diverse erbe dai barattoli per mettere su un infuso, cominciai a convincermi della veridicità di quanto detto dal portiere, da Angelo, dalla vedova Martini. Un discoro accennato anche dai miei durante una cena.
Mi ritrovai eccitato all’idea di quello che poteva accadere, di quel corpo sconosciuto a pochi passi da me. Nessuno lo avrebbe scoperto.
Provai una fitta di paura. Quei pensieri non potevano appartenermi. Eppure dovevano essersi impressi nel mio volto, nei miei gesti, nelle mie parole, perché percepii distintamente la tensione di Alice nel momento in cui si voltò per passarmi la tisana fumante.
Di lei avevo conosciuto solo il lato gioviale. Non seppi che rispondere quando poco dopo disse che dovevo andarmene. Non le chiesi perché, non provai a scusarmi: buttai giù quello che c’era nel bicchiere e lasciai l’appartamento.
Fu quando tornai a fissare gli scatoloni in camera mia che compresi per la prima volta cosa fosse la vergogna.

Infine, bloccammo l’appartamento di cui Marzia si era innamorata. Ricordo ancora il sorriso sul suo volto. Mi guardava, mi scuoteva, lanciava gridolini fuori dall’agenzia.
Ne parlai subito ai miei quella sera. Erano così entusiasti che dopo tanti anni ci fossimo decisi a fare il passo. Mi raccontarono di quando era toccato a loro trent’anni prima, delle notti insonni su materassi senza rete, di fornelletti a gas per cucinare la pasta e fagioli.
Chiesi loro se, potendo tornare indietro, avrebbero ripercorso la stessa strada; se le rinunce e la solitudine fossero serviti. Non avevano sperato in qualcosa di diverso tipo, che so, fare dei viaggi? Risposero di no, perché grazie a quei sacrifici erano riusciti ad avere qualcosa che potessero considerare loro, conquistandosi il proprio spazio nel mondo.
Li capivo: l’acquisto di una casa era il coronamento di una vita per chi era cresciuto nelle baracche fatiscenti del dopoguerra, in stanzoni invasi da fratelli e sorelle. L’acquisto di una casa era l’aspirazione più grande che si potesse avere. Il resto erano velleità da hippie e comunisti.
Io invece da quando avevo messo quella prima firma ero sommerso dai dubbi: ora che un progetto lontano stava diventando qualcosa di concreto, mi chiedevo se non stesse accadendo troppo in fretta. Forse c’erano altre cose che dovevo – o potevo – fare prima di vincolarmi in quel modo. Fare dei viaggi, magari, come avevo consigliato ai miei. Poi però tornavo a ripetermi quante volte ero stato sul punto di rinunciare: con gli scout, durante gli esami di maturità, persino nelle recite scolastiche. Il mio primo istinto è stato sempre tirarmi indietro a un passo dal compimento.
Allora insistevo: forse anche stavolta era così. In fondo si era sempre trattato di infrangere le resistenze del mio corpo conservatore, cresciuto con l’idea che bisogna sempre percorrere la strada più battuta. A cena con Marzia e due o tre marmocchi, anni dopo, avrei guardato indietro a quei momenti d’incertezza assaporando la gioia della stabilità. Con la consapevolezza di una maturità appena ingrigita dagli affanni e dal lavoro, avrei accarezzato la testa dei miei figli, rispondendo alle domande su come ci fossimo conosciuti io e la mamma, su come fossero venuti al mondo. Avrei dato loro risposte opportune, un misto di bugie bianche e certezze, e Marzia mi avrebbe donato il suo perfetto sguardo d’amore. Il silenzio della mia anima acquietata mi avrebbe confermato che tutti i dubbi erano stati solo un inciampo lungo il percorso.
Così andai avanti, e per un po’ ebbi notti serene.
Una mattina di fine estate però, la metro si bloccò senza un motivo apparente. Mi ritrovai a essere parte di una folla spazientita: vedevo tranci di vagone comparire in mezzo a tutte quelle schiene e facce sudate e nevrotiche, e dal nulla mi terrorizzò l’idea di morire calpestato o schiacciato. Davvero sarei potuto crepare in quel modo idiota, senza senso?
Quando le porte si riaprirono corsi alla prima cabina e dissi al mio supervisore che ero malato, avevo la febbre. Arrivato al portone mi bloccai: non potevo tornare a casa per rispondere alle domande di mio padre; né avevo idea di come affrontare la città durante i giorni feriali. Dove andavano le persone quando non andavano al lavoro?
Vagai senza meta per chissà quanto, prima di fermarmi su una panchina a guardare le foglie cadere.
Un’ora dopo entrai nell’androne, ma una volta nell’ascensore spinsi il bottone dell’ottavo piano. Citofonai. Non la vedevo da un mese e la sua faccia lasciava intendere che non fosse felice di vedermi. Nell’aria c’era odore di cannella e mandorla. Mi chiese cosa volessi, e di fare in fretta, che era impegnata. Balbettai, poi mi schiarii la voce. La ventiquattrore giaceva accanto allo specchio, eppure ne sentivo ancora il peso sul palmo. Ieri ho ricevuto una cartolina da tuo fratello. È arrivato a Teheran.
Lei rimase in silenzio.
C’era questo palazzo, continuai, questa gente con i vestiti strani. È la terza che ricevo. La prima da Atene, la seconda da Istanbul. Credo le abbia scattate lui. È appassionato di fotografia per caso?
Sentivo il suo sguardo su di me. Continuavo a fissare il tavolo, immobile come una statua di sale.
Provai a continuare ma le parole si strozzarono in gola. Le pareti dell’appartamento di Alice sembravano volermi ingoiare. La valigetta era lì, con dentro tutta la mia vita.
Io non sono stato in nessuno di questi posti, ti rendi conto? Anzi, ora che ci penso non sono mai nemmeno uscito dall’Italia.
Le raccontai dell’attacco di panico di poco prima. Le dissi che mi vergognavo all’idea di morire senza mai aver visto la Croazia, la Grecia, la Turchia, tutti i luoghi da cui Giorgio – un perfetto estraneo – mi aveva scritto. Non ricordavo neanche di preciso dove fosse, la Turchia.
Eppure quando incontro i miei vicini, quando vado a cena da Marzia, quando parlo con i miei, sembra che abbia una vita perfetta: un lavoro, una famiglia, a breve una casa. Ho tutto, e mi sembra di non avere niente.
Forse hai tutto quello che gli altri pensano tu debba avere, disse. Poi guardò lo specchio. La imitai e quello che trovai nella mia espressione riflessa mi spaventò. Quel sentimento aveva un nome ma non riuscii a pronunciarlo ad alta voce.
Sono solo quello che gli altri si aspettano io sia, dissi alla mia immagine.
Mi scusai con lei. Mi scusai perché anche lei ai miei occhi era stata solo ciò che gli altri si aspettavano lei fosse.
Non rispose. Si limitò ad alzarsi e cambiare stanza, per ritornare poco dopo con due enormi dizionari, uno russo e l’altro romeno. Li poggiò con un tonfo sul tavolo.
Così scoprii che i brutti ceffi che avevo incontrato in quei mesi erano uomini dell’est Europa, gente che si svegliava all’alba e andava a costruire le nostre case e a badare ai nostri vecchi. Arrivavano da noi nei modi più impensati e senza conoscere uno straccio di parola. Alice insegnava loro i rudimenti per poter quantomeno contrattare con i datori di lavoro che li pagavano una miseria.
Mentre parlava le mie mani avevano smesso di tremare, anche se mi accorgevo di stringerle come se quella valigetta ci fosse ancora attaccata.
Disse che capiva certi ragionamenti: poco importava che fossimo alle soglie del Duemila, se una ragazza vive sola e fa venire uomini dentro casa non può che essere una puttana. Quello che le dava fastidio era che nessuno avesse avuto le palle di chiederglielo.
Persone così ne trovi ovunque vai, continuò. Sono gli uomini sposati che ti offrono il caffè al bar sperando di rimediare una scopata; sono le mogli di quegli uomini che additano te, anziché i mariti, anche se il caffè l’hai rifiutato. Ma sono pronta a scommettere che quando me ne andrò si sperticheranno a dirmi quanto sono dispiaciuti eccetera.
Non seppi cosa replicare. Avrei offeso la sua intelligenza se avessi provato a negare.
Solo dopo qualche secondo realizzai quello che aveva detto. Perché vuoi andartene?
Alzò le spalle, un gesto a cui ormai mi ero abituato. Non resto mai a lungo nello stesso posto.
Perché?
Non sopporto i posti chiusi. Su questo ammetto che Giorgio mi ha influenzato, anche se non ho ancora trovato il suo coraggio. Da quando ha letto Kerouac sta sempre a dire che, anche se non sappiamo dove, dobbiamo andare. Dobbiamo sempre andare. E vedere cose nuove.
Non avevo idea di chi fosse Kerouac, ma fu in quel momento che le chiesi dello zerbino. Un altro mistero che si scioglieva con una semplice domanda.
Però non capisco ancora perché cambi casa.
Vuoi proprio saperlo?
Sì.
Perché?
Perché sono curioso.
Perché?
C’è bisogno di un motivo per essere curiosi?
Si aprì in quel sorriso che ricordavo bene. Mi tornò la voglia di baciarla, di prenderla su quel divano sudicio, di assaporare una pelle nuova e nuovi modi di provare vergogna.
Tu perché stai comprando casa? chiese.
Be’, perché è tempo.
Tempo per cosa?
Ho ventisei anni, un lavoro, una fidanzata. È tempo.
E come mai proprio con lei?
E con chi altri sennò? È la mia fidanzata.
Allargò le braccia come a voler includere il vuoto intorno a sé.
Io da solo non ci so stare, dissi.
E quindi devi per forza accompagnarti con qualcun altro?
Non è solo quello.
Allora cosa?
Stiamo insieme da una vita.
E allora? State insieme da una vita quindi ti senti obbligato ad andare a vivere con lei?
Non mi sento obbligato. E non è neanche per non sentirmi solo. Non so come spiegarlo.
Allora perché, Nicola? Perché vuoi andare a vivere con Marzia?
Aprii la bocca ma non ne uscì niente, solo un gorgoglio inquieto. Rimanemmo così per un po’, poi si alzò. Tu non lo sai perché stai facendo tutto questo, disse. Quindi perché dovrei raccontarti la mia storia?
Per la seconda volta mettevo piede in casa di Alice, per la seconda volta ne uscivo umiliato.

Mentre l’estate cedeva il passo all’ultimo autunno che avrei dovuto trascorrere a casa di mamma e papà, io sprofondavo. Al lavoro restavo a fissare le pratiche come fossero oggetti alieni, quando uscivo facevo interminabili giri senza senso per non cenare con i miei. Prima di andare a dormire, provavo a ricostruire il modo in cui avevo trascorso la giornata e nei rari momenti di lucidità cercavo di rispondere alla domanda di Alice. Non avevo intenzione di tornare da lei senza una risposta.
Le notti, poi, le passavo svuotando gli scatoloni che di giorno tornavo a riempire. Quando mi addormentavo, ero preda di incubi orribili in cui cadevo nel vuoto o salivo scale infinite.
Una sera, al telefono, Marzia mi stava rimproverando perché le mie cose erano ancora a casa dei miei. Trovava assurdo che ci stessi mettendo così tanto per decidere cosa portare. Sono certo di averle detto qualcosa in risposta, e che lei si sia infuriata perché non era la risposta che si aspettava. Non riuscivo a seguire il filo del discorso e dopo due o tre domande a vuoto riattaccò. Altre volte avevamo discusso in modo simile. Alla fine la richiamavo sempre, perché quello era il mio compito. Quella volta però non lo feci. Rimasi a fissare i tasti consumati del telefono come se avessi dimenticato il modo per usarlo. Andai in bagno a darmi una sciacquata. Appena mi fossi calmato, dicevo, l’avrei richiamata. Mi addormentai.
Quella notte aprii gli occhi all’improvviso e andai ad aprire l’unico scatolone già imballato, riempito un paio di mesi prima quando tutto era ancora perfetto. Lo rivoltai finché non trovai qualcosa. Non ricordo più di cosa si trattasse: so solo che si trattava di qualcosa che un tempo era stato importante.
Mi ritrovai a piangere in silenzio, fino a sentire i crampi allo stomaco.
Piansi perché sentivo che quella cosa trovata in fondo allo scatolone, qualsiasi cosa fosse, non ci apparteneva più. Me la rigiravo tra le mani sperando nel miracolo, invece continuava a restituirmi la stessa inutile risposta.

Qualche giorno dopo Alice mi trovò seduto sul suo zerbino girato al contrario. Avevo passato tutto il giorno sul letto a luci spente, fissando un soffitto che ora mi sembrava un’ancora di salvezza. La vidi comparire dalle scale con la busta della spesa e per un istante tutto rimase immobile. Ci guardammo. I suoi capelli assurdi, la mia miseria. Due diverse solitudini.
Si mosse per aprire la porta e io la seguii senza una ragione.
La osservai riempire il frigo. Ero paralizzato, come se avessi perso le istruzioni per muovere il mio stesso corpo. Ero un fantasma nel suo appartamento, un fantasma nella mia vita.
Passò forse mezz’ora così. Accese degli incensi, preparò una tisana, me la porse. La bevve bollente, io aspettai che si freddasse. Non mi chiese cosa volessi.
Poi, all’improvviso, mi prese per mano e mi condusse in camera sua.
Alla vista del letto il mio corpo sembrò risvegliarsi. Mi ritrovai eccitato, la gola secca, ma poi capii che non sarebbe successo quello che pensavo. Aprì la finestra, uscì sul balcone. Prese la scala, l’appoggiò al muro, salì. In quel momento mi svegliai dal torpore e le vertigini arrivarono con un pugno allo stomaco. Per poco non vomitai. Mi aggrappai alla ringhiera, costringendomi a non guardare giù. A occhi chiusi i rumori della città si confondevano; da lassù il mondo si riduceva a un groviglio inestricabile.
Rimasi a guardare la sua mano tesa per chissà quanto tempo. Poi l’afferrai. In qualche modo ordinai alle mie gambe di non cedere. Misi un piede sopra l’altro, ancora un passo. Mi sembrava di galleggiare nel vuoto.
Non ero mai salito sul terrazzo. Le luci della periferia erano sempre state sopra di me: macchine, semafori, negozi in chiusura, finestre illuminate. Sotto di me, in quel momento, scorreva la vita in cui mi ero ritrovato ingolfato.
Vengo spesso qui a vedere il cielo, disse d’un tratto.
Valutai quella sua frase. Dopo qualche secondo risposi che avevo sempre amato i piani bassi e preferito la terra. La terra mi trasmetteva sicurezza.
Indicò il punto in cui un aereo stava spuntando dalle nuvole. Non potrei fare a meno di un terrazzo, disse, per questo prendo in affitto sempre all’ultimo piano.
Perché? chiesi.
Mi rilassa.
Tutto qui?
Mi guardò con un sorriso teatrale, studiato. Vuoi proprio saperlo?
Sì, voglio saperlo.
È la seconda che vuoi sapere qualcosa di me, eppure da te non ho ancora avuto una risposta.
Hai ragione. Ma sono venuto per quello.
Ah, bene. Si sedette sul cornicione e lasciò penzolare le gambe. Ti ascolto.
Da quando io e Marzia abbiamo messo quella firma—
Vieni a sederti vicino a me.
Soffro di vertigini.
Io soffro per tante cose, eppure sono ancora viva.
Con lentezza camminai fino al bordo, senza mai guardare giù. Mi fece sedere alla sua destra, dalla parte in cui i lunghissimi capelli ondeggiavano appena nel vento leggero.
Ancora una volta le raccontai tutto. Anche di quella cosa importante che avevo trovato nello scatolone: di come ero certo che fosse stata importante eppure avesse perso ogni significato. Le parole sembravano uscire da sole, come se per anni le avessi ingabbiate per non farmele scappare.
Alla fine, quando ogni cosa fu detta, fra noi due non rimase nulla se non una minuscola ma fondamentale verità. Ora che tutto volgeva al termine, ora che non avrei più potuto fingere di non sapere, mi sentivo finalmente libero.
Rimasi a fissare un punto lontano, in direzione delle gru che sfregiavano la città. Da qualche parte, immersa in un cantiere edile, c’era una casa con dentro gli scatoloni di Marzia.
Quando Alice parlò, sembrò passata un’era. Da piccola odiavo le mie orecchie a sventola, disse. A scuola mi prendevano sempre in giro. Mi paragonavano a Dumbo, me le tiravano. Cose del genere. Cose che sono capitate a tutti. Così, per coprirle cominciai a portare i capelli lunghi.
I bambini sanno essere cattivi. Mentre dicevo quella frase mi accorsi di quanto suonasse banale.
Non è colpa loro, fece lei. Il male ci si incolla addosso, e a volte ci vuole una vita a tornare puliti.
Rimasi in silenzio. Lei continuò.
Quando i nostri genitori sono morti, io e Giorgio siamo andati a vivere da uno zio, il fratello di nostro padre. Era una persona strana, fissato con la caccia e la tassidermia. Io andavo alle medie, mio fratello già alle superiori. I suoi discorsi ci inquietavano, per cui dopo cena ci incontravamo sul terrazzo. Parlavamo di tutto ciò che succedeva durante il giorno. Parlavamo dei posti da vedere insieme, quando fossimo cresciuti. Ci facevamo forza costruendoci un mondo nostro, perché quello in cui vivevamo ci disgustava. Ci faceva soffrire. Capisci cosa intendo?
Feci segno di sì. A quel punto si girò verso di me. Pensai che volesse aggiungere qualcos’altro ma rimase in silenzio. Sembrava incerta su cosa fare. Tornò a guardare in lontananza, verso le gru. Dopo qualche tempo si voltò di nuovo, poi chiuse gli occhi e un dolore la attraversò. Vidi le sue labbra tremare e una scossa vibrarle sul viso.
Con un gesto ampio ma controllato si scostò la marea di capelli neri.
Non posso dimenticare i colori di quel cielo al tramonto, né quegli occhi neri colmi di una tristezza profonda come l’abisso. Ma soprattutto non posso dimenticare quella cicatrice mostruosa, là dove avrebbe dovuto esserci l’orecchio destro. Sembrava carne macinata malamente appiccicata sulla sua guancia.
Le chiesi cosa fosse successo. Fece un sorriso molle. Un sorriso stanco, dietro il quale si annidavano centinaia di notti insonni.
Sicuro di voler sapere tutta la storia? disse. Ricorda che sei ancora in debito di una domanda.
Ci pensai un istante appena. Risposi che no, forse quella parte volevo risparmiarmela. Almeno per quella sera.
Certi orrori ci restano addosso, disse. Se siamo quel che siamo, è anche a causa loro.
Vorrei avere la tua saggezza.
La mia non è saggezza.
E cos’è, allora?
Alzò le spalle. Non so che nome dare a questa cosa. Non è importante. Cosa farai ora?
Non lo so, risposi. Non lo so proprio. Mi sento come se fossi condannato a percorrere ogni giorno la stessa strada. Magari finirò come Angelo, che ogni mattina annaffia i tulipani per la moglie. È morta sei anni fa, santo Dio.
Ognuno ha i propri modi per superare il dolore, no?
Sì ma qui non c’è niente da superare. Qui tutto è fermo, Alice. Il tempo è tutto ciò che abbiamo, eppure…
Eppure?
Non lo so. Voglio ditre: come fai a vivere sapendo di aver sbagliato tutto?
Alice mi mise il dito davanti al naso, poi stese il braccio. Cosa c’è laggiù?
Lì… lì ci sono delle gru.
E più oltre?
Un cantiere.
E più oltre?
Si va verso Frascati.
E poi? continuò con lo stesso tono.
Non lo so. In geografia facevo schifo.
Ecco. Potresti cominciare da qui, allora.
Dalla geografia?
No, scemo, disse intrecciando la sua mano alla mia. Da ciò che non conosci.

Quello che accadde dopo è una storia che ho rivissuto decine di volte. La parte più semplice fu spiegare i miei perché. La più difficile fu rimanere coerente. Voltarsi e tornare sul sentiero già tracciato sarebbe stato semplice, ma sapevo che sarei anche andato incontro alla mia condanna. I miei non presero bene neanche le dimissioni da un lavoro che consideravano perfetto. Dissero che stavo gettando all’aria tutto per andare appresso a una perfetta sconosciuta.
Non capivano che Alice aveva solo raccolto la mano che le avevo teso.
Inoltre, anche volendo non c’era verso che potessi seguirla. Verso Natale era arrivata una cartolina da Nuova Delhi. Il mio macinino si è arreso, diceva, ma non l’ho trovato un buon motivo per fermarmi. Abbi cura di mia sorella. Ps: non ti dare noia a rispondere, mi sto già spostando altrove.
Anche se avessi saputo dove indirizzare la risposta, non avrei potuto dirgli niente su Alice. Come aveva promesso, se n’era andata un giorno di dicembre senza dire niente a nessuno, nemmeno a me.
Quello che i miei genitori non capivano, dunque, era che quel che stavo facendo non era per Alice o per qualche altra ragazza. Era per me, soltanto per me. Dovevo essere io a tracciare il sentiero da percorrere.
Ci volle tempo perché capissero, e ancor di più perché accettassero. Anche io del resto ho dovuto accettare il fatto che Marzia abbia avuto due figli dall’uomo che poi ha sposato, sebbene con me si fosse sempre rifiutata anche solo di parlarne.
Qualche anno fa, quando ormai vivevo da un po’ in questa casa, dai miei arrivò una foto. Una donna dalla pelle d’ebano teneva in braccio un neonato e sorrideva appoggiata a una Jeep impolverata. Sullo sfondo i grattacieli intorno all’Uhuru park. Non c’era scritto niente sul retro. Solo una data, con la solita grafia obliqua che ormai avrei riconosciuto ovunque.
La mostrai a Serena. Lei la guardò per un minuto buono prima di chiedermi da parte di chi fosse.
Di un amico, dissi. Che dopo tanto tempo ha trovato un buon motivo per fermarsi.
Potremmo andare a trovarlo, questo tuo amico, rispose. Per portargli un regalo. Sollevò lo sguardo e mi sfiorò le labbra appena. E poi non sono mai stata in Kenya.
Neanche io c’ero mai stato. Fu così che ci prendemmo tutti e due delle ferie inaspettate e andammo a conoscere Edith e il piccolo Jack. Fu davanti a un tramonto splendido, appoggiati al suo fuoristrada, che Giorgio mi raccontò della vita di Alice a Bucarest. Aveva cambiato mille lavori e mille case; ne avrebbe cambiati ancora.
Mi chiese se avessimo mai combinato qualcosa. Gli risposi che quello era un segreto fra me e lei.

Stasera, dopo cena, Serena è venuta da me con un libro. Aveva gli occhi stanchi per il lavoro, ma emanavano una luce invincibile. Lo ha aperto e si è schiarita la voce.
Ma per favore, con leggerezza, raccontami ogni cosa, anche la tua tristezza.
La conoscevo già. Me la recitò Alice una delle ultime volte. Ricordo che le tremava la voce mentre mi raccontava di quando aveva incontrato l’autrice di quei versi a Torino. Un brivido mi è salito lungo la schiena a risentire quelle parole dopo tanto tempo. Siamo rimasti in silenzio, sapendo quanto inutili sarebbero state le parole.
Dopo aver messo a dormire Paolo sono salito sul terrazzo a fissare il cielo. A volte Serena mi raggiunge, ma non oggi. Sa che in serate come queste mi ritrovo a pensare alla ragazza dell’ultimo piano, come a qualcosa che un tempo è stato importante e che ancora mi appartiene.
Aerei sorvolano la città, tagliando le costellazioni che negli anni ho imparato a riconoscere.
Su alcuni sono salito, su molti altri ancora no.



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